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venerdì 28 novembre 2014

"LA MONARCHIA CATTOLICA NEL GOVERNO DEGLI STATI ITALIANI", RECENSIONE DI ANTONIO MARRA. EDITO DA CIOLFI EDITORE

Splendido paese l’Italia, non solo per le nostre bellezze d’arte e di natura, ma per la nostra storia, che è come un complesso quanto fascinoso stratificarsi di culture che, dopo la caduta dell’impero romano, si sono sovrapposte le une alle altre. Ed hanno formato una continuità nella diversità, per così dire, come le ère geologiche, sedimenti il cui insieme ha forgiato la nostra coscienza collettiva, un denso e gustoso meticciato culturale i cui segni sono sparsi ovunque sul corpo antico della penisola. E questi sedimenti  non sempre sono evidenti, perché altre realtà vi si sono addossate, spesso soffocandole brutalmente (quante testimonianze del passato distrutte dalla speculazione edilizia o dalla semplice incuria), e allora interviene lo studioso a “leggere” e ricostruire l’immagine racchiusa in quei graffiti che vengono da lontano. E’ esattamente l’operazione compiuta da Vittorio Ricci, docente di matematica nonché valido cultore di storia locale, che nella sua Vallecorsa, simpatico paesino del frusinate, ha preso spunto dallo stemma di una casata spagnola per un viaggio a ritroso nel tempo. Che tale è “La monarchia cattolica nel governo degli stati  italiani”, quando nel  XVI secolo la Spagna  dominava  praticamente mezzo paese (Milano, lo Stato dei  Presidi, il regno delle Due Sicilie, la Sardegna). E, seguendo  le storie  dei  due fratelli cui quello stemma apparteneva, rivive soprattutto la Spagna di Filippo II, nella munificenza del “Siglo de oro”, quando essa era al massimo del suo splendore, politico e culturale. Da un lato le risorse che venivano dalle colonie americane (ma anche sul continente, dalle Fiandre all’Italia) e, dall’altro, un fermento artistico che la impose a livello europeo ( la pittura, con i “retablos” di Alonso Berruguete o le arsure di El Greco, che rimandano ai grandi mistici come Teresa de Avila o San Juan de la Cruz, la musica, con Victoria, Morales,  Cabezòn,  le lettere,  Lope de Vega, Quevedo, Cervantes).  Sullo sfondo l’Inquisizione con tutta la tragicità degli autodafé (e l’insofferenza  verso le idee di Erasmo e Copernico che, in auge nel resto di Europa, cominciavano a penetrare anche in Spagna, nella cattolicissima Spagna, mettendone in discussione le certezze).  E questa è l’ “Hispanidad”, un clima, un modo di essere, insieme  splendido e terribile, che fa unico quel  periodo storico, nel quale agiscono i due grandi protagonisti  del libro di Ricci, Luis de Requesens  e  Juan de Zùniga. Dunque Vallecorsa, in terra di Campagna (provincia del Lazio di allora), dove operò il pittore manierista Jacopo Zucchi, allievo del  Vasari, ed ecco un altro aggancio: il polittico della chiesa di S.Michele, forse commissionato da Juan de Zuniga che, ambasciatore a Roma presso il papa, aveva sicuramente conosciuto l’artista al lavoro nelle cappelle vaticane.  E di qui siamo proiettati nella penisola iberica, sotto il dominio degli Asburgo di Spagna, dove Carlo V e poi il figlio, Filippo II, volevano creare una “Respublica Christiana”, che inglobasse gli altri paesi  europei  come baluardo contro il mondo arabo. Peraltro, con i “re cattolici” era finito il periodo aureo di “El-Andalus”, la Spagna islamica, restando solo aree isolate che, nel 1568, si sollevarono per ripristinare un regno musulmano. E fu la guerra delle Alpujarras, lunga e sanguinosa, con atrocità da entrambe le parti, una faticosa campagna dove si distinse Luis de Requesens.  Cresciuto alla corte di Filippo, come paggio dell’infante (lui e il re erano coetanei), divenne poi suo stimato consigliere, col titolo di “Comendador mayor”.  E, intorno, un’aura raffinata, dallo stesso re che curava personalmente la sua biblioteca nel palazzo del El Escorial a personalità di rilievo, come Mencia de Mendoza, con il suo cenacolo d’arte, o il duca d’Alba, elegante cortigiano (“arte cortesana maestra de la humana y dulce vida”).  Dal canto suo Juan era attivo a Roma, come ambasciatore presso Pio V, continuando l’azione diplomatica del  fratello Luis (già con Pio IV) per appianare ogni divergenza col  Vaticano in materia di giurisdizione. Ma, soprattutto caldeggiata da Pio V, stava prendendo corpo la Lega Santa,  per  frenare l’espansionismo islamico. Spagnoli, veneziani e pontifici, una flotta imponente al comando di Juan de Austria, fratellastro di Filippo II, con Antonio Colonna quale luogotenente. Però Filippo, “El  rey prudente”, volle Resequens ad affiancare Juan, non fidandosi della sua impulsività, compito che don Luis assolse con molta discrezione. Risolte le tensioni e le rivalità fra le varie componenti della Lega grazie all’abile lavorìo diplomatico dei due fratelli, uno a Roma, l’altro in mare, l’Armada mosse contro la flotta della Sublime Porta, distruggendola  a Lepanto il 7 ottobre 1571 (del corpo di spedizione faceva parte anche Miguel Cervantes, che venne ferito). E’ il trionfo di Resequens, che dopo viene nominato governatore di Milano, tappa importante del “Camino Espanol”, la via che portava ai Paesi Bassi. Un soggiorno non facile, per i violenti contrasti con il cardinale Carlo Borromeo, difensore dei privilegi ecclesiastici, che gli procurò addirittura una scomunica, poi revocata da Gregorio XIII. E difficile fu anche l’incarico successivo, che don Luis accettò solo per dedizione al re, quello di capitano generale delle Fiandre. Qui il pugno di ferro del duca d’Alba aveva seminato i germi dell’odio ed a nulla valse la politica moderata di Resequens, la rivolta scoppiò con violenza, guidata da Guglielmo d’Orange, e furono giorni di sangue e di massacri  (la notte di S.Bartolomeo). Inoltre ci furono ammutinamenti nel “tercio”, la fanteria spagnola e don Luis, stanco, sfiduciato e malato, morì a Bruxelles, il 5 marzo 1576. Filippo perse un leale servitore, ma fu una perdita immensa per la politica spagnola nel suo insieme, che già, sul finire del secolo, vide iniziare il proprio declino (la sconfitta navale della Invincibile Armada ad opera degli inglesi) . Pur affranto, per il forte legame che aveva con il fratello, Juan de Zuniga continuò nella strada da lui tracciata, cioè quella del buon governo al servizio del re. E buon governo infatti fu quello che svolse a Napoli, come Gran Vicerè, soprattutto con la “Prammatica”, per  contrastare la criminalità diffusa e la corruzione che imperava ovunque (e appare, per la prima volta, in un editto,  il termine “camorrare”. L’origine storica della camorra si fa risalire al 1600, anno più anno meno).  Promosse anche delle ristrutturazioni urbanistiche, in seguito sviluppate da Domenico Fontana, “Ingegnere Maggiore del Regno” (Fontana, l’architetto di Sisto V). Concluso il mandato tornò in patria, dove divenne precettore dell’infante Filippo III, l’erede al trono, ma le sue già precarie condizioni di salute si aggravarono ed egli spirò il 16 novembre 1586 (a Castel  Capuano figurano iscrizioni ed armi di “Don Ioannes  Zunica  Neapolis  Prorex”). Finisce così la vicenda terrena di due fratelli che hanno avuto un ruolo importante non solo nella storia della Spagna del ‘500 ma nella storia dell’Europa di quel secolo. Due vite poco esplorate che ora il saggio di Ricci ripercorre senza la pedanteria propria degli studi di carattere storico, bensì con uno stile a mezzo fra il romanzo ed il ritratto biografico. Ne risulta una lettura agibile anche al profano, ricca di note e richiami che rendono quasi palpabile il periodo esaminato, quel “Siglo de oro” che è poi il Rinascimento spagnolo, indubbiamente più sfumato ed introverso del nostro, decisamente solare, ma questo è lo spirito della “Hispanidad”, fiero e tragico ad un tempo. E nel libro rivive la Spagna della leggenda, quella degli “Infanti di Lara” e del Cid, dei regni di Castiglia e di Navarra, delle lotte contro i mori, la Spagna delle ballate al ritmo delle “vihuelas”. Come corollario le “Stanze” di Pietro Campollonio (Napoli, 1580), dedicate “Alla eccellenza dell’illustrissimo et eccellentissimo signor don Giovanni di Zunica”, nello stile barocco del tempo, e la riproduzione di documenti di notevole interesse storico (come la bozza d’accordo sulla Costituzione della Lega Santa). Ma è il libro in sé a risultare accattivante, per quel  suo linguaggio immediato, dal ritmo sostenuto, che coinvolge il lettore sin dalle prime pagine. E questo, lo ripeto, per un saggio di carattere storico è un punto in più: d’altronde la casa editrice è la Ciolfi di Cassino, che da sempre punta al binomio ricerca-qualità (vedi la collana medioevale). 

Recensione di Antonio Mazza per il sito "la voce di tutti"

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