Disteso sul letto, Piero, figlio di Cosimo de' Medici, cui era succeduto nella guida di Firenze nel 1464, oramai stava per passare all'altro mondo. In realtà fin da giovane la sua salute era stata pessima (non per nulla lo soprannominarono “il Gottoso”), ma stavolta ogni speranza era vana. Chiunque, nell'ora della fine, avrebbe pensato alla propria anima e passato in rassegna i peccati e le buone azioni della propria vita. Chiunque, ma non Piero. Fino all'ultimo, tentò infatti di placare tanto le ambizioni dei nemici quanto il fanatismo dei suoi seguaci, ma, per farlo, non aveva altro strumento che la lingua, spossato com'era nel fisico dalla lunga malattia. A questi suoi “onestissimi pensieri” si frappose, infine, la morte, avvenuta il 2 dicembre 1469. Fu sepolto nella vecchia sacrestia di San Lorenzo, “e furno le sue esequie fatte con quella pompa che tanto cittadino meritava”, narra il Machiavelli, pieno di ammirazione. Firenze intera pianse la perdita di Piero. Il dolore e la mestizia, tuttavia, furono accantonati in fretta perché incombeva l'annoso problema della successione nella guida della città. A chi affidare lo Stato dunque? Nonostante i subdoli tentativi veneziani di favorire la restaurazione di un'oligarchia allargata, i principali esponenti delle famiglie fiorentine implorarono il figlio di Piero, Lorenzo, affinché si assumesse la cura della politica cittadina. Quest'ultimo accettò, associandosi però nell'oneroso incarico il fratello minore Giuliano, di quattro anni più giovane. Appena maritato alla principessa romana Clarice Orsini, Lorenzo era all'epoca solo ventenne, eppure già aveva in sé le doti del principe perfetto: era colto grazie all'educazione impartitagli dalla madre, Lucrezia Tornabuoni, acutissimo, fascinoso, amante della poesia. Non bisognava farsi ingannare dalle maniere gentili e dall'apparente semplicità: aveva spiccate doti diplomatiche, intuito politico e la spregiudicatezza necessaria per perseguire qualunque risultato. All'occorrenza poteva perfino divenire spietato, come dimostrò quando inviò bande mercenarie contro la ribelle Volterra per metterla a sacco. Era, senza ombra di dubbio, un uomo straordinario, eccezionale, “Magnifico”, come lo definirono. Se è vero che per dominare sulla città fiorentina tre erano i requisiti, ossia “buoni rapporti di parentela con le altre famiglie che contavano, ricchezza e accesso alle cariche pubbliche” (Franco Cardini), Lorenzo riuscì a soddisfarli perfettamente per tutta la lunga durata del suo governo, come del resto avevano fatto Cosimo e Piero. Unica pecca: tra poesie d'amore, piene di fiori e di api, e incontri diplomatici, non era infrequente che il Magnifico trascurasse i suoi doveri e responsabilità nella gestione dell'attività bancaria. Non a caso, Giovanni Tornabuoni, direttore della banca Medici a Roma, dovette fronteggiare più di un bilancio negativo, mentre Lorenzo, forse con ingratitudine, si disinteressava dell'impresa di famiglia e delle sue alterne vicende. Quali che fossero le sue colpe e le sue virtù, le fonti dell'epoca, anche le più autorevoli, parlano, riferendosi agli anni in cui Lorenzo reggeva lo Stato fiorentino, di “somma pace per la città”, di cittadini “uniti”, di una potenza detenuta dal Magnifico tale “che nessuno si ardiva a contradirlo”. In politica estera non fu da meno: tutt'oggi infatti gli storici restano sorpresi della serenità, dell'armonia che Lorenzo seppe dare all'Italia intera, asservendo ogni sua dote politica al rafforzamento degli accordi presi con la pace di Lodi (1454) e dei rapporti fra gli Stati all'interno della Lega Italica. Di questi due capolavori della diplomazia, infatti, l'artefice fu Cosimo, ma chi loro diede piena applicazione fu il Magnifico, non per nulla chiamato sovente “l'ago della bilancia” della politica italiana. Fin qui sembrerebbe ci fossero, per Lorenzo e i Medici, ben poche nubi all'orizzonte. Tuttavia, sebbene silenziosamente, si profilavano dei gravi mutamenti rispetto all'assetto costituitosi sotto Cosimo e Piero. D'altra parte a Firenze, nel 1470, racconta Luzzatto, si contavano circa 32 case bancarie, agguerrite le une con le altre e con i Medici stessi in un regime di spietata competitività, e
moltissime erano le famiglie dell'aristocrazia che, come era prevedibile, avevano iniziato a divenire sempre più insofferenti al potere mediceo, per quanto si celasse dietro le formalità delle istituzioni repubblicane (secondo la prassi avviata da Cosimo). Le cronache dell'epoca raccontano che spesso Lorenzo fu addirittura costretto, con suo grande rammarico, a partecipare ad ogni sorta di assemblea politica, al fine di assicurarsi che i suoi stessi sostenitori votassero in suo favore. Facile intuire perciò che i nemici, in tempi relativamente brevi, aumentarono, fino a raggiungere proporzioni inquietanti. Anzitutto c'era il papa, Sisto IV, un francescano genovese di nome Francesco della Rovere. A dirla tutta, i rapporti tra questo e il Magnifico erano iniziati piuttosto bene, in quanto Lorenzo, come lui stesso narra nei suoi brevi “Ricordi”, viaggiò personalmente a Roma per assistere all'incoronazione del nuovo pontefice (1471), dal quale ricevette in dono degli splendidi busti antichi raffiguranti Augusto e Agrippa. Ma il nuovo papa, in realtà, dimostrò molto presto, attraverso una politica “nepotista”, tesa a piazzare parenti e amici in posizioni politiche e religiose strategiche, di avere ambizioni difficilmente conciliabili con l'esistenza di un potentato peninsulare come quello mediceo. Poi c'erano i Pazzi. Erano una famiglia antichissima, tanto che, per dirne una, Pazzo de' Pazzi aveva partecipato alla prima Crociata. Fecero enorme fortuna nell'attività bancaria e divennero, proprio come i Medici, una potenza economica mondiale. D'altro canto non ogni famiglia benestante poteva permettersi di far costruire una cappella come quella che commissionarono al Brunelleschi e che ancora oggi si trova nei pressi di Santa Croce. Va detto che i primi rapporti con i Medici furono buoni, vista l'amicizia dei Pazzi con Cosimo. Dopo di lui, tuttavia, le due famiglie entrarono sempre più in competizione, e, con essa, vennero i reciproci rancori, sfociati, come si vedrà, in uno degli eventi più drammatici dell'intera Storia fiorentina.
Non deve sorprendere, in quest'ottica, la sintonia che trovarono Sisto IV e i Pazzi, legati com'erano dal comune disprezzo per la casata medicea. I conflitti con quest'ultima non tardarono ad arrivare: il primo caso eclatante fu quello relativo a Imola, nel 1473. Sisto IV la voleva ottenere da Gian Galeazzo Maria Sforza, duca di Milano, per consegnarla al suo nipote prediletto, il conte Girolamo Riario, “grasso, rozzo e violento”, come lo ha definito Hibbert. Il prezzo per riscattarla era di 40.000 ducati (una somma non da poco). Dove reperì tanto denaro il pontefice? Dai Pazzi, neanche a dirlo. In realtà, Sisto IV si era rivolto prima di tutto alla banca Medici, ma Lorenzo, vista la posizione strategica di Imola per la difesa di Firenze, preferì non mettere in mano al papa la città, inventandosi delle scuse per cui non poteva concedere il prestito. Solo allora il pontefice ritenne di doversi rivolgere ai Pazzi, i quali, nonostante le pressioni ricevute dal Magnifico, non esitarono ad accordare il denaro al papa, che così non ebbe problemi a mettere le mani su Imola. La vicenda segnò una svolta nei rapporti tra Lorenzo e i Pazzi, poiché la rivalità non riguardava più esclusivamente l'ambito commerciale, ma si stava tramutando rapidamente in una lotta per il predominio politico su Firenze. Nel luglio 1474, quasi a voler sancire l'alleanza, Sisto IV tolse ai Medici l'incarico, da loro detenuto storicamente, di banchieri di fiducia del Papato, preferendo al loro posto proprio i Pazzi.
Come se non bastasse, una ulteriore circostanza acuì le tensioni. La questione ebbe origine allorquando bisognava assegnare la carica di arcivescovo di Firenze, rimasta vacante nel 1474. Chi scegliere? Il papa appoggiava Francesco Salviati, nobile fiorentino, non esattamente amico dei Medici, ma il Magnifico gli si oppose strenuamente, e riuscì a far nominare Rinaldo Orsini, fratello di Clarice, sua moglie. Il Salviati divenne poco dopo arcivescovo di Pisa, sempre con l'appoggio del papa, sebbene anche in questo caso Lorenzo si fosse opposto strenuamente. Se dunque, dopo gli attriti per Imola, i suoi rapporti con Sisto IV e i Pazzi si erano incupiti, ora erano divenuti di aperta ostilità. Ormai si veniva delineando una realtà in cui lo scontro era inevitabile. Possiamo comunque ipotizzare che Lorenzo non fosse eccessivamente impensierito dai turbamenti di quelle fasi delicate: del resto chi meglio di lui sapeva che “di doman non v'è certezza”?
LIBERTA'! LIBERTA'!
Le fonti sono concordi nel sostenere che chi mostrò per primo l'intenzione concreta di ordire un colpo di Stato contro i Medici fu, nell'estate del 1477, Francesco de' Pazzi, il quale si occupava
della direzione della banca di famiglia a Roma. Questi non era esattamente quel che si dice un vir bonus. I fiorentini, con la loro schietta ironia, lo denominarono “Franceschino”, per via della bassa statura, sia fisica che morale. Tutti erano al corrente della sua amicizia con Sisto IV, non certo benvoluto a Firenze, e si era anche sparsa la voce che nutrisse una disistima profonda per i suoi concittadini, che, come si sarà immaginato, finirono per detestarlo. Eppure l'idea di spodestare i Medici riscosse un immediato successo, agevolato dagli interessi politici ed economici in ballo, a proposito dei quali discorrevamo fino a poco fa. Girolamo Riario e Francesco Salviati (tutti personaggi che abbiamo già nominato) si mostrarono subito disponibili al complotto contro Lorenzo, l'uno perché non si era affatto accontentato di dominare solo su Imola, l'altro per la pervicacia mostrata dal Magnifico nell'ostacolare la sua carriera. Tramare, dopotutto, era la cosa che sapevano fare meglio. Una delle prime proposte fu quella di un attacco militare a Firenze, ma l'ipotesi venne scartata senza troppi problemi, poiché si sapeva che sarebbe stata una guerra “lunga pericolosa ed incerta” e che, sicuramente, per via del sistema politico prodottosi con la Lega Italica, qualche altra potenza sarebbe accorsa in difesa degli assediati. Rimaneva perciò un'unica via percorribile: la congiura. Per quanto ardito fosse l'azzardo, le probabilità di riuscire nell'impresa, almeno secondo i cospiratori, non erano poi tanto incerte, considerato che Lorenzo girava per le strade della sua città solo, disarmato e ben lungi dal sospettare simili piani. Enormemente più problematica, almeno all'apparenza, era la questione relativa a Giuliano: anche togliendo di mezzo il Magnifico, non sarebbe forse rimasto suo fratello a rivendicare pretese nella guida di Firenze? Bisognava uccidere tutti e due dunque. Dopo di che, pensavano, il popolo intero li avrebbe seguiti, memore dell' “antica libertà” repubblicana. Su tale previsione, come vedremo, si sbagliavano di grosso.
Le prime difficoltà non tardarono a presentarsi. Jacopo de' Pazzi, l'anziano capofamiglia, raggiunto a Firenze da Franceschino e da quest'ultimo messo al corrente della macchinazione, si era mostrato piuttosto restio di fronte ad un colpo di mano di siffatta portata. Intendiamoci bene: neanche lui gradiva il governo dei Medici, né tanto meno la loro banca. Tuttavia, sosteneva, l'insurrezione programmata era gravida di rischi, soprattutto perché si fondava sul fatto che i fiorentini, con il Magnifico e Giuliano in una pozza di sangue, avrebbero seguito i cospiratori senza esitazioni. Se ciò non fosse avvenuto, la casata dei Pazzi rischiava di essere risucchiata negli abissi della Storia. Giocare a fare i Bruto e Cassio poteva condurre a indicibili tragedie. Nella sete di sangue di quei giorni frenetici, il parere di Jacopo fu senza dubbio il più ponderato, per non dire l'unico che si possa definire tale. Ad ogni modo, la saggezza aveva abbandonato le menti dei cospiratori annebbiate dall'ambizione: costoro non ritennero necessario rivedere le loro posizioni, ma preferirono far cambiare a Jacopo le sue. Per tal ragione, onde acquisire maggior credibilità, cercarono l'appoggio di Giovanni Battista conte di Montesecco, condottiero dei Riario e del Papato, che della nostra congiura ha lasciato un dettagliato resoconto prima di essere giustiziato. A dir la verità, la prima reazione non fu neanche in questo caso entusiastica: il Montesecco ragionava da soldato e un soldato non esegue nessun ordine che non provenga direttamente da chi lo comanda.
I cospiratori, conoscendo il suo modo di ragionare, riuscirono a convincerlo solo quando gli spiegarono quanto pessimi fossero i rapporti tra i Medici e Sisto IV e che Girolamo Riario già da tempo faceva parte dei congiurati, visto che il suo controllo su Imola, finché Lorenzo viveva, era in condizioni precarie. Vuoi per la serietà con cui sembrava si organizzasse il colpo di Stato, vuoi per sfinimento, anche Jacopo de' Pazzi, infine, si convinse delle possibilità della congiura, supplicato da Franceschino e dal Montesecco in persona. L'avvenimento risulta di particolare rilevanza nella nostra vicenda, poiché, immediatamente dopo, gli aderenti crebbero esponenzialmente in numero e potenza: si aggiunsero uomini influenti, come Bernardo Bandini Baroncelli, membro d'una casata di banchieri amica dei Pazzi o Napoleone Franzesi, sodale della famiglia; intellettuali spinti da una sincera nostalgia repubblicana, quale Jacopo Bracciolini, figlio, tra l'altro, del celeberrimo Poggio, umanista; prelati legati ai Pazzi o quantomeno ostili ai Medici, come Stefano da Bagnone, parroco di Montemurlo, o Antonio Maffei, prete volterrano. Tanti uomini diversi insomma, uguali però su un fatto: l'odio viscerale per i Medici e per ciò che essi rappresentavano. Passiamo ora al piano. Come prima cosa, naturalmente, bisognava assassinare Lorenzo e Giuliano. Il problema fu stabilire quando. In principio si era convenuto di eliminare il Magnifico nella Pasqua del 1478, il 22 marzo, dal momento che aveva in programma una visita a Roma, per poi uccidere Giuliano a Firenze. La visita a Roma del Magnifico, tuttavia, non si verificò e i piani saltarono. Dopo questo primo fallimento, per risparmiare tempo, si decise di commettere gli omicidi in un'occasione in cui i bersagli fossero stati insieme, motivo per cui il bagno di sangue fu rimandato alla quarta domenica dopo Pasqua, ossia il 19 aprile. In tale data si avevano addirittura due possibilità per abbattere il tiranno e suo fratello: erano infatti previsti per quel giorno due ricevimenti, uno alla villa Loggia di Montughi, la residenza di Jacopo de' Pazzi, e uno a quella laurenziana di Careggi, in onore di Raffaele Sansoni Riario, che aveva ricevuto il cappello cardinalizio “di San Giorgio” (vale a dire quello deputato alla città di Genova). Tuttavia Giuliano fece sapere di essere indisposto e di non potersi presentare per l'intera giornata. Anche questa volta nulla di fatto. Di nuovo i cospiratori furono costretti a ritardare la congiura, posticipandola di una settimana, ovvero a domenica 26 aprile, la prima del “tempo ordinario”. Pareva un'altra buona opportunità, poiché il summenzionato cardinale Raffaele Sansoni Riario era stato invitato a visitare le splendide collezioni artistiche del palazzo mediceo di Via Larga. Per l'evento, si sarebbe tenuto un banchetto e, pensavano i cospiratori, sarebbe stato semplice assassinare brutalmente Lorenzo e il fratello, magari appesantiti dal cibo e le bevande. Ma Giuliano, non senza destare sbalordimento, si diede ancora una volta malato (forse aveva capito che qualcosa non andava). I cospiratori si trovavano a fare i conti con un nuovo, possibile posticipo. Non si stava andando troppo oltre? Già molti ormai erano a conoscenza della congiura, e più si procrastinava, maggiori erano le probabilità di essere scoperti. Si faceva presto, dopotutto, a finire come Catilina e i suoi seguaci. Questa volta, dopo interminabili discussioni, tra i cospiratori prevalse l'opinione di coloro i quali suggerivano di rimanere d'accordo sul 26 aprile, visto che almeno alla messa solenne della mattina in Santa Maria del Fiore (che i fiorentini all'epoca chiamavano “Santa Reparata”, o “Liperata”) sarebbero sicuramente stati presenti sia Lorenzo che Giuliano, indipendentemente da qualunque impedimento. D'altro canto, anche loro, seppur nemici del papa, erano cristiani. Basta poco per capire che il luogo e il momento fissati per il delitto non fossero esattamente i migliori: versare del sangue di fronte all'altare, e perciò di fronte a Dio, sapeva molto di sacrilegio, che rischiava di condurre ad una reazione di sdegno tra la gente, non certo di entusiasmo o di ispirazione.
In ogni caso, una volta morti Lorenzo e Giuliano, ai confini della repubblica di Firenze erano pronti ad intervenire in città con le loro truppe i condottieri Gian Francesco da Tolentino e Lorenzo Giustini da Città di Castello, non appena avessero ricevuto il segnale. Gli eserciti assoldati, tuttavia, fornivano solo un appoggio ulteriore ad una sollevazione che prima di tutto, secondo i piani, doveva nascere dai fiorentini stessi. Non era intenzione dei cospiratori rovesciare i Medici con un colpo di Stato basato solo sulle spade e i mercenari; era essenziale che fossero anzitutto i cittadini della Repubblica a compiere la rivoluzione. Perché ciò avvenisse, infatti, a Jacopo de' Pazzi era affidato l'oneroso incarico di compiere una eroica, lunga cavalcata dopo il delitto fino a Palazzo della Signoria, occupato nel frattempo dal Salviati, per incitare i cittadini ad appoggiare la caduta della tirannide al grido “Libertà! Libertà!”. Analizzati i piani, dunque, si comprende che, nelle menti dei congiurati, le uccisioni di Lorenzo e Giuliano non dovevano essere che le scintille in grado di far esplodere il popolo fiorentino contro anni di oppressione insostenibile.
Dopo le attese snervanti, i diverbi segreti, gli sforzi silenziosi, l'ora del sangue arrivò, finalmente. La mattina di domenica 26 aprile, “la chiesa era piena di popolo”. Nessuno dei congiurati mancava all'appello, sennonché non si vedeva una delle vittime: ancora una volta, Giuliano non era presente, e la messa era già iniziata. Senza perdere tempo, due cospiratori, Francesco de' Pazzi e Bernardo Bandini Baroncelli, cui era stato affidato il compito di uccidere proprio il fratello di Lorenzo, uscirono dalla splendida cattedrale con l'intento di condurlo alla celebrazione, possibilmente con le buone maniere. Per convincerlo, visto che non era in buone condizioni di salute, come prima si accennava, dovettero ricorrere a tutta la falsità e la spregiudicatezza che avevano. Pare addirittura che, nel tragitto per arrivare alla chiesa, i due abbiano intrattenuto Giuliano con “motteggi e giovinili ragionamenti” e che Franceschino lo abbracciasse ogni tanto fingendo affetto, così da poter verificare se avesse armi o una cotta di maglia sotto i panni da festa. Giunti i tre nella cattedrale, non restava che procedere. Al segnale convenuto, che con ogni probabilità fu l' “Ite missa est” della fine della cerimonia sacra, il Bandini si scagliò sopra Giuliano come una bestia inferocita e gli trafisse il petto con tutta la sua forza. Il giovane, irrigidito, cadde ed ecco che Francesco de' Pazzi gli saltò sopra assestandogli altre furiose pugnalate, inebriato dal sangue che scorreva a fiotti. Per l'accanimento arrivò perfino a ferire se stesso alla gamba. La chiesa si riempì di grida di terrore. A questo punto toccava a Lorenzo. Stefano da Bagnone e Antonio Maffei, i preti cui era affidato il compito di ucciderlo, lo assalirono alle spalle, ma il Magnifico trovò il modo di reagire, per loro mancanza di destrezza o grazie alla prontezza dei suoi riflessi. Ferito di striscio al collo, ebbe infatti il tempo di voltarsi verso gli assalitori e avvoltolare il mantello attorno al braccio sinistro, quasi fosse uno scudo. Dunque estrasse la lama che aveva con sé e con essa si difese dagli attacchi ripetuti dei preti, che non si rivelarono esattamente dei maestri spadaccini. Avendo la meglio nel duello, riuscì a fuggire dentro la sacrestia nuova, aiutato da alcuni amici che erano giunti a soccorrerlo (tra cui c'era anche Agnolo Poliziano), e là furono sbarrate le porte. Lorenzo non faceva che chiedere: “Giuliano? Sta bene?”, senza tuttavia ricevere alcuna risposta. Poco dopo, Santa Maria del Fiore era vuota: erano fuggiti tanto i fedeli quanto i cospiratori. Così Lorenzo, ancora tremante per l'accaduto, poteva fare ritorno a Palazzo Medici. Nel frattempo il piano della congiura proseguiva, nonostante il principale bersaglio fosse ancora in vita. L'arcivescovo Salviati, insieme a trenta uomini, si diresse, come stabilito, a Palazzo della Signoria. Qui fece chiamare colui che deteneva formalmente il controllo su Firenze, il gonfaloniere di giustizia Cesare Petrucci, filomediceo, probabilmente per informarlo della rivoluzione in atto. In questo frangente, la vicenda si fece comica, anzi tragicomica: il Salviati, divenuto improvvisamente goffo e impacciato di fronte al gonfaloniere, iniziò a balbettare, insospettendo a tal punto il Petrucci che quest'ultimo chiamò a gran voce le guardie. In pochi minuti, coloro che dovevano prendere il controllo del palazzo furono facilmente catturati, tra gaffes e pietose figuracce. Per difendere l'edificio da chiunque tentasse di entrare, le porte furono chiuse.
Altro punto del piano, quello probabilmente più suggestivo, era la cavalcata di Jacopo de' Pazzi per incitare il popolo alla sollevazione. Ebbene questi raggiunse effettivamente il Palazzo della Signoria , ma nessuno lo seguì. Anzi Jacopo e la sua scorta furono bersagliati da una pioggia di pietre scagliate dalle finestre, mentre da ogni direzione si levava il grido “Palle! Palle! Palle!” (ci si riferiva al simbolo dei Medici). Scoraggiato e sconfitto, il capofamiglia dei Pazzi fu costretto ad una rovinosa fuga fuori da Firenze. Se si poteva chiudere un occhio sulla non brillante performance in Santa Maria del Fiore e sulle scene ridicole nel Palazzo della Signoria, altrettanto non si poteva fare sul mancato sostegno popolare. La previsione su cui si sorreggeva l'intera impalcatura della macchinazione si era rivelata clamorosamente errata. Perché, verrebbe da chiedersi? In primo luogo i congiurati avevano valutato in maniera eccessivamente riduttiva il consenso di cui godevano i Medici in città, che, specialmente sotto Lorenzo, non faceva che crescere. Secondariamente bisogna considerare quanto sostiene il Guicciardini, quando con estrema sintesi afferma che il popolo appoggiò con convinzione Lorenzo anche perché “lo ammazzare Giuliano, che aveva benivolenzia” sembrò “uno atto molto brutto e contra ogni civiltà, massime in chiesa in dì solenne”.
Dopo la congiura, venne la vendetta ed essa fu tanto crudele, tanto smisurata da far pentire ogni singolo cospiratore di aver aderito ad un disegno che solo adesso mostrava tutta la sua intrinseca fragilità.
TRADITORI ALLA FORCA
Dal 26 aprile al 4 maggio Firenze divenne teatro di massacri inauditi contro coloro che avevano cospirato, o anche solo sembravano averlo fatto. Sia chiaro: si trattò essenzialmente di un moto spontaneo da parte degli abitanti della città. Tuttavia, non pare possibile che la situazione possa esser sfuggita di mano al governo cittadino in maniera tale da rimanere paralizzato. Le ruberie, i saccheggi, le uccisioni, con ogni probabilità, non ebbero limiti soprattutto perché Lorenzo, della cui spregiudicatezza abbiamo trattato, seppe approfittare del momento per fare piazza pulita di qualunque avversario senza sporcarsi le mani. In altre parole, attraverso una appropriata propaganda, il Magnifico instaurò una sorta di temporaneo Terrore, con il quale rimosse ogni residuo dell'opposizione. A morire furono in molti. Francesco de' Pazzi, l'arcivescovo Salviati, suo fratello Jacopo e il Bracciolini furono impiccati alle finestre del Palazzo della Signoria, così che tutto il popolo li vedesse. Dopo di loro, si conta che, tra il 26 e il 27 aprile, fossero sommariamente uccise circa ottanta persone, sia congiurati, sia presunti tali, sia innocenti. Le strade e i vicoli di Firenze si riempirono di sangue, corpi esanimi e brandelli di carne. Svariati membri della famiglia Pazzi furono giustiziati, condannati all'esilio o imprigionati, in certi casi perché effettivamente coinvolti o favorevoli alla congiura, in altri esclusivamente perché erano nati con la maledizione di quel nome. I sopravvissuti della casata dovettero, per legge, mutare cognome e arme araldica. Particolarmente dura fu la fine dei due preti, il Maffei e Stefano da Bagnone, ai quali, una volta catturati, furono recisi nasi e orecchie, prima di essere impiccati. La sorte che toccò a Giovan Battista da Montesecco non fu migliore: dopo aver reso una dettagliata confessione nella speranza di essere risparmiato, fu decapitato senza pietà dinanzi alla porta del Bargello. Quanto a Jacopo de' Pazzi, fu ritrovato il 27 aprile a Castagno: i filomedicei lo picchiarono brutalmente, per poi impiccarlo. Infine, anche Bernardo Bandini Baroncelli finì appeso alla forca, una volta rispedito a Firenze da Istanbul, dove aveva tentato di nascondersi, Lorenzo il Magnifico non poteva lamentarsi della vicenda appena trascorsa. Certo, perse il fratello e rischiò di perire lui stesso, ma non ne era forse valsa la pena? Con le repressioni successive aveva eliminato ogni forma di contrasto interno, ragione per cui il popolo prese ad adorarlo come mai aveva fatto prima di allora. In più, a dirla tutta, la dipartita di Giuliano fu senza dubbio una disgrazia, ma aveva anche i suoi vantaggi: con lui vivo, in futuro, sarebbero potuti nascere contrasti in relazione al patrimonio familiare o, nella peggiore delle ipotesi, al governo della città. Dopo la congiura, invece, simili previsioni cadevano nel vuoto. Le uniche conseguenze spiacevoli del cospirazione fallita furono i tentativi di Sisto IV di rivoltare l'Italia contro i Medici, che tuttavia si conclusero in chiari fallimenti, su cui, per la tirannia dello spazio, dobbiamo sorvolare. Da quel funesto (ma non troppo) 26 aprile 1478, Firenze, come una figlia ammansita da una dura, ma giusta, punizione, si inchinò ai saggi voleri di Lorenzo e per i quattordici anni che seguirono visse il suo momento più splendente, più sicuro, più glorioso. In una parola, Magnifico.
BIBLIOGRAFIA
* Niccolò Machiavelli, “Istorie Fiorentine e altre opere storiche e politiche”, a cura di Alessandro Montevecchi, UTET Libreria, Varese, 2007
* Niccolò Machiavelli, “Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio”, a cura di Giorgio Inglese, BUR, Bergamo, 2011
* Francesco Guicciardini, “Storie Fiorentine”, a cura di Alessandro Montevecchi, BUR, Peschiera Borromeo (MI), 2006
* Gino Luzzatto, “Breve storia economica d'Italia”, Einaudi, Torino, 1958
* Tim Parks, “La fortuna dei Medici”, Arnoldo Mondadori Editore, Cles (TN), 2010
* Christopher Hibbert, “Ascesa e caduta di Casa Medici”, Arnoldo Mondadori Editore, Cles (TN), 1988
* Franco Cardini, “1478. La congiura dei Pazzi”, Editori Laterza, Bari, 2013
* Niccolò Capponi, “Al traditor s'uccida. La congiura dei Pazzi, un dramma italiano”, il Saggiatore, Milano, 2014