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La Grande Storia dei Cavalieri Templari

Creati per difendere la Terrasanta a seguito della Prima Crociata i Cavalieri Templari destano ancora molto interesse: scopriamo insieme chi erano e come vivevano i Cavalieri del Tempio

La Grande Leggenda dei Cavalieri della Tavola Rotonda

I personaggi e i fatti più importanti del ciclo arturiano e della Tavola Rotonda

Le Leggende Medioevali

Personaggi, luoghi e fatti che hanno contribuito a conferire al Medioevo un alone di mistero che lo rende ancora più affascinante ed amato. Dal Ponte del Diavolo ai Cavalieri della Tavola Rotonda passando per Durlindana, la leggendaria spada di Orlando e i misteriosi draghi...

giovedì 28 febbraio 2013

***E' FINITO IL PONTIFICATO DI BENEDETTO XVI***

ALLE ORE 20.00 E' UFFICIALMENTE TERMINATO IL 265° PONTIFICATO DI BENEDETTO XVI. SEGUIRANNO INDICAZIONI LOGISTICHE IN VISTA DEL PROSSIMO CONCLAVE.

GERARDO, SCALA E ORDINE DI MALTA


Principi reali e mitici cavalieri sembrano essere doverosamente alla base di tutte le più antiche fondazioni. E anche di moltissime case aristocratiche. Persino principi e re sono andati alla ricerca di antenati sempre più importanti, gareggiando tra loro per precedenze, distinzioni di protocollo, magnificenza di titoli. In epoche in cui i sovrani erano soliti chiamarsi "fratello", sembrava per loro necessario dimostrare di appartenere a famiglie di uguali origini e antichità. Ivan IV, erede dell'ideologia imperiale bizantina, aveva imposto il segreto di Stato sulla sua genealogia per timore di inopportuni commenti. "Nel 1521 (…), il gran principe Vasilij III aveva rifiutato di chiamare fratelli i nuovi regnanti, ovvero Federico II di Danimarca-Norvegia e Gustavo I Vasa di Svezia. Per i russi, il re eletto di Svezia, discendente da una famiglia della nobiltà minore, non era neppure un nobile ma un mercante; il sovrano di Danimarca un re di "sale e acqua" . Nel 1559, quando gli emissari di Cristiano III, nuovo re di Danimarca, cercarono di imporre un trattamento di parità tra lo zar e il loro sovrano, i boiari rifiutarono persino di discutere la questione, insistendo perché il loro re si rivolgesse allo zar chiamandolo padre e non fratello" (1). La parola mercante sarebbe ricorsa insistentemente e in tono dispregiativo nelle conversazioni delle classi alte fino a tutto Ottocento. Re provenzali, imperatori germanici, nebulosi sovrani barbari sono stati proclamati avi più o meno credibili di famiglie regnanti che avrebbero aiutato duchi e marchesi rinascimentali come i Medici, i Farnese o i Gonzaga a scavalcarsi fra loro per di avere i primi posti nelle cerimonie e negli ingressi trionfali della Corte imperiale. E sovente antenati sempre più importanti non solo si si reclamavano ma si alternavano e sostituivano. Avi di diversa origine etnica entravano ed uscivano dagli alberi genealogici per aiutare gli scopi politici dei regnanti e le loro ambizioni; come fecero i Savoia, sostenitori di ascendenze galliche o italiche, a seconda delle convenienze del momento e le loro mire espansive in Italia. Le famiglie nobili hanno cercato a loro volta di percorrere gradini che portassero sempre più in alto nella scala sociale, pur di rendersi uguali persino ai sovrani agli occhi dell'opinione pubblica. I del Balzo che arriveranno a cingere la Corona titolare di Costantinopoli, nonostante già nobilissimi per storia familiare e importanti alleanze matrimoniali, non disdegneranno di lasciar diffondere, tra le ipotesi delle loro origini, anche la tradizione di una discendenza dai re di Arles o la leggenda di derivare da Baldassarre, uno degli evangelici Re Magi, traendo per questo un esile spunto dalla cometa raffigurata nello stemma (2).
Non sono soltanto i grandi nobili a percorrere ed occupare i diversi livelli della società servendosi di un'abile manipolazione della storia. Già in pieno Medioevo il fermento causato dal successo delle proprie attività era in grado, infatti, di muovere ambizioni che vanno al di là della speranza di guadagno. I mercanti amalfitani che viaggiavano in tutto il bacino del Mediterraneo, e che operavano a stretto contatto, in particolare nella Terra Santa, con vescovi, guerrieri, principi musulmani, e quindi con i figli ed eredi delle più grandi famiglie di Francia, Inghilterra, Provenza ed Italia, devono aver trovato necessario indorare le proprie ascendenze. Dopo aver armato, inviato e richiamato navi cariche di merci europee ed esotiche, guadagnato somme ingentissime, edificato palazzi, chiese, cappelle nelle città di origine, lungo le coste e i pendii della loro terra non ancora erosa e devastata da maremoti e da tempeste, devono aver creduto opportuno competere con i figli degli antichi clienti gareggiando con loro grazie a liste di illustrissimi avi.
Del resto, in tante occasioni, fin dai tempi dei primi commerci non devono essere stati pochi i grandi mercanti padroni di palazzi, depositi colmi, navi e cofani pieni di monete, a guardare con sentimenti di sufficienza proprio i grandi nobili che si erano rovinati con la speranza di conquistare un ruolo sociale acquistando anche le merci che garantissero un migliore tenore di vita ma che avevano un prezzo altissimo e che per la grande richiesta erano destinati a costare sempre di più. A partire dal XIII secolo, tutta l'aristocrazia che si affacciava sul bacino della Schelda, per esempio, era indebitata con prestatori e borghesi delle città (3). E i più importanti sovrani europei prendevano a prestito danaro dai banchieri italiani. E' una storia che si ripeterà più volte con mutati protagonisti, nei secoli successivi.
Il danaro, però, non fa la nobiltà, e dunque si rendeva necessario provvedere a procurarsela. La scalata sociale è graduale, nei secoli passati, e in genere occorre molta pazienza per occupare le cariche pubbliche, quelle nobilitanti, far comprendere alla comunità che non si è più solo il figlio o il nipote del mercante ma un uomo in grado di amministrare, trattare e imparentarsi con i potenti. E dunque un lungo spazio intergenerazionale deve essere lentamente e impercettibilmente riempito. Anche nel caso dei borghesi e dei mercanti, l'aggiustamento delle ascendenze e l'invenzione di antenati inesistenti costituisce allora un espediente di indubbia riuscita, tale non solo da abbreviare i lunghi tempi dell'ascesa sociale ma da far credere che gli arricchiti tornino semplicemente a rioccupare nella società il posto adeguato che ad essi spetta come discendenti di illustri proavi.
Ho parlato di attesa talvolta secolare. E dunque i più accorti tra i nuovi nobili non potevano servirsi solo di libri scritti da amici ed eruditi compiacenti che troppo lentamente diffondevano notizie sulle loro origini redatte con gli opportuni aggiustamenti. Per essere ammessi fra i cavalieri di Ordini che richiedevano fondate prove di nobiltà, per sfondare le resistenze di lettori critici e di aristocratici troppo curiosi, era necessario talvolta persino un piano più sottile, subdolo e spregiudicato. Un piano semplicissimo ove si potesse corrompere la persona giusta: il falso.
Con pazienza, con l'inchiostro preparato e adoperato da un bravo scrivano, si cercavano i registri parrocchiali più antichi, i protocolli di compravendita, le pergamene medievali. Si sfogliavano le pagine fino a individuare spazi utili fra un atto e l'altro, vuoti liberi nelle pagine. E tutti questi pochi centimetri venivano riempiti con aggiunte di cognomi, nomi di personaggi inesistenti, di immaginifici nonni e bisnonni qualificati come nobili. Oppure venivano assunti indebitamente le denominazioni di case nobili e si "aggiustavano" le annotazioni, in modo da farle figurare con i nomi della propria famiglia. Si trattava di veri falsi di cui l'opinione pubblica non immaginava neppure l'esistenza. Eppure, l'imbroglio doveva essere noto ad alcuni, e fra questi non mancò chi ebbe anche il coraggio di protestare con sdegno per quanto era accaduto e ancora accadeva ai suoi tempi.
Fu il canonico minorese Pompeo Troiano (1666-1738), da esperto diplomatico e studioso, a rivelare e a denunciare con veemenza questi "aggiustamenti". "Qui m'è conveniente, o Lettore -scrive l'ecclesiastico- avvertirti (spinto dal zelo che sempre ho avuto delle nobilissime famiglie), vedendo io in questa nostra età corrotta, che un plebeo malnato acquistando qualche ricchezza per via di fortuna, vuol anco arrollarsi il titolo di nobile per via d'ingegno e salir al posto sublime ove non potè giungere per natura" (4). Pompeo lamentava anche il fatto che da troppo tempo si consentiva a persone che non ne avevano avuto diritto di assumere indebitamente i cognomi di famiglie nobili. E' l'abitudine già diffusa fra la clientela al tempo dei Romani. Per la classe patrizia sembrava quasi un titolo d'onore che tanta gente portasse il proprio cognome, a dimostrazione del numero di parenti, servi, contadini, vicini e fedeli su cui si poteva contare e che garantiva un larghissimo ossequio. E basta scorrere gli elenchi telefonici campani per renderci conto di quante famiglie portino oggi lo stesso cognome di famiglie nobili con cui non hanno alcuna parentela. Tutto questo, prosegue Troiano, avveniva a causa della "corruttela degli antichi nobili, i quali mentre vivevano, permettevano che la loro gente plebea et infima si fregiasse del titolo delle loro casate (il che come s'andasse non so discernerlo), bensì alcuni l'applicano a dipendenza de' bastardi, altri de' schiavi" (5).
Ed ecco la spiegazione che ancora Pompeo offre di queste attività sotterranee che venivano largamente organizzate ai suoi tempi: l'ingresso nell'Ordine di Malta. "Non vorrei dunque -egli scrive- che essendosi indotta questa mal'usanza tra' mortali, un scalzo et un straccione nato tra' vili, havesse in alcun tempo ad inalzarsi a tant'altezza, che arrivasse a gabbare la nobilissima religione di Malta con pretendere l'habito, e di servirsi di simili memorie" (6). "Scusami se la mia penna si trasporta a far tal disgressione, perché la corruttela de' tempi hodierni la conducono a far tutto ciò, tanto più ch'io veggo in questa nostra età, che non solo altri si servono ingiustamente di memorie effettive di famiglie mancate ch'erano nobili, e del medesimo cognome, ma anco altri vitiano le scritture, e particolarmente de' Reggistri Reali, ne' quali si vedono rasi i cognomi delle famiglie patritie già spente, havendono procurato di farci aggiungere i loro e fattoci fabricar'in tutto le famiglie false, con tali astutie, che ne' cognomi veri antichi vi hanno cassato una lettera ponendoci un'altra diversa, per far diversificare la casata" (7).
Tra le famiglie del patriziato locale, i Sasso si adeguano a questo "effetto di dimostrazione" per compiere il passo qualitativo che potrebbe equipararli ai nobili più antichi. Essi scelgono la via tradizionale: quella dell'individuazione di un personaggio storico che potrebbe essere collocato nel proprio albero genealogico. E poiché non devono sussistere dubbi sul fatto che siano stati in Terra Santa all'epoca in cui fu costituito il primo nucleo dei Cavalieri gerosolimitani, niente di meglio che inserire proprio uno tra questi primitivi Cavalieri fra i più illustri componenti della Casa.  
Una tale presenza poteva non solo certificare un loro antico status; ma aprire le porte di un Ordine le cui insegne conferiscono una prova definitiva di nobiltà. E' ben conosciuto quanto la famiglia Sasso si sia impegnata in una artificiosa quanto insostenibile costruzione di prove inconsistenti. Lo stesso Franco Cardini, negli atti di un convegno riguardante proprio Scala, ebbe modo di chiarire se esistessero o no possibilità che il Gerardo considerato institutor dei Cavalieri fosse uno solo, se non si confondesse con altri due o tre Ospitalieri che portavano lo stesso nome, se  effettivamente si chiamasse Sasso e se fosse stato originario di Scala. Con parole estremamente corrette egli affermò che tali possibilità non esistevano: "Sotto il profilo storico, salvo il rinvenimento -in teoria sempre e comunque possibile- di nuovi e risolutori documenti, tanto l'affermazione quanto la negazione di quel che tradizionalmente si dice sono scelte entrambe oziose" (8).
L'attività "genealogica" dei Sasso non è un caso unico. I d'Afflitto, pure assurti a notevole rilevanza sociale, una volta arrivati nel novero delle famiglie patrizie locali vollero identificare le proprie origini e quelle del proprio cognome con la figura di un Santo molto venerato nel Medioevo, quale protettore dei cacciatori e dei boschi, senza altra prova se non la devozione familiare nei suoi confronti. Così, a loro avviso, le afflizioni che potevano ricordarsi con il cognome parlante, erano da identificarsi con le sofferenze patite da S.Eustachio durante il martirio, confortati in queste ipotesi da Autori acritici e datati come il Crollalanza, il de Lellis e il Mazzella (9). Oppure, con tesi ancor più suggestiva ma ugualmente riconducibile allo stesso intento, la denominazione de Afflicto sarebbe discesa dalla parola "fritto", sempre per ricordare il modo in cui fu martirizzato il Santo, rinchiuso in un bue di bronzo infuocato, e quindi "fritto" (10). Purtroppo, è ben conosciuto il vero etimo a base del cognome: una parola latina quindi dialettizzata che ha dato vita a un toponimo. Ossia "filictum", da felceto, una tra le molte denominazioni di origine contadina, adottata da una famiglia di Capri che è già ricordata nel X-XI secolo (11).
Per offrire un contributo alla soluzione del problema, credo che però si possa esplorare ancora un altro campo che è rimasto poco indagato fino a questo momento. Mi riferisco allo studio onomastico del nome di Gerardo, su cui mi sono già brevemente soffermato in un articolo di alcuni anni fa (12). Già allora scrivevo che l'unico Gerardo campano che io abbia trovato in regesti di documenti coevi al "fondatore" dell'Ordine riguardano un Gerardo Osborni, figlio di un Ardoino, che viveva nel giugno 1129 ad Aversa, ed era "di genere franco" (13).
Il nome del presunto antenato dei Sasso non appare dunque amalfitano. Gli onomastici degli Amalfitani e degli abitanti della costa, per tutto il Medioevo sembrano piuttosto essere Benedetto, Costantino, Giovanni, Gregorio, Leone, Lupino, Mansone, Marino, Mastalo, Mauro, Orso, Pantaleone, Pardo, Pietro, Sergio, Stefano, Taddeo, Tauro. Sono nomi che spesso costituiscono le solide dimostrazioni delle radici etniche o culturali bizantine. Esistono già nello stesso periodo, tuttavia, alcuni Ademari, Alberto, Cioffo, Giosolfio, Landolfo: gli onomastici di derivazione longobarda che filtrano dal vicinissimo principato salernitano erede della Longobardia Minor. E quanto significativi sono poi i nomi che evocano l'Oriente stesso e i viaggi che vi erano condotti, ancora imposti a persone che si chiamano Antiochia, Caterina (che ricorda i pellegrinaggi dalla Terra Santa al santuario del Sinai), Galotto ("galeotte si chiamavano le agili navi su cui si avventuravano i mercanti), Gierosolima.
Non c'è traccia di un Gerardo nei regesti dei sopravvissuti documenti che riguardano Amalfi, Ravello, Minori (14).  
Certamente Sasso è, invece, un cognome che può essere considerato del tutto amalfitano. E non c'è bisogno di cercare per esso derivazioni lontane, come potrebbe supporsi nel caso di un richiamo fonetico con la Nazione sassone. Del resto, anche qualche famoso personaggio medievale cognominizzato "de Saxo" sembra aver tratto il cognome da un casale prossimo alla sua dimora, anziché discendere da un mitico guerriero germanico. Mi riferisco a quel Girardus de Saxo, capofazione romano che fu forse parente e poi fiero avversario del famoso papa Benedetto IX, colui che rassegnò per tre volte le dimissioni dal Trono pontificio. Il cognome di questo Sasso (Saxum), lungi anche in questo caso dall'essere riconducibile alla Sassonia, viene fatto derivare dalla località omonima presso Cerveteri, non lontana da Galeria, i cui conti, nemici del deposto Benedetto IX, avevano anche il controllo del non lontano castello di Sasso (15).
Anche nel nostro caso potremmo non andare molto lontano. I "sassi" contrassegnavano nel Medioevo località rocciose rinvenibili ovunque. La toponomastica locale li assegnava con o senza altre specifiche come caratteristica di un determinato territorio, e così ovunque la denominazione rimaneva fissata per sempre o lentamente poteva essere diluita nelle successive memorie. Come non ricordare i "saxa thebenna" che Jacopo Sannazzaro menziona nella sua Elegia in lode di Cassandra Marchese (16)? Il Poeta parla del monte Tobenna nel prossimo Picentino, sulle cui pendici passeggiava da ragazzo, facendo memoria dei suoi speroni e dei macigni che vi affiorano. La costa amalfitana, che doveva essere spesso contrassegnata da costoni rocciosi anche prima dei violenti terremoti che mutarono parte della sua orografia, si presta bene ad ospitare località che nel periodo medievale potevano designarsi come "sassi", e di qui passare a definire il nome della famiglia che le abitava o possedeva. E un toponimo con questa caratteristica si ritrova ancora proprio nel territorio di Scala: "sotto lo Sasso", località ricordata in una mappa catastale ottocentesca e che certo ha mutuato la denominazione da un'antica abitudine di indicare il luogo (17).
Famiglia locale, cognome locale. Ma di un Gerardo originario dell'area non sembra che esistano tracce se non quelle artificiali lasciate centinaia di anni dopo la sua presunta esistenza. Un po' come i dipinti che raffigurano personaggi dell'antichità su cui gli artisti lavoravano d'immaginazione.

Note

(1) Cf. I. DE MADERIAGA, Ivan il Terribile, Torino 2006, p. 116.

(2) Cf. B. CANDIDA GONZAGA, Memorie delle famiglie nobili delle province meridionali d'Italia, II, Napoli 1875, p. 8.

(3) Cf. H.PIRENNE , Storia economica e sociale del Medioevo, Milano 1967, p.144.

(4) Cf. P. TROIANO, Reginna Minori trionfante, Minori 1985, p. 126.

(5) Ibidem.

(6) Ibidem.

(7) Id., pp. 126-127.

(8) Cf. F. CARDINI, L'Ordine gerosolimitano e la figura di fra Gerardo Sasso, in Scala nel Medioevo, Amalfi 1996, p. 88.

(9) Cf. S. AMICI, Araldica medievale scalese, in Scala nel Medioevo, cit., p. 309.

(10) Ibidem.

(11) Cf. G.GARGANO, I primi tempi della Civitas Scalensis e la formazione del patriziato locale, in Scala nel Medioevo, cit., p. 105.

(12) Cf. C. CURRO', E se Gerardo Sasso non fosse nato a Scala? In Eco Magazine, settembre 1998.

(13) Ibidem.

(14) Cf. Le pergamene degli Archivi vescovili di Amalfi e Ravello (I-IV), Napoli 1952-1959; Le pergamene dell'Archivio arcivescovile di Amalfi, Massalubrense 1981; Le pergamene dell'Archivio vescovile di Ravello, Napoli 1983; Le pergamene dell'Archivio vescovile di Minori, Minori 1987.

(15) Cf. F. MARAZZI, voce Gerardo, in Treccani.it   

(16) Cf. J. SANNAZZARO, III.

(17) Cf. V. AVERSANO, Osservando i toponimi di Scala: parole e cose di una geografia "estrema", in Scala nel Medioevo, cit., p.135.

Articolo presente sul Sito Italia Medievale

mercoledì 27 febbraio 2013

TOUR NELLA ROMA MEDIEVALE

Passeggiata Articolata tra i tesori medievali nascosti sotto il vostro naso. Andremo alla ricerca di ciò che resta del Medioevo al centro di Roma + entrata alla Crypta Balbi + display di ricostruzione storica + aperitivo. Passeremo per lungo Tevere, per il Foro Boario, risaliremo verso piazza Venezia e faremo una deviazione verso via dei Fori Imperiali per capire cosa era diventata Roma dopo la fine dell'Impero. Ritornando verso Largo Argentina entreremo al museo della Crypta Balbi per vedere cosa rimane oggi del Medioevo. La visita continuerà con un display di ricostruzione storica dell'associazione La Quarta Compagnia, che vi farà rivivere la quotidianità del Medioevo, il tutto accompagnato da un' aperitivo alla Libreria Caffè N'Importe Quoi

Costo della visita
17 € (13 € under 18) Auricolari e Aperitivo incluso
+ 10 € biglietto di ingresso museo (riduzioni under 18 e over 65)

Numero minimo adesioni: 10 persone.
La visita si terrà anche in caso di pioggia

sponsor: la Bottega de Gli Stolti Accessori tra Arte e Artigianato
Via Santa Maria de' Calderari 25 (via Arenula) gli-stolti.blogspot.it

Tel. 347 50 34 600 ciceroinrome.blogspot.it - See more at: http://www.funweek.it/roma-eventi-e-news/visite-guidate-roma/visita-guidata-medioevo-alla-romana-10-marzo-roma.php#sthash.L222Zuhc.dpuf

26 FEBBRAIO 2013 - ULTIMA UDIENZA GENERALE DI PAPA BENEDETTO XVI

Vi ringrazio di essere venuti così numerosi a questa mia ultima Udienza generale. Grazie di cuore! Sono veramente commosso! E vedo la Chiesa viva! E penso che dobbiamo anche dire un grazie al Creatore per il tempo bello che ci dona adesso ancora nell’inverno. Come l’apostolo Paolo nel testo biblico che abbiamo ascoltato, anch’io sento nel mio cuore di dover soprattutto ringraziare Dio, che guida e fa crescere la Chiesa, che semina la sua Parola e così alimenta la fede nel suo Popolo. In questo momento il mio animo si allarga ed abbraccia tutta la Chiesa sparsa nel mondo; e rendo grazie a Dio per le «notizie» che in questi anni del ministero petrino ho potuto ricevere circa la fede nel Signore Gesù Cristo, e della carità che circola realmente nel Corpo della Chiesa e lo fa vivere nell’amore, e della speranza che ci apre e ci orienta verso la vita in pienezza, verso la patria del Cielo. Sento di portare tutti nella preghiera, in un presente che è quello di Dio, dove raccolgo ogni incontro, ogni viaggio, ogni visita pastorale. Tutto e tutti raccolgo nella preghiera per affidarli al Signore: perché abbiamo piena conoscenza della sua volontà, con ogni sapienza e intelligenza spirituale, e perché possiamo comportarci in maniera degna di Lui, del suo amore, portando frutto in ogni opera buona (cfr Col 1,9-10). In questo momento, c’è in me una grande fiducia, perché so, sappiamo tutti noi, che la Parola di verità del Vangelo è la forza della Chiesa, è la sua vita. Il Vangelo purifica e rinnova, porta frutto, dovunque la comunità dei credenti lo ascolta e accoglie la grazia di Dio nella verità e nella carità. Questa è la mia fiducia, questa è la mia gioia. Quando, il 19 aprile di quasi otto anni fa, ho accettato di assumere il ministero petrino, ho avuto la ferma certezza che mi ha sempre accompagnato: questa certezza della vita della Chiesa dalla Parola di Dio. In quel momento, come ho già espresso più volte, le parole che sono risuonate nel mio cuore sono state: Signore, perché mi chiedi questo e che cosa mi chiedi? E’ un peso grande quello che mi poni sulle spalle, ma se Tu me lo chiedi, sulla tua parola getterò le reti, sicuro che Tu mi guiderai, anche con tutte le mie debolezze. E otto anni dopo posso dire che il Signore mi ha guidato, mi è stato vicino, ho potuto percepire quotidianamente la sua presenza. E’ stato un tratto di cammino della Chiesa che ha avuto momenti di gioia e di luce, ma anche momenti non facili; mi sono sentito come san Pietro con gli Apostoli nella barca sul lago di Galilea: il Signore ci ha donato tanti giorni di sole e di brezza leggera, giorni in cui la pesca è stata abbondante; vi sono stati anche momenti in cui le acque erano agitate ed il vento contrario, come in tutta la storia della Chiesa, e il Signore sembrava dormire. Ma ho sempre saputo che in quella barca c’è il Signore e ho sempre saputo che la barca della Chiesa non è mia, non è nostra, ma è sua. E il Signore non la lascia affondare; è Lui che la conduce, certamente anche attraverso gli uomini che ha scelto, perché così ha voluto. Questa è stata ed è una certezza, che nulla può offuscare. Ed è per questo che oggi il mio cuore è colmo di ringraziamento a Dio perché non ha fatto mai mancare a tutta la Chiesa e anche a me la sua consolazione, la sua luce, il suo amore. Siamo nell’Anno della fede, che ho voluto per rafforzare proprio la nostra fede in Dio in un contesto che sembra metterlo sempre più in secondo piano. Vorrei invitare tutti a rinnovare la ferma fiducia nel Signore, ad affidarci come bambini nelle braccia di Dio, certi che quelle braccia ci sostengono sempre e sono ciò che ci permette di camminare ogni giorno, anche nella fatica. Vorrei che ognuno si sentisse amato da quel Dio che ha donato il suo Figlio per noi e che ci ha mostrato il suo amore senza confini. Vorrei che ognuno sentisse la gioia di essere cristiano. In una bella preghiera da recitarsi quotidianamente al mattino si dice: «Ti adoro, mio Dio, e ti amo con tutto il cuore. Ti ringrazio di avermi creato, fatto cristiano…». Sì, siamo contenti per il dono della fede; è il bene più prezioso, che nessuno ci può togliere! Ringraziamo il Signore di questo ogni giorno, con la preghiera e con una vita cristiana coerente. Dio ci ama, ma attende che anche noi lo amiamo! Ma non è solamente Dio che voglio ringraziare in questo momento. Un Papa non è solo nella guida della barca di Pietro, anche se è la sua prima responsabilità. Io non mi sono mai sentito solo nel portare la gioia e il peso del ministero petrino; il Signore mi ha messo accanto tante persone che, con generosità e amore a Dio e alla Chiesa, mi hanno aiutato e mi sono state vicine. Anzitutto voi, cari Fratelli Cardinali: la vostra saggezza, i vostri consigli, la vostra amicizia sono stati per me preziosi; i miei Collaboratori, ad iniziare dal mio Segretario di Stato che mi ha accompagnato con fedeltà in questi anni; la Segreteria di Stato e l’intera Curia Romana, come pure tutti coloro che, nei vari settori, prestano il loro servizio alla Santa Sede: sono tanti volti che non emergono, rimangono nell’ombra, ma proprio nel silenzio, nella dedizione quotidiana, con spirito di fede e umiltà sono stati per me un sostegno sicuro e affidabile. Un pensiero speciale alla Chiesa di Roma, la mia Diocesi! Non posso dimenticare i Fratelli nell’Episcopato e nel Presbiterato, le persone consacrate e l’intero Popolo di Dio: nelle visite pastorali, negli incontri, nelle udienze, nei viaggi, ho sempre percepito grande attenzione e profondo affetto; ma anch’io ho voluto bene a tutti e a ciascuno, senza distinzioni, con quella carità pastorale che è il cuore di ogni Pastore, soprattutto del Vescovo di Roma, del Successore dell’Apostolo Pietro. Ogni giorno ho portato ciascuno di voi nella preghiera, con il cuore di padre. Vorrei che il mio saluto e il mio ringraziamento giungesse poi a tutti: il cuore di un Papa si allarga al mondo intero. E vorrei esprimere la mia gratitudine al Corpo diplomatico presso la Santa Sede, che rende presente la grande famiglia delle Nazioni. Qui penso anche a tutti coloro che lavorano per una buona comunicazione e che ringrazio per il loro importante servizio.
A questo punto vorrei ringraziare di vero cuore anche tutte le numerose persone in tutto il mondo, che nelle ultime settimane mi hanno inviato segni commoventi di attenzione, di amicizia e di preghiera. Sì, il Papa non è mai solo, ora lo sperimento ancora una volta in un modo così grande che tocca il cuore. Il Papa appartiene a tutti e tantissime persone si sentono molto vicine a lui. E’ vero che ricevo lettere dai grandi del mondo – dai Capi di Stato, dai Capi religiosi, dai rappresentanti del mondo della cultura eccetera. Ma ricevo anche moltissime lettere da persone semplici che mi scrivono semplicemente dal loro cuore e mi fanno sentire il loro affetto, che nasce dall’essere insieme con Cristo Gesù, nella Chiesa. Queste persone non mi scrivono come si scrive ad esempio ad un principe o ad un grande che non si conosce. Mi scrivono come fratelli e sorelle o come figli e figlie, con il senso di un legame familiare molto affettuoso. Qui si può toccare con mano che cosa sia Chiesa – non un’organizzazione, un’associazione per fini religiosi o umanitari, ma un corpo vivo, una comunione di fratelli e sorelle nel Corpo di Gesù Cristo, che ci unisce tutti. Sperimentare la Chiesa in questo modo e poter quasi toccare con le mani la forza della sua verità e del suo amore, è motivo di gioia, in un tempo in cui tanti parlano del suo declino. Ma vediamo come la Chiesa è viva oggi! In questi ultimi mesi, ho sentito che le mie forze erano diminuite, e ho chiesto a Dio con insistenza, nella preghiera, di illuminarmi con la sua luce per farmi prendere la decisione più giusta non per il mio bene, ma per il bene della Chiesa. Ho fatto questo passo nella piena consapevolezza della sua gravità e anche novità, ma con una profonda serenità d’animo. Amare la Chiesa significa anche avere il coraggio di fare scelte difficili, sofferte, avendo sempre davanti il bene della Chiesa e non se stessi. Qui permettetemi di tornare ancora una volta al 19 aprile 2005. La gravità della decisione è stata proprio anche nel fatto che da quel momento in poi ero impegnato sempre e per sempre dal Signore. Sempre – chi assume il ministero petrino non ha più alcuna privacy. Appartiene sempre e totalmente a tutti, a tutta la Chiesa. Alla sua vita viene, per così dire, totalmente tolta la dimensione privata. Ho potuto sperimentare, e lo sperimento precisamente ora, che uno riceve la vita proprio quando la dona. Prima ho detto che molte persone che amano il Signore amano anche il Successore di san Pietro e sono affezionate a lui; che il Papa ha veramente fratelli e sorelle, figli e figlie in tutto il mondo, e che si sente al sicuro nell’abbraccio della vostra comunione; perché non appartiene più a se stesso, appartiene a tutti e tutti appartengono a lui. Il “sempre” è anche un “per sempre” - non c’è più un ritornare nel privato. La mia decisione di rinunciare all’esercizio attivo del ministero, non revoca questo. Non ritorno alla vita privata, a una vita di viaggi, incontri, ricevimenti, conferenze eccetera. Non abbandono la croce, ma resto in modo nuovo presso il Signore Crocifisso. Non porto più la potestà dell’officio per il governo della Chiesa, ma nel servizio della preghiera resto, per così dire, nel recinto di san Pietro. San Benedetto, il cui nome porto da Papa, mi sarà di grande esempio in questo. Egli ci ha mostrato la via per una vita, che, attiva o passiva, appartiene totalmente all’opera di Dio. Ringrazio tutti e ciascuno anche per il rispetto e la comprensione con cui avete accolto questa decisione così importante. Io continuerò ad accompagnare il cammino della Chiesa con la preghiera e la riflessione, con quella dedizione al Signore e alla sua Sposa che ho cercato di vivere fino ad ora ogni giorno e che vorrei vivere sempre. Vi chiedo di ricordarmi davanti a Dio, e soprattutto di pregare per i Cardinali, chiamati ad un compito così rilevante, e per il nuovo Successore dell’Apostolo Pietro: il Signore lo accompagni con la luce e la forza del suo Spirito. Invochiamo la materna intercessione della Vergine Maria Madre di Dio e della Chiesa perché accompagni ciascuno di noi e l’intera comunità ecclesiale; a Lei ci affidiamo, con profonda fiducia. Cari amici! Dio guida la sua Chiesa, la sorregge sempre anche e soprattutto nei momenti difficili. Non perdiamo mai questa visione di fede, che è l’unica vera visione del cammino della Chiesa e del mondo. Nel nostro cuore, nel cuore di ciascuno di voi, ci sia sempre la gioiosa certezza che il Signore ci è accanto, non ci abbandona, ci è vicino e ci avvolge con il suo amore. Grazie!

martedì 26 febbraio 2013

IL CASTELLO SCALIGERO DI VALEGGIO SUL MINCIO

Il castello scaligero di Valeggio sul Mincio è un castello di origine medievale situato lungo le rive del fiume Mincio, nella cittadina di Valeggio sul Mincio. Posizionato sulla sommità di una collina, dalla quale domina tutta la valle del Mincio il Castello Scaligero è stato edificato a partire dal XIII secolo dagli Scaligeri e nei secoli successivi è stato sottoposto a numerosi rifacimenti, che non hanno però alterato il suo aspetto medievale. Il castello di Valeggio sul Mincio, nonostante le ferite inferte dagli uomini e dal tempo, mantiene inalterata la suggestiva imponenza delle fortificazioni medievali. La parte visitabile, da poco restaurata, era originariamente chiamata la Rocca e ad essa si accedeva tramite due ponti levatoi. Un terzo ponte levatoio, l’unico ancora esistente, immetteva nella parte più ampia del complesso, chiamata il Castello. Di questo rimangono solo i ruderi delle mura perimetrali e l’intera area interna è ora occupata da una villa privata costruita all’inizio del 1900. E’ possibile ammirare, una volta entrati nella Rocca, l’antica Torre Tonda. Questa doveva formare con altre tre, raccordate da cortine merlate "guelfe", una fortificazione di epoca precedente sulla sommità della collina. La scelta di questo luogo per la realizzazione di una fortificazione non era certo casuale. Da secoli infatti esisteva uno dei punti più sicuri per l’attraversamento del fiume Mincio di notevole importanza strategica, proprio nella sottostante valle. In quel periodo il fiume Mincio segnava il confine tra il Sacro Romano Impero della nazione germanica e il Marchesato di Tuscia, formato dai vasti possedimenti dei potenti Canossa. Un violento terremoto, nel gennaio 1117, scosse l’Italia settentrionale, abbattendo la gran parte degli edifici in muratura, primi fra tutti le torri ed i campanili. Fu così che crollò la prima vera fortificazione valeggiana, lasciando superstite un’unica torre, la Torre Tonda. Il punto di svolta si ebbe nel 1262, quando venne eletto Capitano del Popolo Mastino Della Scala e nel giro di pochi anni la famiglia degli Scaligeri assumerà il controllo totale del potere in Verona, sovrastando in questo modo le deboli istituzioni comunali. I lavori di ricostruzione e di ampliamento della zona fortificata di Valeggio. Oltre alla realizzazione della Rocca e del Castello precedentemente citati, fu edificato l’avamposto sulle rive del Mincio, che inglobò alcune case e la piccola chiesa romanica dell’antico monastero di Santa Maria. Sulla collina, una muraglia (la “Bastita”) garantiva il collegamento fra la cinta turrita e il Castello. I lavori di un’altra "Bastita" iniziarono nel 1345, ad opera di Mastino II Della Scala. Questa seconda opera fu ben più impegnativa della precedente ed era parte di una poderosa linea difensiva costituita da fossati e mura merlate intervallate da torresini, scendeva dal Castello, circondava il piccolo villaggio di Valeggio, raggiungeva dopo quattro chilometri il fortilizio della Gherla, proseguiva lungo il fiume Tione toccando il castello di Villafranca di Verona per terminare, tre chilometri oltre, nelle campagne paludose che circondavano Nogarole. Quest’opera difensiva, il cosiddetto Serraglio (o Serraglio scaligero), era lungo circa 16 km. Nel 1348 la famosa "Peste nera" colpì anche Valeggio che falciò i due terzi delle popolazioni colpite e poco dopo l’ultimazione dei lavori, gli Scaligeri vennero sconfitti dai Visconti di Milano, i quali conquistarono il Serraglio e le roccaforti valeggiane, nel 1387. Nel 1393 il conte di Virtù, Gian Galeazzo Visconti, Signore di Milano, realizzò un complesso fortificato unico in Europa attraverso il raccordo del suo famoso Ponte-diga visconteo con la Rocca di Valeggio tramite due cortine merlate.
Il lento decadimento delle strutture tardo medievali iniziò durante la dominazione veneziana: le torri, superate dalle più moderne costruzioni strategico-militari ed impotenti di fronte alle nuove micidiali artiglieri, cominciarono crollare. Intorno alla metà del XVI secolo, la Serenissima cedette ai privati sia il Castello che il Ponte-fortificato. Con il passare dei secoli, a causa delle guerre e dell’incuria degli uomini gli antichi monumenti sono andati incontro ad un progressivo degrado. Nel 1984 il Comune di Valeggio sul Mincio riesce approvare e a far partire un importante progetto di ristrutturazione e rivitalizzazione del monumento, che prevede il consolidamento della struttura muraria, restituendo all’uso pubblico un castello tra i più suggestivi della zona. Recentemente è stata resa agibile la passeggiata che permette di accedere alla parte restaurata del castello; si tratta di una stretta ed erta strada, fra il verde della collina e le eleganti ville “liberty”. Nel 2011 è stato anche ripristinato un sentiero che permette di scendere direttamente dal Castello a Borghetto, lungo lo scosceso pendio della collina (il sentiero è seganalato nel catasto austriaco del 1808 ma lo storico locale C.Farinelli ipotizza che sia di epoca medievale). Uno splendido paesaggio delle Valle del Mincio si può ammirare dal piazzale della Rocca, tra le svettanti torri, e sull’altro versante, le case del paese e l’inizio della pianura veneta. Una leggenda di cui si sono perse le origini è legata all’antica torre rotonda. Narra la leggenda che nella suddetta torre venne murata la spada strappata ad un cavaliere ucciso in battaglia o forse assassinato in seguito a qualche intrigo. Lo spettro del cavaliere ritorna nelle notti di tempesta o di plenilunio per cercare la spada, l’unica che possa garantirgli il riposo dell’anima e il recupero del proprio onore. La spada non fu mai ritrovata e il cavaliere continua a tornare ogni notte di tempesta o di plenilunio per una ricerca senza fine.

Fonte: Wikipedia

BENEDETTO RIMANE "SUA SANTITA'"

Benedetto XVI, dopo il termine del Pontificato, avrà il titolo di «Papa emerito» o «Romano Pontefice emerito e ci si potrà ancora rivolgersi a Ratzinger chiamandolo «Sua Santità», così ha risposto Federico Lombardi capo della Sala Stampa Vaticana alle domande circa l'appellativo che spetterebbe a Ratzinger. Papa Benedetto XVI, dopo il 28 febbraio, «vestirà la talare bianca semplice, senza mantellina». L'anello del pescatore ovviamente non sarà mai più utilizzato da Benedetto XVI e, ha riferito il portavoce della sala stampa vaticana, «ne userà un altro». Quanto all'ultima giornata da Papa, la giornata di Ratzinger sarà così scandita: nel pomeriggio, intorno alle 16.55 il Papa partirà in auto dal cortile di San Damaso. Picchetto d'ordinanza della Guardia svizzera quindi la partenza in eliporto con il saluto del cardinale decano Angelo Sodano. Alle 17 è prevista la partenza in elicottero del Papa per Castelgandolfo dove arriverà intorno alle 17.15. L'accoglienza delle autorità locali con il sindaco e il parroco quindi il saluto alla diocesi intorno alle 17.30. Questo sarà l'ultimo atto da Papa di Benedetto XVI. La Guardia Svizzera a Castel Gandolfo. «Il 28 febbraio alle ore 20 la Guardia Svizzera che fa servizio alla porta di Castel Gandolfo terminerà il suo servizio di guardia alla porta del palazzo» ha aggiunto Padre Federico Lombardi precisando che la gendarmeria proseguirà il suo servizio di vigilanza e che «la sicurezza del Santo Padre è garantita». Quello che termina è il «servizio pubblico» garantito al Papa dalle guardie svizzere. 

BOARD GAMES MEDIEVALI



DOCUMENTARIO"LA GRANDE STORIA DEI CONCLAVI"

IL CLAMOROSO CASO DELL'ELEZIONE DI PAPA FABIANO

Fabiano, in latino Fabianus (... – 20 gennaio 250), fu il 20° vescovo di Roma e Papa della Chiesa cattolica dal 10 gennaio 236 al 20 gennaio 250. È venerato come santo dalla Chiesa cattolica e dalle Chiese ortodosse. Le circostanze straordinarie in cui avvenne la sua elezione furono riportate da Eusebio (Historia Ecclesiastica, VI, 29). Egli narrava di come i cristiani, che si erano riuniti a Roma per eleggere il nuovo vescovo, mentre esaminavano i nomi di molti personaggi nobili ed illustri, videro una colomba posarsi sulla testa di Fabiano, un contadino che si trovava per caso in città. Ai confratelli riuniti in assemblea questa vista ricordò la scena Evangelica della discesa dello Spirito Santo sul Salvatore dell'umanità, e così, divinamente ispirati, scelsero all'unanimità Fabiano quale successore di papa Antero. Durante il suo pontificato durato 14 anni, di cui si sa molto poco, le persecuzioni contro i cristiani ebbero una pausa. Secondo il Liber Pontificalis divise Roma in sette distretti ("diaconie"), ognuno supervisionato da un diacono e nominò sette sottodiaconi, per raccogliere, insieme ad altri notai, gli Atti dei martiri, cioè gli atti delle corti che li giudicarono nei loro processi; inoltre, portò avanti molti lavori nei cimiteri. Fece anche riesumare il corpo di papa Ponziano dalla Sardegna e lo fece traslare nelle catacombe di San Callisto a Roma. Racconti successivi, più o meno veritieri, gli attribuiscono anche altri meriti quali il battesimo dell'imperatore Filippo l'Arabo e di suo figlio; il miglioramento dell'organizzazione della chiesa a Roma con l'istituzione di ministri incaricati della trattazione di particolari problematiche scelti tra i sacerdoti del clero che ne avessero più titolo e merito, i cardinali, dal latino incardinatus (nella "diaconia"), colui che ha titolo per essere tale, e venendo dunque a formare una sorta di consiglio pontificio; l'istituzione dei quattro Ordini minori; l'ordinazione, nel 245, di sette vescovi incaricati di predicare il Vangelo nelle comunità di Gallia: Gatien a Tours, Trofimo ad Arles, Paolo a Narbonne, Saturnino a Tolosa, Dionigi a Parigi, Austremonio a Clermont, e Marziale a Limoges. San Cipriano, vescovo di Cartagine, riportò anche della condanna per eresia di Privato, vescovo di Lambaesa, in provincia d'Africa. Nel 249, però, le cose cambiarono per la comunità cristiana. L'imperatore Filippo l’Arabo venne ucciso nei pressi di Verona dagli eserciti del suo rivale Decio. Questi salì al potere con l'idea di un rafforzamento interno dell’Impero contro i pericoli esterni derivanti dalle invasione dei barbari, che premevano sui confini. Secondo Decio rafforzamento interno significava anche ritorno all’antica religione romana, anche se per sole ragioni politiche. Per questo motivo l'imperatore proclamò l'editto del libellus, in base al quale ogni famiglia avrebbe dovuto proclamare solennemente e pubblicamente, attraverso un sacrificio, la sua devozione alle divinità pagane ricevendone quindi il "libellus", una sorta di certificato che attestava la sua qualità di seguace degli antichi culti dello Stato e quindi la sua appartenenza a Roma. Coloro che non si attenevano a questa prassi venivano dichiarati fuorilegge e nemici dello Stato. In tutta Roma tre commissioni di cinque membri chiamarono i cittadini a compiere il rito. I cristiani insorsero, ma non tutti adottarono lo stesso comportamento: alcuni cedettero abiurando la loro religione e rendendosi così lapsi (dal latino lapsus, errore), ovvero ricaddero nel paganesimo, altri scelsero la via del martirio ed altri ancora cercarono ogni tipo di scappatoia per ricevere il "libellus" senza compiere il sacrificio. In particolare i benestanti riuscirono ad acquistarlo dalle autorità, e vennero definiti "libellatici". Naturalmente tra i primi a rifiutare questa imposizione ci fu Fabiano, che l'imperatore vedeva come un nemico personale ed un rivale. Il papa fu imprigionato nel carcere Tulliano, dove il 20 gennaio del 250 si spense per la fame e gli stenti. Fu sepolto nella cripta papale delle catacombe di San Callisto ed onorato come martire. Il suo epitaffio, in lingua greca, fu rinvenuto nel 1850 dall'archeologo Giovanni Battista de Rossi. Attualmente la sua testa è conservata nella cappella Albani della Basilica di San Sebastiano fuori le mura. Nel XV secolo le sue ossa furono donate alla città di Cuneo al posto di quelle di San Sebastiano, richieste per la nuova chiesa dedicata a questo Santo. Oggi le ossa del Papa martire sono collocate nella cappella delle reliquie del museo diocesano della Diocesi di Cuneo presso la chiesa di San Sebastiano. La sua memoria liturgica, nella Chiesa latina, ricorre il 20 gennaio. Nella Chiesa greca, invece, il 5 agosto.
Dal Martirologio Romano (ed. 2001):
«20 gennaio - San Fabiano, papa e martire, che da laico fu chiamato per grazia divina al pontificato e, offrendo un glorioso esempio di fede e di virtù, subì il martirio durante la persecuzione dell’imperatore Decio; san Cipriano si felicita del suo combattimento, perché diede una testimonianza irreprensibile e insigne nel governo della Chiesa; il suo corpo in questo giorno fu deposto a Roma sulla via Appia nel cimitero di Callisto.»
È venerato come patrono di Valsinni.

Fonte: Wikipedia

LA BATTAGLIA DI COLLE VAL D'ELSA

La battaglia di Colle di Val d'Elsa si svolse tra il 16 ed il 17 giugno del 1269 presso Colle di Val d'Elsa tra le truppe ghibelline di Siena e quelle guelfe di Carlo d'Angiò e di Firenze rappresentata da meno di 200 cavalieri fiorentini comandati da Neri de'Bardi. Dopo la battaglia di Montaperti dove la ghibellina Siena vinse sulla guelfa Firenze il 4 settembre 1260, Colle Val d'Elsa si trovava dalla parte guelfa. Fu infatti sede dell'esilio di molti guelfi dalla città senese e colpita dalla persecuzione che porterà i concittadini ghibellini ad inseguire i fuoriusciti fino a Lucca. Dopo la battaglia di Tagliacozzo il 27 agosto 1268 un'ennesima battaglia fra il Re Carlo d'Angiò, accorso in difesa del Pontefice Clemente IV, e il nipote di Federico II, Corradino, alla guida dei ghibellini, decretò nei dintorni di Roma la vittoria finale dei guelfi. Ma i ghibellini, nonostante la sconfitta, proseguirono nella loro opera di persecuzione dei guelfi e, durante l'inseguimento verso Lucca, si attestarono nel castello di Ulignano, attale frazione del comune di Volterra. Fu così che i comuni circostanti, Colle Val d'Elsa e San Gimignano in testa, decisero di attaccare quel castello e di inseguire i fuggitivi verso Pisa e Poggibonsi, fino a quando il grosso delle milizie ghibelline si ritrovò fra le mura di Pisa e Siena. Nel giugno del 1269 il Capitano Provenzano Salvani e il Podestà Conte Guido Novello uscirono da Siena con 1400 cavalieri e 8000 fanti fra senesi, pisani, tedeschi, spagnoli, fuoriusciti fiorentini e altri toscani, accampandosi nell'altopiano della Badia nei pressi dell'Abbazia di Spugna. I Colligiani, che non si aspettavano questo assedio, si rinchiusero fra le fortificazioni di Colle Alta e mandarono dei messaggeri per chiedere aiuto a Firenze. Il giorno successivo truppe francesi agli ordini del maresciallo Giambertoldo, Vicario del Re Carlo d'Angiò, giunsero a Colle Val d'Elsa, seguite – di sole ventiquattro ore – da un altro contingente di 400 fiorentini (che non giunsero in tempo per la battaglia). Durante la notte il Maresciallo schierò i francesi sulle mura di Colle Alta e fece conquistare il castello ghibellino dentro Colle, la mattina seguente alle prime luci la torre ghibellina segnalò l'avvicinarsi delle truppe inviate da Firenze (in realtà al momento della battaglia l'esercito fiorentino era ancora a Barberino, e ordinò che si suonassero le trombe e che si gridasse a squarciagola "con impegno" in modo da far credere ai ghibellini che le truppe da combattere erano molte più di quante essi non credessero. Sembra che lo scherzo funzionò, perché di primo mattino i ghibellini si ritirarono verso San Marziale, attestandosi su una collinetta Poggio ai berci. Il maresciallo Giambertoldo diede ordine alle milizie colligiane di aggirare quella collina rimanendo nascoste fino al momento in cui lui fosse apparso con le insegne fiorentine di fronte ai senesi e li avesse attaccati. Durante la sua avanzata il Maresciallo fece abbattere il ponte di S. Marziale per impedire ai suoi una ritirata, ma anche per rallentare la fuga senese. Arrivato in vista dei ghibellini, Gianbertoldo diede inizio alla battaglia, mentre dietro alle file senesi i colligiani sbucavano gridando e brandendo le armi, dando così la sensazione che altre truppe fossero in attesa di attaccare. Per quanto il Capitano Salvani minacciasse, promettesse compensi e gridasse, i soldati ghibellini combatterono solo poco e male, ritirandosi ben presto e dandosi alla fuga. Molti furono inseguiti e uccisi dai guelfi, mentre Salvani, non volendo tornare sconfitto a Siena, si gettò nella mischia e fu ucciso da Regolino Tolomei, suo nemico giurato. Gianbertoldo era riuscito, con soli 800 cavalieri e circa 300 fanti colligiani, a sconfiggere con l'astuzia un esercito di ben 9.400 uomini. Tutto questo accadeva sotto gli occhi della senese Sapia Salvani, cantata da Dante nella Divina Commedia (Purgatorio, Canto XIII e segg.), che seguì la battaglia pregando per la sconfitta dei suoi concittadini.

« Quegli è, rispose, Provenzan Salvani
ed è qui perché fu presuntuoso
a recar Siena tutta alle sue mani.
Ito è così, e va senza riposo
poi ché morì: cotal' moneta rende
a soddisfar, chi è di là tropp’osò »
(Purgatorio XI)

« Rotti fur quivi, e volti negli amari
passi di fuga, e veggendo la caccia letizia presi ad ogni altra dispari [...] »
(Purgatorio XIII)

Fonte: Wikipedia

LA BOLLA D'ORO

La Bolla d'oro (in tedesco Goldene Bulle, in latino Bulla Aurea) del 1356 è una delle più importanti leggi del Sacro Romano Impero Germanico. Tale editto, emesso dal Reichstag presieduto dall'Imperatore Carlo IV, stabiliva la natura elettiva della carica imperiale, ponendo fine al controllo diretto del papato sull'Impero. Fin dall'incoronazione di Carlo Magno nell'800 (effettuata appunto da papa Leone III) era prerogativa dei Pontefici di Roma, incoronare gli "Imperatori del Sacro Impero Romano". Nell'anno 1355, papa Innocenzo VI (Stefano Aubert, francese), incoronò Imperatore il Re di Boemia, Carlo IV della casa di Lussemburgo. Era convinzione del nuovo Imperatore che tale titolo gli fosse dovuto per diritto dinastico, disconoscendo così il diritto papale di sancire l'investitura dell'Imperatore. Conseguenza di tale suo convincimento fu l'emanazione, avvenuta a Norimberga nel 1356, della Bolla d'oro. La Bolla d'oro stabiliva che l'elezione dell'Imperatore fosse demandata ad un'assemblea di sette membri, quattro laici e tre ecclesiastici, senza alcuna interferenza papale, e con diritto dell'Eletto di essere incoronato indipendentemente dalla posizione della Chiesa di Roma. I quattro membri laici erano: il Re di Boemia, il Duca di Sassonia, il Margravio del Brandeburgo ed il Conte del Palatinato. I tre membri ecclesiastici erano gli Arcivescovi di Colonia, Magonza e Treviri. La Bolla d'oro stabilì il principio della indivisibilità territoriale e, per i soli membri laici, anche il diritto di trasmissibilità del Titolo mediante il principio della primogenitura, con conseguenti privilegi. La Bolla d'oro restò in vigore fino al 1806, anno in cui il Sacro Romano Impero si sciolse. Nei trentuno capitoli della Bolla d'oro trovavano spazio anche numerose altre leggi. In particolare, il quindicesimo capitolo stabiliva l'illegalità delle confederazioni, e consentiva la persecuzione delle leghe che si erano formate tra le città dell'Impero durante il Medioevo.

Fonte: Wikipedia

lunedì 25 febbraio 2013

SCOPRIRE IL MEDIOEVO NELLA TUSCIA

“Il Medioevo nei paesi della Tuscia viterbese”. E’ il titolo del convegno che si articolerà per due giorni, il 2 ed il 3 marzo 2013, a Barbarano Romano, Vejano e Blera. L’iniziativa, patrocinata e sostenuta dall’Assessorato alla Cultura della Provincia di Viterbo, è organizzata dall’Associazione culturale “L’Albero del Sapere” presieduta dalla giornalista e scrittrice Anna Maria Turi nota al grande pubblico soprattutto per le inchieste condotte sulla scomparsa di Emanuela Orlandi. Due giornate che contribuiranno ad arricchire le conoscenze storiche sul medioevo nella Tuscia e sull’influenza che questa epoca lontana, ma più che mai visibile nei borghi e nei principali centri storici dei paesi, ha prodotto sulla storia, la cultura, l’arte, le tradizioni, gli usi ed i costumi del territorio. Interverranno qualificati relatori che attraverso accurate ricerche storiche sono riusciti a ricostruire dettagliatamente le principali caratteristiche della Tuscia medioevale in ambito politico, economico, istituzionale, culturale e sociale, offrendoci uno spaccato di vita reale e dimostrando come quel periodo abbia avuto notevole influenza sui secoli successivi, fino a determinare la società moderna. “La Provincia è stata lieta di sostenere questa iniziativa – ha dichiarato l’assessore provinciale alla Cultura Giuseppe Fraticelli – perché ci aiuta a riscoprire le nostre origini, a ritrovare le comuni radici storiche. Tutta la Tuscia è stata influenzata notevolmente dal Medioevo sia in campo artistico che culturale e sociale, e andando a fondo avremo l’opportunità di capire anche come nascono, e come si sono sviluppate, alcune tradizioni ancora oggi presenti nel nostro territorio. Ringrazio la dottoressa Turi che ancora una volta è riuscita a proporre e ad organizzare un’iniziativa culturale di elevata qualità, con la presenza di autorevoli studiosi che presenteranno i risultati di ricerche accurate, effettuate con metodologie di carattere scientifico”. La prima location del convegno sarà la Sala Sant’Angelo a Barbarano Romano, sabato 2 marzo dalle 10,30 alle 13; il pomeriggio dalle 15,30 alle 18,30 i lavori proseguiranno presso il teatro comunale di Vejano; domenica 3 marzo dalle 10,30 alle 17,30 infine la giornata conclusiva presso la sala San Nicola a Blera.

Fonte: Viterbonews24.it

IL "MOTU PROPRIO" CIRCA LE REGOLE DEL CONCLAVE 2013

Con la Lettera apostolica De aliquibus mutationibus in normis de electione Romani Pontificis, data Motu Proprio a Roma l’11 giugno 2007 nel terzo anno del mio Pontificato, ho stabilito alcune norme che, abrogando quelle prescritte al numero 75 della Costituzione apostolica Universi Dominici gregis promulgate il 22 febbraio 1996 dal mio Predecessore il Beato Giovanni Paolo II, hanno ristabilito la norma, sancita dalla tradizione, secondo la quale per la valida elezione del Romano Pontefice è sempre richiesta la maggioranza dei due terzi di voti dei Cardinali elettori presenti. Considerata l’importanza di assicurare il migliore svolgimento di quanto attiene, pur con diverso rilievo, all’elezione del Romano Pontefice, in particolare una più certa interpretazione ed attuazione di alcune disposizioni, stabilisco e prescrivo che alcune norme della Costituzione apostolica Universi Dominici gregis e quanto io stesso ho disposto nella summenzionata Lettera apostolica siano sostituite dalle norme che seguono:

n. 35. “Nessun Cardinale elettore potrà essere escluso dall’elezione sia attiva che passiva per nessun motivo o pretesto, fermo restando quanto prescritto al n. 40 e al n. 75 di questa Costituzione.”

n. 37. “Ordino inoltre che, dal momento in cui la Sede Apostolica sia legittimamente vacante, si attendano per quindici giorni interi gli assenti prima di iniziare il Conclave; lascio peraltro al Collegio dei Cardinali la facoltà di anticipare l’inizio del Conclave se consta della presenza di tutti i Cardinali elettori, come pure la facoltà di protrarre, se ci sono motivi gravi, l’inizio dell’elezione per alcuni altri giorni. Trascorsi però, al massimo, venti giorni dall’inizio della Sede Vacante, tutti i Cardinali elettori presenti sono tenuti a procedere all’elezione.”

n. 43. “Dal momento in cui è stato disposto l’inizio delle operazioni dell’elezione, fino al pubblico annunzio dell’avvenuta elezione del Sommo Pontefice o, comunque, fino a quando così avrà ordinato il nuovo Pontefice, i locali della Domus Sanctae Marthae, come pure e in modo speciale la Cappella Sistina e gli ambienti destinati alle celebrazioni liturgiche, dovranno essere chiusi, sotto l’autorità del Cardinale Camerlengo e con la collaborazione esterna del Vice Camerlengo e del Sostituto della Segreteria di Stato, alle persone non autorizzate, secondo quanto stabilito nei numeri seguenti.

L’intero territorio della Città del Vaticano e anche l’attività ordinaria degli Uffici aventi sede entro il suo ambito dovranno essere regolati, per detto periodo, in modo da assicurare la riservatezza e il libero svolgimento di tutte le operazioni connesse con l’elezione del Sommo Pontefice. In particolare si dovrà provvedere, anche con l’aiuto di Prelati Chierici di Camera, che i Cardinali elettori non siano avvicinati da nessuno durante il percorso dalla Domus Sanctae Marthae al Palazzo Apostolico Vaticano.”

n. 46, 1° comma. “Per venire incontro alle necessità personali e d’ufficio connesse con lo svolgimento dell’elezione, dovranno essere disponibili e quindi convenientemente alloggiati in locali adatti entro i confini di cui al n. 43 della presente Costituzione, il Segretario del Collegio Cardinalizio, che funge da Segretario dell’assemblea elettiva; il Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie con otto Cerimonieri e due Religiosi addetti alla Sagrestia Pontificia; un ecclesiastico scelto dal Cardinale Decano o dal Cardinale che ne fa le veci, perché lo assista nel proprio ufficio.”

n. 47. “Tutte le persone elencate al n. 46 e al n. 55, 2° comma della presente Costituzione apostolica, che per qualsivoglia motivo e in qualsiasi tempo venissero a conoscenza da chiunque di quanto direttamente o indirettamente concerne gli atti propri dell’elezione e, in modo particolare, di quanto attiene agli scrutini avvenuti nell’elezione stessa, sono obbligate a stretto segreto con qualunque persona estranea al Collegio dei Cardinali elettori: per tale scopo, prima dell’inizio delle operazioni dell’elezione, dovranno prestare giuramento secondo le modalità e la formula indicate nel numero seguente.”

n. 48. “Le persone indicate nel n. 46 e nel n. 55, 2° comma della presente Costituzione, debitamente ammonite sul significato e sull’estensione del giuramento da prestare, prima dell’inizio delle operazioni dell’elezione, dinanzi al Cardinale Camerlengo o ad altro Cardinale dal medesimo delegato, alla presenza di due Protonotari Apostolici di Numero Partecipanti, a tempo debito dovranno pronunziare e sottoscrivere il giuramento secondo la formula seguente:

         Io N. N. prometto e giuro di osservare il segreto assoluto con chiunque non faccia parte del Collegio dei Cardinali elettori, e ciò in perpetuo, a meno che non ne riceva speciale facoltà data espressamente dal nuovo Pontefice eletto o dai suoi Successori, circa tutto ciò che attiene direttamente o indirettamente alle votazioni e agli scrutini per l’elezione del Sommo Pontefice.

         Prometto parimenti e giuro di astenermi dal fare uso di qualsiasi strumento di registrazione o di audizione o di visione di quanto, nel periodo della elezione, si svolge entro l’ambito della Città del Vaticano, e particolarmente di quanto direttamente o indirettamente in qualsiasi modo ha attinenza con le operazioni connesse con l’elezione medesima.

Dichiaro di emettere questo giuramento, consapevole che una infrazione di esso comporterà nei miei confronti la pena della scomunica «latae sententiae» riservata alla Sede Apostolica.”

         Così Dio mi aiuti e questi Santi Evangeli, che tocco con la mia mano.”

n. 49. “Celebrate secondo i riti prescritti le esequie del defunto Pontefice, preparato quanto è necessario per il regolare svolgimento dell’elezione, il giorno stabilito, ai termini del n. 37 della presente Costituzione, per l’inizio del Conclave tutti i Cardinali converranno nella Basilica di San Pietro in Vaticano, o altrove secondo l’opportunità e le necessità del tempo e del luogo, per prender parte ad una solenne celebrazione eucaristica con la Messa votiva pro eligendo Papa (19). Ciò dovrà essere compiuto possibilmente in ora adatta del mattino, così che nel pomeriggio possa svolgersi quanto prescritto nei numeri seguenti della stessa Costituzione.”

n. 50. “Dalla Cappella Paolina del Palazzo Apostolico, dove si saranno raccolti in ora conveniente del pomeriggio, i Cardinali elettori in abito corale si recheranno in solenne processione, invocando col canto del Veni Creator l’assistenza dello Spirito Santo, alla Cappella Sistina del Palazzo Apostolico, luogo e sede dello svolgimento dell’elezione. Parteciperanno alla processione il Vice Camerlengo, l’Uditore Generale della Camera Apostolica e due membri di ciascuno dei Collegi dei Protonotari Apostolici di Numero Partecipanti, dei Prelati Uditori della Rota Romana e dei Prelati Chierici di Camera.”

n. 51, 2° comma. “Sarà pertanto cura del Collegio Cardinalizio, operante sotto l’autorità e la responsabilità del Camerlengo coadiuvato dalla Congregazione particolare di cui al n. 7 della presente Costituzione, che, all’interno di detta Cappella e dei locali adiacenti, tutto sia previamente disposto, anche con l’aiuto dall’esterno del Vice Camerlengo e del Sostituto della Segreteria di Stato, in maniera che la regolare elezione e la riservatezza di essa siano tutelate.”

n. 55, 3° comma. “Se una qualsiasi infrazione a questa norma venisse compiuta, sappiano gli autori di essa che incorreranno nella pena della scomunica latae sententiae riservata alla Sede Apostolica.”

n. 62. “Aboliti i modi di elezione detti per acclamationem seu inspirationem e per compromissum, la forma di elezione del Romano Pontefice sarà d’ora in poi unicamente per scrutinium.

Stabilisco, pertanto, che per la valida elezione del Romano Pontefice si richiedono almeno i due terzi dei suffragi, computati sulla base degli elettori presenti e votanti.”

n. 64. “La procedura dello scrutinio si svolge in tre fasi, la prima delle quali, che si può chiamare pre-scrutinio, comprende: 1) la preparazione e la distribuzione delle schede da parte dei Cerimonieri – richiamati intanto nell’Aula insieme col Segretario del Collegio dei Cardinali e col Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie – i quali ne consegnano almeno due o tre a ciascun Cardinale elettore; 2) l’estrazione a sorte, fra tutti i Cardinali elettori, di tre Scrutatori, di tre incaricati a raccogliere i voti degli infermi, denominati per brevità Infirmarii, e di tre Revisori; tale sorteggio viene fatto pubblicamente dall’ultimo Cardinale Diacono, il quale estrae di seguito i nove nomi di coloro che dovranno svolgere tali mansioni; 3) se nell’estrazione degli Scrutatori, degli Infirmarii e dei Revisori, escono i nomi di Cardinali elettori che, per infermità o altro motivo, sono impediti di svolgere tali mansioni, al loro posto vengano estratti i nomi di altri non impediti. I primi tre estratti fungeranno da Scrutatori, i secondi tre da Infirmarii, gli altri tre da Revisori.”

n. 70, 2° comma. “Gli scrutatori fanno la somma di tutti i voti che ciascuno ha riportato, e se nessuno ha raggiunto almeno i due terzi dei voti in quella votazione, il Papa non è stato eletto; se invece risulterà che uno ha ottenuto almeno i due terzi, si ha l’elezione del Romano Pontefice canonicamente valida.”

n. 75. “Se le votazioni di cui ai nn. 72, 73 e 74 della sopramenzionata Costituzione non avranno esito, sia dedicato un giorno alla preghiera, alla riflessione e al dialogo; nelle successive votazioni, osservato l’ordine stabilito nel n. 74 della stessa Costituzione, avranno voce passiva soltanto i due nomi che nel precedente scrutinio avevano ottenuto il maggior numero di voti, né si potrà recedere dalla disposizione che per la valida elezione, anche in questi scrutini, è richiesta la maggioranza qualificata di almeno due terzi di suffragi dei Cardinali presenti e votanti. In queste votazioni, i due nomi che hanno voce passiva non hanno voce attiva.”

n. 87. “Avvenuta canonicamente l’elezione, l’ultimo dei Cardinali Diaconi chiama nell’aula dell’elezione il Segretario del Collegio dei Cardinali, il Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie e due Cerimonieri; quindi, il Cardinale Decano, o il primo dei Cardinali per ordine e anzianità, a nome di tutto il Collegio degli elettori chiede il consenso dell’eletto con le seguenti parole: Accetti la tua elezione canonica a Sommo Pontefice? E appena ricevuto il consenso, gli chiede: Come vuoi essere chiamato? Allora il Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie, con funzione di notaio e avendo per testimoni due Cerimonieri, redige un documento circa l’accettazione del nuovo Pontefice e il nome da lui assunto.”

Questo documento entrerà in vigore subito dopo la sua pubblicazione su L’Osservatore Romano.

Questo decido e stabilisco, nonostante qualsiasi disposizione in contrario.

Dato a Roma, presso San Pietro, il giorno 22 del mese di febbraio, nell’anno 2013, ottavo del mio Pontificato.

LEZIONE DI ARALDICA 19: IL TITOLO DI MARCHESE


Il titolo di marchese discende da un ruolo amministrativo che nel Medioevo era quello di governare le marche, ossia le regioni di confine dei Regni; e prenderebbe nome dalle parole germaniche “marche” e “mark” che significano “limite”. Nel corso del Medioevo furono costituite fra le altre le marche Hispanica, della Retia, della Fiandra, della Turingia, del Friuli, della Pannonia, della Bretannia. Si trattava dunque di un incarico che prevedeva non solo l’amministrazione ma specialmente la difesa del territorio. Il marchese era perciò chiamato a svolgere un’attività di sorveglianza particolarmente delicata, che necessitava di fortezze, soldati e rifornimenti, e che consentiva al titolare di assumere una parziale autonomia, e prestigio superiore a quello di altri funzionari. Anche in questo caso, il titolo non era ereditario, e l’incarico si estingueva quando il suo detentore cessava in ogni modo dalla carica. Poiché i dignitari che ricoprivano le funzioni di conte e marchese tendevano a rendere ereditarie le loro dignità, i sovrani preferirono conferirle spesso ai vescovi delle principali città, originando così il fenomeno diffuso dei vescovi-conti che a lungo avrebbero caratterizzato la vita politica dei possedimenti imperiali. Nonostante questi provvedimenti, vi furono Case come quella di Este che riuscirono ad assestare definitivamente sul proprio capo la corona marchionale trasmettendo ereditariamente il titolo. In Inghilterra dove pure era esistito il titolo amministrativo, per la prima volta la dignità feudale di marchese fu concessa nel 1386 in persona di Robert de Vere, creato marchese di Dublino. L’anno successivo egli fu anche elevato al titolo di duca d’Irlanda ma già nel 1388 fu dichiarato ribelle e perse i suoi onori. Un titolo di marchese di Dorset fu però concesso già nel 1397 a John Beaufort, conte di Somerset, primo figlio naturale legittimato di John di Gaunt. Un nuovo marchesato fu poi concesso nel 1551 a William Paulet, conte di Wiltshire, cui fu conferita la dignità su Winchester. Il primo marchese in Irlanda fu nominato solo nel 1789 quando Marcus Beresford, conte di Tyrone, fu creato marchese di Waterford. In Scozia questo titolo fu conferito per la prima volta nel 1681 in persona del conte di Queensberry che venne elevato anche al marchesato di Quensberry. Il titolo marchionale è diffuso in tutta Europa e in Italia ma non in Russia e Polonia. Né si trovano famiglie olandesi insignite con questa dignità.

Articolo di Carmelo Currò Troiano. Tutti i diritti riservati

domenica 24 febbraio 2013

L'ULTIMO ANGELUS DEL PAPA - IL VIDEO

BENEDETTO SINIGARDI, L'INVENTORE DELL'ANGELUS

Benedetto Sinigardi, conosciuto anche come Fra' Benedetto da Arezzo (Arezzo, 1190 – 1282), è stato un francescano italiano, beato della Chiesa Cattolica. Figlio di Tommaso Sinigardi e di Elisabetta Tarlati era, dunque, di nobile e facoltosa famiglia. Nel 1211, dopo aver assistito una predica di San Francesco d'Assisi ad Arezzo in Piazza Grande decise di entrare in convento. Ricevette l'abito direttamente da San Francesco. Nel 1217 fu nominato Provinciale delle Marche e successivamente partì missionario in Grecia, Romania e Turchia. Giunse infine in Terra Santa e vi rimase 16 anni come Provinciale. Tornò ad Arezzo e trascorse i suoi ultimi anni nel convento di Poggio del Sole, poi demolito, dove morì in tarda età. Fu lui a commissionare ad un ignoto pittore la croce ancora oggi conosciuta come croce del Beato Benedetto e che si trova oggi nella Basilica di San Francesco dov'è anche la sua salma. A far da sfondo a questa croce Piero della Francesca dipinse, due secoli dopo, il ciclo delle Leggenda della Vera Croce. Una tradizione considera il Beato Benedetto l'iniziatore della recita dell'Angelus: recitava infatti quotidianamente l'antifona Angelus locutus est Marie e questa sua devozione si diffuse prima fra i francescani e poi a tutti i fedeli. Non si tratta esattamente del testo attuale ma il contenuto e la scelta dei tempi nella giornata erano i medesimi. Tale tradizione trovò un sorprendente e autorevole sostenitore in papa Giovanni Paolo II che il 23 maggio 1993 pregò sulla tomba del beato e, prima di recitare l'Angelus disse, fra l'altro Ci troviamo nel luogo dove, secondo la tradizione, è nata l'usanza di recitare l'Angelus...
La memoria del Beato è il 13 agosto.
 
Fonte: Wikipedia

24/02/2013 L'ULTIMO ANGELUS DI PAPA BENEDETTO XVI - TESTO COMPLETO

 Cari fratelli e sorelle!

Grazie per il vostro affetto!

Oggi, seconda domenica di Quaresima, abbiamo un Vangelo particolarmente bello, quello della Trasfigurazione del Signore. L’evangelista Luca pone in particolare risalto il fatto che Gesù si trasfigurò mentre pregava: la sua è un’esperienza profonda di rapporto con il Padre durante una sorta di ritiro spirituale che Gesù vive su un alto monte in compagnia di Pietro, Giacomo e Giovanni, i tre discepoli sempre presenti nei momenti della manifestazione divina del Maestro (Lc 5,10; 8,51; 9,28). Il Signore, che poco prima aveva preannunciato la sua morte e risurrezione (9,22), offre ai discepoli un anticipo della sua gloria. E anche nella Trasfigurazione, come nel battesimo, risuona la voce del Padre celeste: «Questi è il figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!» (9,35). La presenza poi di Mosè ed Elia, che rappresentano la Legge e i Profeti dell’antica Alleanza, è quanto mai significativa: tutta la storia dell’Alleanza è orientata a Lui, il Cristo, che compie un nuovo «esodo» (9,31), non verso la terra promessa come al tempo di Mosè, ma verso il Cielo. L’intervento di Pietro: «Maestro, è bello per noi essere qui» (9,33) rappresenta il tentativo impossibile di fermare tale esperienza mistica. Commenta sant’Agostino: «[Pietro]…sul monte…aveva Cristo come cibo dell’anima. Perché avrebbe dovuto scendere per tornare alle fatiche e ai dolori, mentre lassù era pieno di sentimenti di santo amore verso Dio e che gli ispiravano perciò una santa condotta?» (Discorso 78,3: PL 38,491). Meditando questo brano del Vangelo, possiamo trarne un insegnamento molto importante. Innanzitutto, il primato della preghiera, senza la quale tutto l’impegno dell’apostolato e della carità si riduce ad attivismo. Nella Quaresima impariamo a dare il giusto tempo alla preghiera, personale e comunitaria, che dà respiro alla nostra vita spirituale. Inoltre, la preghiera non è un isolarsi dal mondo e dalle sue contraddizioni, come sul Tabor avrebbe voluto fare Pietro, ma l’orazione riconduce al cammino, all’azione. «L’esistenza cristiana – ho scritto nel Messaggio per questa Quaresima – consiste in un continuo salire il monte dell’incontro con Dio, per poi ridiscendere portando l’amore e la forza che ne derivano, in modo da servire i nostri fratelli e sorelle con lo stesso amore di Dio» (n. 3). Cari fratelli e sorelle, questa Parola di Dio la sento in modo particolare rivolta a me, in questo momento della mia vita. Grazie! Il Signore mi chiama a “salire sul monte”, a dedicarmi ancora di più alla preghiera e alla meditazione. Ma questo non significa abbandonare la Chiesa, anzi, se Dio mi chiede questo è proprio perché io possa continuare a servirla con la stessa dedizione e lo stesso amore con cui ho cercato di farlo fino ad ora, ma in un modo più adatto alla mia età e alle mie forze. Invochiamo l’intercessione della Vergine Maria: lei ci aiuti tutti a seguire sempre il Signore Gesù, nella preghiera e nella carità operosa.

Dopo l'Angelus

Cari fratelli e sorelle!

Grazie! Ringraziamo il Signore per un po’ di sole che ci dona!

Je vous salue affectueusement, chers amis de langue française! En ce dimanche, je vous invite à poursuivre avec courage et détermination votre chemin de carême qui est un temps spirituel de conversion et de retour au Seigneur. Je vous remercie de tout cœur pour votre prière et pour l’affection que vous me manifestez en ces jours! Que Dieu vous bénisse ainsi que vos familles et vos communautés! Bon carême à tous!

I offer a warm greeting to all the English-speaking visitors present for this Angelus prayer, especially the Schola Cantorum of the London Oratory School. I thank everyone for the many expressions of gratitude, affection and closeness in prayer which I have received in these days.  As we continue our Lenten journey towards Easter, may we keep our eyes fixed on Jesus the Redeemer, whose glory was revealed on the mount of the Transfiguration.  Upon all of you I invoke God’s abundant blessings!

Ein herzliches „Grüß Gott“ sage ich allen Pilgern und Gästen deutscher Sprache. Das Wort an die Apostel im heutigen Evangelium von der Verklärung des Herrn gilt auch uns: „Dies ist mein auserwählter Sohn. Auf ihn sollt ihr hören“ (Lk 9,35). Die Fastenzeit lädt uns neu ein, auf Christus zu hören. Und ihn bitten wir, uns mit seinem Wort zu nähren und die Augen unseres Geistes zu reinigen, damit wir fähig werden, ihn zu sehen und in allen Traurigkeiten der Welt seine Herrlichkeit zu erkennen (vgl. Tagesgebet). So will der Herr uns umwandeln in das wirkliche Leben hinein, das nur er schenken kann, weil er selber es ist. Allen danke ich für die vielen Zeichen der Nähe und Zuneigung, vor allem für das Gebet, das ich in dieser Zeit besonders empfangen habe. Der Herr stärke uns alle mit seinem Wort und mit seiner Gnade.

Saludo cordialmente a los peregrinos de lengua española, y a cuantos se unen a esta oración mariana a través de los medios de comunicación, agradeciendo también tantos testimonios de cercanía y oraciones que me han llegado en estos días. Jesús, nos dice el Evangelio de hoy, subió al monte a orar, y entonces se trasfiguró, se llenó de luz y de gloria. Manifestaba así quién era él verdaderamente, su íntima relación con Dios Padre. En el camino cuaresmal, la Transfiguración es una muestra esperanzadora del destino final al que lleva el misterio pascual de la pasión, muerte y resurrección de Cristo. Y también un signo de la luz que nos inunda y transforma cuando rezamos con corazón sincero. Que la Santísima Virgen María nos siga llevando de su mano hacia su divino Hijo. Muchas gracias, y feliz domingo a todos.

Queridos peregrinos de língua portuguesa que viestes rezar comigo o Angelus: obrigado pela vossa presença e todas as manifestações de afeto e solidariedade, em particular pelas orações com que me estais acompanhando nestes dias. Que o bom Deus vos cumule de todas as bênçãos.

Serdecznie pozdrawiam Polaków. Dziękuję wam za pamięć i dowody bliskości, które otrzymuję od was w tych dniach, a szczególnie za modlitwy. Ewangelia dzisiejsza prowadzi nas na Górę Tabor, gdzie Chrystus odsłonił wobec uczniów blask swego Bóstwa i upewnił, że przez cierpienie i krzyż możemy dojść do chwały zmartwychwstania. Umiejmy dostrzec Jego obecność, chwałę i Bóstwo w życiu Kościoła, w kontemplacji i w codziennych zdarzeniach. Z serca wam błogosławię.

[Saluto cordialmente tutti i Polacchi. Vi ringrazio del ricordo e della manifestazione di benevolenza che da voi ricevo in questi giorni e in modo particolare per le preghiere. Il Vangelo di oggi ci conduce sul monte Tabor, dove Cristo ha svelato davanti i discepoli lo splendore della sua divinità e diede la certezza che attraverso la sofferenza e la croce possiamo raggiungere la risurrezione. Dobbiamo saper scorgere la Sua presenza, la Sua gloria e la Sua divinità nella vita della Chiesa, nella contemplazione e negli eventi di ogni giorno. Vi benedico di cuore.]

Rivolgo infine un cordiale saluto a voi tutti di lingua italiana. Io so che sono presenti molte diocesi, rappresentanti di parrocchie, associazioni, movimenti, istituzioni, come pure tanti giovani, anziani e famiglie. Vi ringrazio per l’affetto e per la condivisione, specialmente nella preghiera, di questo momento particolare per la mia persona e per la Chiesa. A tutti auguro una buona domenica e una buona settimana. Grazie! In preghiera siamo sempre vicini. Grazie a voi tutti!

ANGELUS

L'Angelus è una preghiera cattolica in ricordo del mistero dell'Incarnazione. Il nome deriva dalla parola iniziale del testo in latino, Angelus Domini nuntiavit Mariae. Consiste di tre brevi testi che raccontano tale episodio, recitati come versetti e responsorio ed alternati con la preghiera dell'Ave Maria. Tale devozione viene recitata tre volte al giorno, all'alba, a mezzogiorno ed al tramonto. In tali orari una campana, talvolta detta "campana dell'Angelus" o "campana dell'Ave Maria", viene suonata. L'origine di questa pratica devozionale è da collocarsi, probabilmente, nei monasteri medievali. Mentre i monaci coristi cantavano le ore liturgiche, composte essenzialmente di salmi (conosciuti a memoria) e di antifone (lette dai codici esposti sui plutei), i conversi, spesso illetterati, interrompevano le loro occupazioni manuali e si univano alla preghiera. Le antifone variabili dell'ufficiatura erano sostituite da quelle fisse che commemoravano l'Incarnazione, mentre i tre salmi delle ore minori erano sostituite dall'Ave Maria. Un versetto e un'orazione concludevano la breve ufficiatura. L'istituzione ufficiale dell'Angelus viene da alcuni attribuita a Papa Urbano II, da altri a Papa Giovanni XXII. La recita tripla è ratificata anche dal re Luigi XI di Francia, il quale nel 1472 ordinò che fosse recitata tre volte al giorno. Alcune emittenti radiofoniche e televisive, anche in Eurovisione, trasmettono la recita dell'Angelus: ogni domenica il Papa a mezzogiorno tiene un breve discorso al termine del quale recita l'Angelus.

V/. Angelus Domini nuntiavit Mariæ,
R/. Et concepit de Spiritu Sancto.

Ave Maria, gratia plena, Dominus tecum. Benedicta tu in mulieribus, et benedictus fructus ventris tui, Jesus.
Sancta Maria, Mater Dei, ora pro nobis peccatoribus, nunc et in hora mortis nostræ. Amen.

V/. "Ecce Ancilla Domini."
R/. "Fiat mihi secundum Verbum tuum."

Ave Maria, gratia plena...

V/. Et Verbum caro factum est.
R/. Et habitavit in nobis.
 
Ave Maria, gratia plena...

V/. Ora pro nobis, Sancta Dei Genitrix.
R/. Ut digni efficiamur promissionibus Christi.

Oremus: Gratiam tuam quæsumus, Domine, mentibus nostris infunde; ut qui, angelo nuntiante, Christi Filii tui Incarnationem cognovimus, per passionem eius et crucem, ad resurrectionis gloriam perducamur.
Per eundem Christum Dominum nostrum. Amen.

Al termine dell'Angelus si recita il Gloria Patri per tre volte ed il Requiem aeternam una volta.

---------

V/. L'angelo del Signore portò l'annuncio a Maria,
R/. ed ella concepì per opera dello Spirito Santo.

Ave, Maria, piena di grazia, il Signore è con te. Tu sei benedetta fra le donne e benedetto è il frutto del tuo seno, Gesù. Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi peccatori, adesso e nell'ora della nostra morte. Amen.

V/. "Ecco sono la serva del Signore."
R/. "Avvenga in me secondo la tua parola."
 
Ave Maria, piena di grazia...

V/. E il verbo si fece carne.
R/. E venne ad abitare in mezzo a noi.

Ave Maria, piena di grazia...

V/. Prega per noi santa madre di Dio.
R/. Perché siamo fatti degni delle promesse di Cristo.

Preghiamo: Infondi nel nostro spirito la tua grazia, o Padre, tu che, all'annuncio dell'Angelo, ci hai rivelato l'incarnazione del tuo Figlio, per la sua passione e la sua croce guidaci alla gloria della risurrezione. Per Cristo nostro Signore. Amen.


Al termine dell'Angelus si recita il Gloria al Padre per tre volte ed il Requiem aeternam una volta. Talvolta è in uso aggiungere anche la recita del Angelo di Dio. Nella versione presente nel Catechismo della Chiesa Cattolica al termine si recita solo il Gloria al Padre.

venerdì 22 febbraio 2013

IL CASTELLO DI VICALVI

Il castello di Vicalvi, risalente all'XI secolo, si trova sulla sommità del colle interessato dall'omonimo paese della Valle di Comino, in provincia di Frosinone. Benché si presenti come rudere, questo forma con le due cinte murarie poligonali, quasi integre, una vasta area fortificata, che consente di leggerne le varie fasi di costruzione, le funzioni e la strutturazione all'interno di un più ampio sistema difensivo, comprendente anche i vicini manieri di Alvito e Picinisco. Prima possedimento longobardo, con principi di Capua, nel 1017 entrò nel possesso di Montecassino. I monaci lo tennero fino all'inizio del XIII secolo, quando passò alla famiglia d'Aquino, che ne rafforzò la fortificazione, cingendola di un doppio anello di mura. Dopo una breve successione, nel possedimento, fra gli Étendard e, ancora, i conti d'Aquino, il castello passò ai Cantelmo, i quali però, scegliendo come dimora il castello di Alvito, ne decretarono il repentino abbandono e la più lenta e graduale rovina. I resti consentono di testimoniare le prime fasi di fortificazione all'epoca preromana, in particolare al V o al IV secolo a.C., laddove i primi documenti che attestano la presenza del castello sono del 937. A parte diversi successivi ampliamenti, la prima vera ristrutturazione si collocherebbe nel XIV secolo, durante il possesso degli Étendard, in base all'insieme di elementi strutturali orizzontali e verticali richiamanti lo stile gotico, compresa l'originale copertura a falda unica pendente verso l'interno. Il castello di Vicalvi è anche noto alle cronache esoteriche, per le visioni che si sarebbero qui registrate. Secondo le leggende, in effetti, il luogo sarebbe teatro delle apparizioni di una ex-cortigiana di nome Aleandra Maddaloni. Lei avrebbe vissuto nel castello nel XVIII secolo, segnalandosi per aver fatto uccidere i giovani che seduceva, durante le assenze del marito. Questi però, avendola scoperta, la fece murare viva in una delle torri.

DALLE ORIGINI AL MEDIOEVO: VISITA GUIDATA AL MUSEO DI CAMPAGNATICO

Prosegue il nuovo ciclo di incontri organizzato dal Museo Archeologico e d’Arte della Maremma in collaborazione con il Corso di Laurea in Conservazione, Comunicazione e Gestione dei Beni Archeologici (Università di Siena, sede di Grosseto) e con la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana. Il programma comprende conferenze, visite guidate e presentazioni di volumi recenti che riguardano l’archeologia della Maremma o argomenti collegati alle aree di interesse del nostro Museo. Il prossimo appuntamento è previsto per domani, Sabato 23 febbraio alle ore 16.00, ex chiesa di Sant’Antonio Abate a Campagnatico: visita guidata alla mostra “Natione Italus: il territorio di Campagnatico dalle origini al Medioevo”. Ingresso libero. Per prenotare la visita inviare una email all’indirizzo maam@comune.grosseto.it o telefonare allo 0564 488760 ore 9.00-13.00. La visita si terrà se si raggiungerà un minimo di 10 prenotazioni.

Fonte: http://www.ilgiunco.net

L'ARCISPEDALE SANTO SPIRITO A ROMA

L'Arcispedale di Santo Spirito è un antico ospedale (ora centro congressi) nei pressi di Città del Vaticano, a Roma, adiacente al moderno Ospedale di Santo Spirito, che ne prosegue la tradizione. L'ospedale fu istituito nel sito dove in antichità risiedeva la "Schola dei Sassoni". L'edificio originario dell’ospedale Santo Spirito in Saxia fu la Schola, eretta anticamente con l'indirizzo di Nosocomio per volontà del re del Wessex, Ina (689-726). All'inizio del VIII secolo la Schola era stata concepita per ospitare il grande numero di pellegrini anglo-sassoni che visitavano annualmente Roma ed in particolare i suoi innumerevoli luoghi santi, come la tomba del Principe degli Apostoli. Lo stesso Beda ricorda che "Dalla Britannia venivano nobili e plebei, uomini e donne, guerrireri e artigiani, giovani e vecchi". Fu un pelligrinaggio che durò per secoli; in quel periodo Roma ebbe una tale notorietà che si contano non meno di dieci sovrani in pellegrinaggio ad limina Apostolorum": ad esempio, il primo celebre ospite romano fu Cedwalla, Re dei Sassoni occidentali (685-688). A seguito della fondazione della Schola, l’intero quartiere assunse una fisionomia esotica tanto da essere rinominata “città dei Sassoni”; ancora oggi, infatti, la riva destra del Tevere è chiamata “Borgo”. Sul principio del Pontificato di Leone IV un violento incendio, reso celebre dalla pittura di Raffaello, L'incendio di Borgo, invase la contrada dei Sassoni, danneggiando anche le Scholae dei Frisoni, dei Longobardi, dei Franchi e degli stessi Sassoni, fino a toccare la Basilica di San Pietro. Un così vasto incendio non poteva non essere doloso; difatti risulta che fosse stato appiccato dai Saraceni, penetrati per via fluviale. Fu lo stesso Papa Leone IV che curò la ricostruzione della chiesa di Santa Maria in Saxia e della Schola dei Sassoni e in questo ritrovo di pellegrini molti Re dell'Europa del nord come Burgredo dei Merci, Boerredo o il principe Alfredo il Grande trovarono riposo dopo un viaggio stancante. Seguì un periodo di florida vita; ma a causa di avvenimenti storici come l'invasione dei Normanni in Inghilterra nel 1066 e l'inizio delle crociate, che convogliarono le masse di pellegrini ad altre mete, l'istituzione decadde e di essa non rimase che il nome. Fu proprio Papa Innocenzo III a riportarla in auge, rielaborandola e rendendola uno dei più celebri ospedali del mondo. Il 25 novembre 1198, inoltre, egli approvò e raccomandò l’ordine degli Ospitalieri, attraverso la bolla “Religiosam vitam”, in cui accoglieva Guido di Montpellier e l’istituto da lui fondato sotto la protezione e i privilegi del Vaticano. Rilevante fu pure la vicenda riguardante i bambini orfani: per proteggerli e tutelarli, Innocenzo III dedicò a loro una nuova istituzione, la celebre "ruota degli esposti" dove venivano lasciati i bambini abbandonati.  Poco più tardi il vescovo di Chartres, Reginaldo, donerà una prebenda della sua chiesa all’ospedale di Santo Spirito, ancora chiamato di S. Maria in Saxia. Con la consacrazione di questa nuova istituzione, Innocenzo III creò uno statuto di regole per l’ordine degli Ospitalieri che ricevettero l’incarico di gestire e salvaguardare l’ospedale, sempre sotto la guida di Guido da Montpelier. Nel 1201 lo stesso Papa diede in dote all’ospedale di Santa Maria la chiesa omonima e le sue rendite. Sarà proprio questo l’atto che sancì la nascita del Venerando ospedale romano di Santo Spirito in Saxia; la chiesa limitrofa diventò invece un luogo di ospitalità. All'inizio della sua monumentale esistenza però la nuova struttura era costituita solo da una corsia rettangolare, illuminata da piccole finestre e in grado di assistere 300 infermi e 600 poveri. L’ospedale ricevette cospicue donazioni, come quelle di Giovanni senza terra, Re d’Inghilterra, che concesse "La donazione della chiesa di Wirtel e delle sue rendite quale dote all'Ospedale", oppure quelle dello stesso Papa Innocenzo, che promosse edifici da affiancare al nuovo istituto e che dal gennaio 1208 concesse alla nuova struttura il privilegio della Stazione Sacra nella domenica dopo l’ottava Epifania, accrescendo in questo modo lo zelo dei fedeli. La celebrazione era accompagnata da una processione ed una cerimonia solenne, dopo la quale il Papa elargiva 3 denari ai membri dell’ospedale e a 1000 poveri accorsi. Fu un evento importantissimo che fece radunare la popolazione nel nascente istituto. Particolarmente significativa fu l'omelia pronunciata dal Papa, che esordì con le parole: "Nel terzo giorno si fecero nozze in Cana, e v'intervenne la Madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli [...]". Sull'Ospedale romano posero le mani i Papi più illustri, e di secolo in secolo esso ottenne grandezza e splendore, grazie soprattutto alle offerte e alle donazioni di benefattori di tutto il Mondo Cattolico, tanto che il pontefice Pio VI lo poté proclamare "Il trono della Carità Cattolica".Conosciuto come cavaliere templare proveniente dalla famiglia dei conti di Guillaume di Montpellier. Egli costruì nella sua città natale una Casa Ospitale che sorgeva nella zona oggi denominata "Pyla-Saint-Gely", e fondò un ordine regolare di Frati Ospitalieri(1170), perché si dedicassero all’assistenza degli infermi, dei fanciulli abbandonati e di tutti i quanti avessero bisogno di aiuti e di cure. Documenti che risalgono al decennio 1180-90 ci dicono che l’ospedale di Montpellier era già in auge, come d’altra parte il nuovo ordine degli Ospitalieri. Proprio questo documento testimonia la presenza in Francia di già 6 Case di Santo Spirito, che seguivano il modello di Montpellier. Dando vita all’organizzazione di Santo Spirito, Guido volle che:” l’assistenza e la cura degli infermi fosse esente dalla freddezza di un servizio prezzolato, facendola assurgere al grado di un sacro dovere, degno di essere paragonato alla purezza dell’epoca apostolica e del primo cristianesimo.” Il futuro Papa Innocenzo III già nella sua permanenza in Francia aveva potuto ammirare questa efficiente realtà, tanto da commentare: "Qui si ristorano gli affamati, si vestono i poveri, si nutriscono i fanciulli orfani e proietti, si amministra il necessario agli infermie agli indigenti si elargisce ogni consolazione. Cosìcche il Maestro e i Frati di Santo Spirito non devono denominarsi ospiti dei poveri, ma loro servi, ed essi soli sono i veri indigenti perché caritatevolmente distribuiscono quanto è necessario ai bisognosi." Ed infatti, appena salito alla soglia papale, Innocenzo III celebrò pubblicamente l’istituzione delle case di Santo Spirito: ”Da sicure informazioni sappiamo che l’ospedale di Santo Spirito, fondato in Montpellier dal nostro diletto figlio Frate Guido, su tutti gli altri ospedali di nuova fondazione rifulge per Religione e per esercizio della più grande carità Ospitaliera, come sanno bene tutti coloro che ne hanno avuto l’esperienza”. La stima di Innocenzo III verso Guido era tanta che il Papa lo nominò commissario contro gli eretici in Francia. Con la bolla del 1198 egli confermò la fondazione degli Ospitalieri e l’accolse sotto la sua protezione, insieme a tutte le filiali francesi e quelli nascenti a Roma, come Santa Maria in Trastevere e Sant’Agata sulla via Aurelia. Il desiderio di Guido ebbe la fortuna d’incontrarsi con il pensiero di Innocenzo III. Il Papa stesso, in una sua lettera ai vescovi della Francia, proclamò Guido come “Uomo timorato di Dio e dedicato alle opere di Carità”. Nel 1471 l’ospedale fu preda di un imponente incendio che lo ridusse in uno stato fatiscente. Sisto IV, in visita all'ospedale poco dopo la sua nomina a pontefice(1471-1484), lo descrive: “ le mura cadenti, gli edifici angusti, tetri, privi d’aria e di ogni più elementare comodità, offrono l’aspetto di un luogo destinato più alla relegazione che a ricuperare la salute”. Ne decise la ricostruzione immediata, anche in previsione del Giubileo. Grazie a Papa Sisto IV si poté assistere ad una vera e propria rifioritura del nosocomio, che divenne il più importante luogo della ricerca scientifica: basti ricordare che al suo interno si avvicendarono medici illustri come Giovanni Tiracorda, medico di Clemente X, Lancisi, Baglivi, i quali furono protagonisti di importati studi medici. Inoltre non bisogna dimenticare che all’interno dell’Antica Spezieria fu sperimentato l’utilizzo della corteccia di china nel trattamento della malaria. Dal punto di vista religioso è importante ricordare che l’ospedale poté godere della presenza di personalità come San Filippo Neri e San Camillo De Lellis. Infine, non si può dimenticare l’importanza del Teatro di Anatomia che fu di richiamo per artisti e scienziati come Michelangelo, Leonardo Da Vinci e Sandro Botticelli, che riprodusse la facciata dell’ospedale nello sfondo dell’affresco “ La purificazione del lebbroso”. A fondamento dell’ordine Ospitaliero è la Regola che consta di ben 105 brevi capitoli, molti dei quali riprendono per lunghi tratti doveri di altri ordini religiosi sorti precedentemente. Della Regola del Santo Spirito esistono due esemplari di epoca posteriore: uno si trova nell’archivio di Stato in Roma e l’altro nell’archivio dell’ospedale di Digione, ambedue risalenti al XV secolo. Questa Regola ha la grande efficacia di calarci nell’ambiente ospitaliero, pervaso da disciplina e altruismo, e chiarisce in maniera esaustiva com'era scandita la vita quotidiana nell'ospedale. In particolare, è importante sottolineare come la maggior parte dei capitoli siano incentrati a rendere più confortevole e sana la permanenza degli infermi nella Struttura. Così il Cap. 1 afferma che ogni bene è comune e che "Nessuno ardisca dire che una cosa è sua", oppure nel Cap.15 "Norma costante sia lo spirito di carità", o infine nel Cap. 33 dove si trovano norme scrupolose riguardo la necessità di provvedere agli indumenti ed alla nutrizione degli orfani. Già sul finire del XII secolo si riscontra l’esistenza in Roma di due ospedali dell’Ordine di Santo Spirito: il primo (quello di cui si parla maggiormente in questa trattazione) vicino S.Maria in Trastevere; l’altro nei pressi di Sant’Agata, alle porte della città. Mentre nel XII secolo in Italia se di ospedali sotto quest’ordine se ne potevano contare sostanzialmente 3, includendo anche quello vicino la chiesa di S. Biagio ad Orte, già alla fine del secolo seguente gli Ospedali di Santo Spirito ammontavano già a un centinaio, molti dei quali nel Lazio e gli altri in Umbria, Abruzzo, Marche, Toscana e Regno di Napoli. Di questi ricordiamo i più famosi ed importanti: oltre alla casa madre di Roma, quello di Firenze, di Milano.

Fonte: Wikipedia

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