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venerdì 28 novembre 2014

"STORIA DELLE COSE DI SICILIA (1250-1285)" - RECENSIONE DI ANTONIO MAZZA

2014-11-17 10.31.44“Explicit liber gestorum regum Siciliae a nativitate Manfredi usque ad obitum regis Caroli”, ovvero qui termina il libro delle gesta dei re di Sicilia dalla nascita di Manfredi alla morte di re Carlo, scritto da Saba Malaspina regnante papa Martino IV. In realtà si tratta di dieci volumi che coprono un arco di tempo di 25 anni, dal 1250 al 1285, un periodo cruciale per la storia di Sicilia che, orfana della guida illuminata di Federico II, “Stupor Mundi”, con il figlio Manfredi vide la fine del dominio degli Hohenstaufen e l’affermarsi della casa d’Angiò. Saba, cronista romano, registra il corso degli eventi e, pur essendo dichiaratamente guelfo, non pecca di faziosità, deprecando anche gli eccessi della sua parte. “La sua lingua è oscura e difficile, ma vi traspare uno spirito forte e veritiero”, commenta il Gregorovius nella monumentale “Storia di Roma nel medioevo”, ed è vero, Saba talvolta risulta quasi criptico ma pochi come lui hanno documentato un periodo così tormentato come la fase di passaggio della Sicilia dagli Svevi agli Angioini e poi agli Aragona. E dunque va a tutto merito della Ciolfi di Cassino l’aver riproposto la “chronica” di anni tumultuosi: “Storia delle cose di Sicilia” (1250-1285), 19° volume di quella splendida collana di studi medioevali che è il fiore all’occhiello della storica casa editrice frusinate. Federico II muore lasciando due figli, Corrado e Manfredi. Il primo assume il governo della Sicilia e, quando si ammala, il fratello trama per succedergli (storicamente mai confermato, Saba riporta solo le voci che parlano di avvelenamento).  Anche se legittimo erede è Corradino, Manfredi, suo  tutore, esercita il potere suscitando le ire della chiesa, ostile alla causa sveva, e, quando si fa incoronare a Palermo, viene scomunicato da papa Urbano IV. Questi si rivolge alla Francia, nella persona di Carlo d’Angiò, ed inizia il dissidio in quell’ottica di scontro guelfi-ghibellini che caratterizza l’Italia dei secoli XIII e XIV. La stessa Roma è dilaniata dalle lotte di fazione e Manfredi vi trova alleati qui come al nord e al centro Italia, ma non riesce, anche per improvvise defezioni (come Pietro, dei famosi Prefetti di Vico), a contrastare Carlo che viene incoronato in San Pietro il 6 gennaio 1266. 
La situazione precipita, Manfredi arringa i suoi, un nobile ma inutile discorso (pag.97), perché i Franchi, dopo aver espugnato Rocca d’Arce, assediano Benevento e ne segue una carneficina che Saba riporta con toni di crudo realismo. E’ una lunga sequenza di atrocità che culmina nella morte di Manfredi e nel saccheggio di Benevento, con i Franchi che si distinguono per ferocia (pag.111 e seguenti). I superstiti, aiutati anche dalle fazioni ghibelline del centro Italia (i Pisani e, a Roma, la potente famiglia dei Capocci), invocano l’intervento di Corradino che giunge nella capitale accolto trionfalmente (“Corradinus Romam venit, miraque laetitia ac honore excipitur”). I due eserciti si scontrano a Tagliacozzo e se la prima fase arride ai tedeschi dopo è la disfatta, i Provenzali non hanno pietà ed il giovane condottiero svevo, tradito da Giovanni Frangipane, viene giustiziato a Napoli, in Piazza del Mercato. Carlo si vendica facendo suppliziare gli alleati di Corradino e distruggendo Lucera, presa per fame (“molti uscivano a raccogliere erbe di cui si pascevano come bestie”), dove erano i saraceni esiliati da Federico II, fedeli alla causa sveva. Eletto vicario dell’impero e “difensor fidei” Carlo fa gli interessi della chiesa perseguitando i ghibellini ed anche la ribelle Pisa si deve sottomettere ma inizia a serpeggiare il malcontento. La causa è nelle vessazioni dei funzionari ed ufficiali franchi ai danni del popolo siciliano e della chiesa stessa, che li denuncia nel Concilio di Lione del 1274. I soprusi continuano e Saba ne è testimone (“vidi spesso i viaggiatori buttati giù da cavallo dai Franchi che ne prendevano il posto”) e Re Carlo, pur sollecitato, non interviene. Frattanto al soglio pontificio è succeduto Nicola III, il quale cerca di contenere la prepotenza degli angioini, ristabilendo un minimo di diritto, ma una nuova tempesta s’addensa all’orizzonte. Pietro d’Aragona, che ha sposato Costanza, figlia di Manfredi, rivendica la corona di Sicilia e non deve aspettare molto, perché è scoppiata la rivolta dei Vespri. Offesi dai Franchi gli isolani ne fanno strage (atroce la descrizione a pag.305) e Carlo, sostenuto dal nuovo papa, Martino IV, che scomunica i siciliani, con l’aiuto di truppe fresche provenzali e dei pisani, assedia Messina. Dal canto suo Pietro è accolto come un liberatore a Palermo e, a seguito di uno scambio epistolare, si decide per un duello alla pari che si terrà nella piana di Burdigara (Bordeaux): 100 Catalani contro 100 Franchi. Ma la sfida non ha luogo e, invece, si svolge una battaglia navale nel golfo di Napoli (magnifica e terribile la descrizione che ne dà il Malaspina), dove viene fatto prigioniero Filippo, secondogenito di Carlo. Ma ormai si avvicina la fine e re Carlo, deluso e febbricitante, dopo aver preso i sacramenti muore a Foggia, in Capitanata, il 7 gennaio 1285. Ovviamente ho sintetizzato questo quarto di secolo di storia medievale perché è impossibile citare tutti gli avvenimenti ed i personaggi che s’intrecciano nelle pagine. Non solo i protagonisti, Manfredi, Carlo, Corradino, Pietro d’Aragona ed i papi di volta in volta favorevoli all’uno o all’altro, ma le figure di contorno, che meriterebbero uno spazio a parte (singoli come Corrado di Antiochia e Ruggero di Lauria o di massa, come gli Almogaveri, soldati di fanteria di ventura). Di certo “Storie delle cose di Sicilia”, con testo latino a fronte (“Rerum Sicularum Historia”, egregiamente tradotto da Francesco De Rosa), è un trattato di storiografia di particolare fascino in quanto chi scrive è testimone diretto o indiretto degli eventi. E’ di parte, guelfo e papalino, ma se critica gli Svevi non manca di biasimare gli eccessi degli angioini. Il suo stile oscilla fra una prosa scabra ed un incedere aulico, ai limiti della retorica, e, a chi ha del latino non solo vaghe reminiscenze scolastiche, consiglio la lettura dell’originale, che offre spesso passaggi di notevole bellezza (come quello relativo a Corradino, in attesa dell’esecuzione: “Juvenili ergo sanguine in poculo crudelitatis absorto, ad terram dejicitur pueritia, et perdita est Juventus”). Naturalmentel’intera narrazione è attraversata dal soffio divino, per così dire, ovvero quel citare continuamente la Provvidenza quale sfondo “morale” alla storia, come è nei canoni della letteratura medievale. In conclusione un volumetto godibilissimo, raccomandato non solo agli studiosi dell’èra di mezzo ma anche a chi, profano, ne mastica poco e vuol saperne di più. E c’è ancora chi li chiama secoli bui…

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