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La Grande Storia dei Cavalieri Templari

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giovedì 25 settembre 2014

"OSTIENSIA - TRA MEDIOEVO E RINASCIMENTO" BORGO DI OSTIA 27 E 28 SETTEMBRE 2014


Il Borgo di Ostia Antica sarà teatro di un suggestivo evento che avrà luogo sabato 27 e domenica 28 settembre in occasione della manifestazione organizzata dall'Associazione "Ad Hoc Eventa" intitolata "OStiensia - Tra Medioevo e Rinascimento". Grazie alla creazione di eventi a tema, l'assessorato del X municipio vuole valorizzare le splendide evidenze architettoniche del borgo come la Rocca di Giulio II e gli affreschi del Salone Riario veri e propri capolavori. Un evento assolutamente da non perdere per chi vuole tuffarsi nella sempre suggestiva atmosfera medievale in una cornice fantastica.

OSTIENSIA – TRA MEDIOEVO E RINASCIMENTO

PROGRAMMA 

Evento di Rievocazione storica con ricostruzione di accampamenti, arti e mestieri di epoca Medievale e Rinascimentale, in abiti storici, con spettacoli itineranti di musica , danza, giulleria, scherma storica, tornei di lancio del dardone, baratteria e sala delle torture, cavalleria storica e messe in scena.
Le attività rievocative e didattiche si svolgeranno in modo continuo, anche in forma di spettacolo.

SABATO 27 SETTEMBRE

ore 10:00 apertura evento : mercato, didattiche e laboratori nel borgo, accampamenti nel fossato del castello
ore 11:00 arrivo al borgo e accampamento di popolani e milizia.
ore 12:00 l’arresto del baro nella baratteria e processo con duello di scherma storica.
ore 12:30 punizioni corporali del baro nella sala delle torture
ore 13:00 danze e duelli medievali e rinascimentali
ore 13:30 alla mensa di Giulio II : il rinascimento a tavola
ore 15:30 inizio spettacoli itineranti di musica antica e giullaria, addestramenti degli armigeri, prosecuzione 
di tutte le attività rievocative e didattiche
ore 16:00 arrivo al borgo del cavaliere duca Giovanni della Rovere
ore 17:00 danze e duelli – musica e giullaria – torneo di lancio del dardone
ore 18:00 l’arresto del baro nella baratteria e processo con duello di scherma storica
ore 18:30 punizioni corporali del baro nella sala delle torture
ore 19:00 torneo di lancio del dardone – duelli medievali e rinascimentali
ore 19:30 alla mensa di Giulio II: il rinascimento a tavola, chiusura laboratori didattici
dalle ore 21 alle ore 23 spettacolo storico:”la difesa della rocca con assalti e difese, musica, giullaria, 
giocoleria, e danze”

DOMENICA 28 SETTEMBRE

ore 10:00 apertura evento: mercato, didattiche e laboratori nel borgo, accampamenti nel fossato del castello
ore 10:30 danze e duelli medievali e rinascimentali
ore 12:00 torneo di lancio del dardone
ore 12:30 danze rinascimentaliore 13 addestramento degli armigeri
ore 13:30 alla mensa di Giulio II: il Rinascimento a tavola
ore 15:30 l’arresto del baro nella baratteria e processo con duello di scherma storica
ore 16:00 punizioni corporali del baro nella sala delle torture
ore 17:00 chiusura evento, chiusura laboratori didattici
ore 18:00 convegno sulla rievocazione storica presso il Salone Riario dal titolo “ Rievocazione storica: la cultura come risorsa economica e sociale” e premiazione.

ACCADDE OGGI: LA BATTAGLIA DI STAMFORD BRIDGE


La Battaglia di Stamford Bridge prende il nome da un villaggio inglese ed è considerata l'ultima battaglia prima della fine dell'epoca vichinga il terra d'Inghilterra. La battaglia ebbe luogo il 25 settembre dell'Anno del Signore 1066 solo pochi giorno dopo la vittoria dell'esercito norvegese di Hardrade sull'esercito del Nord formato da dal conte Edwin della Mercia, e da Morcar conte del Northumbria nella battaglia di Fulford. Dopo una marcia passata alla storia, Aroldo II Godwinsson si scontrò con Hardrade che occupò il ponte sullo Stamford con un soldato dotato solo di ascia. Evidentemente, stando alla Cronache Anglosassone" era così alto che spaventò l'intero esercito riuscendo a tenere il ponte per poche ore gettando in acqua chiunque osasse affrontarlo prima di essere ucciso trafitto da una lancia. Il tempo perso dall'esercito consentì il re Hardrade di posizionare l'esercito su una altura lasciando avvicinare l'esercito avversario. Durante la battaglia cruenta morì il re di Norvegia e Tostig del Wessex (fratello di Aroldo ma alleato col nemico) e fu sancita la vittoria inglese. Il re decise di far salpare i sopravvissuti vichinghi a patto che non avrebbero più osato attaccare Inghilterra. La tregua durò molto poco: infatti dopo tre settimane Aroldo II fu sconfitto dai normanni di Guglielmo il Conquistatore durante la celeberrima battaglia di Hastings...il giorno era il 14 ottobre 1066 e iniziò la conquista normanna dell'Inghilterra. 

martedì 23 settembre 2014

MARCO POLO - SCHERZO IN UN ATTO. AUTORE MAURO PAGAN


Con Sguardo Sul Medioevo collaborano circa 35 persone e chi più chi meno hanno consentito al blog di diventare un ottimo raccoglitore di articoli medievali. Negli ultimi giorni la mia mail è stata riempita di persone che vogliono contribuire ma, forse perchè mi portano alla mente ricordi divertenti, mi piace presentarvi Mauro Pagan un burattinaio (come diciamo a Roma) che ci ha proposto una rivisitazione de "Il Milione" di Marco Polo in veneto sotto forma di sceneggiatura per teatrino....davvero...delizioso!

Marco Polo 
 Scherzo in un atto di Mauro Pagan. 

La scena mostra la prigione di Genova (palazzo San Giorgio).  Seduto ad un tavolo, nell’atto dello scrivere, vi è Rustichello da Pisa; accanto, su di un tavolaccio, dorme Marco Polo. Ha un sonno agitato, si gira e si rigira mentre, nel sogno, pronuncia queste parole: 

Marco Polo: Vado in Cina! 
 No! Resto a Venessia! 
 Resto in Cina! 
 No! Torno a Venessia! 
 Vado e torno… 
 Torno e vado…
 Prima evado 
 E dopo torno.
 Ma dove vado?
 (Rustichello, incuriosito, lo guarda. Nel frattempo Marco cade dal 
 tavolaccio e si sveglia). 
 Ostia che bota! 
 G’ho tuta l’ossa rota! 
 Sciàvo, Rustichello… 
 Com’è il tempo, brutto o bello? 
 Oh! Chiedo scusa, buon fratello, 
 se a risponder t’interpello; 
 già lo so che tu sei muto, 
 sono stato inavveduto. 
 ……………….. 
 Ehh… un pisano e un veneziano 
 In prison, xé squasi un anno; 
 ti ti scrivi e mi qua sogno 
 d’esser liber s’ha bisogno. 
 Cosa scrivi, Rustichello, 
 cosa seria o indovinello? 
 Posso legger le parole? 
 (Rustico gli dà il foglio). 

 Oh! Son tante… come prole. 

 (legge). 2
 “Stiamo en due en ella prigione de Genova, davanti allo mare et allo porto, 
 et ogni die sentìmo le grida delli marinai. Qui la vita è dura assai. Lo mio 
 compagno de cella à nome Marco Pollo” … Marco Pollo? 
 Rustichello, sii paziente, 
 ma l’errore é sì evidente: 
 non mi chiamo Marco Pollo, 
 né gallina o capocollo. 
 Sono solo Marco Polo, 
 Polo Marco, solo solo. 

 (riprende a leggere). 
 Ordunque… “egli è un veneziano che li genovesi hanno sprigionato en 
 ella battaglia del Caazzo” … del Caazzo?! 
 Rustichello, 
 questo proprio non è bello; 
 che sia pure del Caazzo, 
 la battaglia, non fo chiazzo, 
 ma suo nome è inver Caiazzo. 
 Tu capisci ch’è diverso, 
 la vocale ti sei perso! 
 (riprende a leggere). 
 Ordunque …. “battaglia di mare e vittoria delli genovesi. Li genovesi 
 sono essi gente bene strana, talché io li fatico a li comprendere. Spesso, per 
 lo esempio, senti che lo uno chiama lo altro ‘belino’, et io l’usanza non 
 comprendo, poi ché non si puote dire essi siano in particolare belli… 
 almeno li omeni…”. 
 Rustichello, sii paziente, 
 ma l’errore é si evidente 
 che ti sembri deficiente; 
 ché ‘belino’ non vuol dir 
 che quell’uomo sia carin… 
 (riprende a leggere). 
 “… le femene, per lo contrario, le sono belle assaie.” 
 E su questo son d’accordo, 
 no ti sembri un gran balordo.
 (riprende a leggere). 
 “Ma pur una volta che io camminavo en el borgo detto de San Lorenzo et 
 ne vidi una che me pareva bella assaie, ardii de appellarla a l’usanza et 
 dissile forte: ‘Ohi, belina, dove vaie’? Ma ella se ofese grandemente et 
 con tuta la famiglia sua, che purtroppo la era tanta, me percorse et me 
 percosse che ancor ne porto el segno. Et io ne concludo che femena bella 
 è la genovese, ma assaie pazzerella.” 
 Et io concludo, 3
 Rustichello, sii paziente, 
 se non proprio deficiente 
 mi te digo fino fino: 
 ti xé proprio un gran belino! 
 (folgorato da un’idea). 
 Rustico! Mi qua vedo che te ami la scrittura 
 E del mondo e della gente cussì far la dipintura: 
 ti voressi far per mi letteratura 
 e la storia che te conto scriver qua senza premura? 
 (Rustico lo guarda senza rispondere) 
 Rustico! 
 Non è favola, ma storia, 
 ché non è consolatoria, 
è una storia veritiera 
d’un paese oltre frontiera 
che se ciama India, Erminia, 
Persia, Cina e Tarteria. 
Rustichello, 
lungo viaggio è la mia vita, 
molta storia ho vista e udita; 
molte cose, e d’arte e guerra 
posso dir di quelle terra. 
(improvvisamente abbassa il volume della voce e guarda in direzione della 
guardia carceraria).
E tu sai che i genovesi 
Voglion ch’io gliel’appalesi, 
poiché sempre il mercantaggio 
vuol servirsi del spionaggio. 
Mi prometton: “Parla, ch’esce” 
Ma io… muto, come un pesce. 
Ma tu scrivi! 
Scrivi pure quel che detto 
Scrivi pur nel to dialetto 
Scrivi presto sul foglietto 
Che faremo un bel libretto; 
Ti verrà che bel quadretto, 
Vinceremo lo scudetto! 
(alzando la voce, entusiasta) 
Rustico! Scrivi! Ostia de un can 
Tuta la storia del Gran Can! 
(Rustico si appresta a scrivere) 4
Scomincio: 
“Signori, imperatori, re e duci e tutte altre genti, che volete sapere le diverse 
generazioni delle genti, leggete questo libro dove le troverete tutte e dove 
messere Marco Polo – con una elle solamente – savio et nobile cittadino di 
Vinegia…” 
(nel frattempo, avvicinatosi al tavolo di Rustichello, rilegge quanto gli ha 
dettato). 
Oh! Vedemo, sì, bravo, leggete questo libro dove le troverete tutte e dove 
messer Marco Pollo con una elle solamen… ma cossa ti g’ha scritto, ciò? 
Ma allora proprio no ti capissi gnente! Polo, el nome della mia famegia, va 
scritto con una sola elle: P, O, L, O. 
Forza scrivi e non far danni 
O ghe vorrà un milion de anni. 
Ma saltiam l’introduzion 
Passo ad altra descrizion… 
‘Scolta: 
prendi e scrivi questa storia 
che me torna alla memoria; 
storia bella, ma sì orrenda 
ch’or tra gli arabi è leggenda. 
E’ la storia… 
(Rumori da fuori e urla)
Cossa nasse in ‘sto frangente? 
Non ghé paxe eternamente, 
urla e grida in permanente, 
qua i ne trata crudamente. 
(viene portato un prigioniero e bastonato). 
Questa scena è assai scortese, 
pover omo, se n’ha prese! 
Genovesi! Gente dura 
E spietata addirittura, 
io non sempre la capisco… 
Senti bene, definisco: 
nel 1266 e di giugno il 23 
genovesi e veneziani 
fecer guerra assai, ahimé! 
In quel mare che sta lì 
Ben davanti a Trapanì. 
Qui la flotta genovese 
Si trovò male in arnese, 
per error dell’ammiraglio 
il Lanfranco Borborino, se non sbaglio. 
Tre galee furon bruciate, 5
Ventiquattro catturate. 
L’ammiraglio Borborino 
Pagò caro il suo destino; 
qui in città con la sua nave 
venne sì, ma sottochiave 
ei fu messo immantinente: 
fu trattato da fetente. 
Fu un error non perdonato, 
ma morale ci ha portato. 
Questa gente genovese non concorde, 
l’uno sempre contro l’altro va discorde; 
l’un gioisce se del mal all’altro è fatto 
sì che ogni lor nemico è soddisfatto. 
Ma io, Rustico, ti dico ch’era un tempo 
Che a discuter non si davan perder tempo, 
che coraggio e buon valore era solo loro onore 
e vittorie nella guerra riportavan con clamore. 
Perché fosser forti forti come allora, 
basterebbe che concordia rinascesse come aurora. 
Ma fin troppo ne ho parlato, 
riprendiamo quel dettato. 
Anzi, meglio, prendo un fiato, 
(prende una scodella ed una ne porge a Rustichello)
beviam qui dell’avvinato 
(Rustico beve, mentre il Polo continua a parlare). 
Sai, fratello, il ricordo mi riporta alla mia Cina 
Ed al vino che bevendo mi riempiva la pancina; 
oh! vin di riso, colle spezie, chiaro, bello ed inebriante, 
vino caldo, ben fumante e nel corpo penetrante. 
Quante volte abbiam bevuto, stando assieme al grande Cane, 
ora invece 
(beve e sputa) 
questo è vin del fiòl d’un cane! 
A proposito del Cane, meglio, dico, del Gran Can, 
mi ricordo la canzone che cantavo ai suoi figlioli,
poi ché, sai, ‘i son stato precettore per quel clan
e canzoni e filastrocche ‘i cantava ai suoi boccioli. 
Ben, tra quelle v’era questa 
Ch’era poi la più richiesta.. 
(se non si può aver musica dirà: 
“te la canto senza note 
quindi te la lascio in dote” e canta; 
se invece c’è musica, dirà: 
“te la canto pari pari 6
e se vuoi tu te la impari”) 
Canzone: I figli del Can (Lam-Rem-Mi) 
Se siam tanti in tutto il mondo 
È perché papà è fecondo 
Cinque mamme abbiamo in tutto 
Lui feconda dappertutto. 
Anche s’egli è un Grande Cane 
Non ci fa mancare il pane: 
noi siam dodici cagnetti 
e abbiam piccoli i musetti. 
Qui a palazzo, se ci vieni, 
di animali siamo pieni, 
pappagalli e francolini 
bei cinghiali e leoncini; 
di quegl’altri non diciamo 
coccolarli preferiamo, 
ma son tutti beneamati, 
ben lavati e ben sfamati. 
Ma chissà perché coi gatti 
Poco accordo c’è ed infatti 
Anche il pà, ch’è il Grande Cane 
Ne ha ammazzati due stamane. 
Gatti, gatti, attenti al cane 
Che per voi è un pescecane. 
Gatti! Attenti al pescecane 
Ch’è ogni gran figlio di cane. 
…………………………… 
Ma or la storia, quella orrenda, 
già t’ho detto ch’è leggenda 
e tu scrivi, scrivi tutto 
già vedrai che farabutto. 
E’ una storia d’assassini, o feddayn 
Il cui capo aveva un nome: l’Aladdin. 
Il profeta Maometto 
Ha descritto e ben sì detto 
Com’è fatto il Paradiso 
E il dettaglio è assai preciso: 
donne belle in abbondanza, 
c’è di tutto per la panza, 
vino, miele e latte a fiumi, 
tutti liberi i costumi. 
Così è fatto ‘l Paradiso 
E l’Aladdin fu dell’avviso 
Farne uno a sua misura 
E qui comincia l’avventura. 7
Fece un falso Paradiso 
A quel vero ben preciso, 
ivi mise belle donne 
a cui pria levò le gonne. 
Quindi latte, miele e vino 
Tutto a fiumi per benino. 
Chiuse ‘l tutto e ‘l sigillò 
Tra due monti e se ne andò. 
Se ne andò a fare cosa? 
Io ti dico quale cosa, 
ma tu scrivi quel che dico, 
che a ridir non m’affatico. 
Cerca e trova della droga, 
hashish, oppio, con gran foga; 
quindi trova giovanotti 
e a fumar li rende edotti. 
Quelli fuman, innocenti 
e nel sonno piomban lenti. 
Tutti quanti, ormai drogati, 
li rapisce addormentati: 
nottetempo in Paradiso 
li trasporta senza avviso. 
Ora attento a che succede 
Ch’è un racconto da mercede. 
Al risveglio i giovanotti 
Credon sì ai loro occhi! 
“Questo è proprio il Paradiso 
qual Maometto di preciso”! 
Stan felici e ben contenti 
Ché per uno c’è per venti; 
son felici e senza affanno 
ché le donne gliela danno! 
Così passan loro tempo, 
donne e pappa è un passatempo. 
Ora viene quel ch’è orrendo 
E io tosto te l‘apprendo. 
Gl’innocenti giovanotti 
Ad uccider sono indotti 
Da quel capo d’assassin 
Che t’ho detto è l’Aladdin. 
Quando vuole un assassino 
Lui lo droga e dal giardino 
Via lo porta in altro posto 
Mentre dorme tosto tosto. 
Poi lo sveglia all’improvviso 8
E gli chiede dritto in viso: 
“Ti piaceva ‘l Paradiso”? 
Poi ché quel ci vuol tornare 
Ei gli dice come fare; 
“Vai, e uccidi chi m’è inviso, 
se ritorni è ‘l Paradiso”! 
Or quel giovin per benin 
Si trasforma in assassin. 
Egli parte a assassinare 
Per poter lì ritornare 
E se muore non gl’importa, 
Ché del Ciel s’apre la porta, 
sì ch’è detto feddayn
non perché sia un’assassin, 
ma quel nome vuole dire 
chi pel Cielo vuol morire. 
Rustico, 
interrompo il mio racconto 
già è passato ormai ‘l tramonto. 
Or son stanco de parlar 
Vogio metarme a sognar 
De Venessia e de la Cina 
Ch’è ogni giorno più vicina. 
Altra volta contarò 
Quel che ho visto 
E parlerò. 
Questo libro s’ha da fare 
Un milione son le cose da narrare. 
Buon riposo alle tue mani 
S’ciao a tutti e un buon domani 
(si ridiscende sul tavolaccio.Musica) 
FINE. 

Testo di Mauro Pagan. E' VIETATO riprodurre il medesimo senza il consenso scritto dell'autore stesso

RIMUTAR L'ARTE DI GRECO IN LATINO: LE PRINCIPALI CARATTERISTICHE DELLA PITTURA DI GIOTTO

Sono sempre rimasto affascinato dal passo tratto dal Libro dell'Arte di Cennino Cennini in cui l'autore dichiara che Giotto "rimutò l'arte del dipignere di greco in latino e ridusse al moderno",  dalla capacità di riuscire, con poche parole, a restituire perfettamente, ancora oggi, come un osservatore medievale dovette cogliere ed apprezzare le novità del portato giottesco. Ma in cosa consistono queste novità? Tutti noi siamo stati studenti, e reminiscenze di quei tempi ci ricordano che Giotto portò nei suoi dipinti quella che in arte viene chiamata plasticità, o per usare un gergo più in voga oggigiorno, tridimensionalità.  Fu questa la sola novità della sua arte, così importante da fargli meritare l'elogio pocanzi citato? O la "latinità" della pittura di Giotto scaturisce anche da altri elementi? Per rispondere a queste domande ci aiuteremo con l'osservazione di alcuni dipinti del pittore toscano che proveremo a confrontare con quelli di un altro grande artista che lo ha preceduto, ricreando un dualismo debitore dei versi di Dante Alighieri: Cimabue/Giotto. Prima di tutto, però, sarà buona cosa comprendere appieno il senso delle parole di Cennino Cennini. Perché introduce i due aggettivi greco e latino? Che valenza avevano per lui e per coloro che sapevano leggere le opere d'arte nel medioevo? Quando egli parla di arte greca è ovvio che non si stia riferendo a quella della Grecia antica, a rimandi a Fidia, Lisippo né tantomeno all'arte ellenistica. La Grecia tirata in ballo è quella del suo tempo, dell'Impero Romano d'Oriente, e l'arte greca cui egli allude è quella che oggi chiamiamo bizantina. Meglio essere subito chiari: la pittura bizantina che ha in mente non è quella prodotta nella capitale dell'impero, ma la sua declinazione, per così dire, italiana. 
Per cosa si caratterizzava questa pittura? La tanto decantata bidimensionalità (non è che le figure non abbiano un accenno di terza dimensiome, ma sembrano come ritagliate da un foglio ed incollate su uno sfondo; sembra che l'albero, la casa o la montagna poste dietro di loro siano così prossime agli elementi in primo piano che tra loro non possa circolare nemmeno l'aria) non è che un elemento secondario, quasi una conseguenza, di un valore sentito come fondante della qualità di un dipinto: l'eleganza. Eleganza data attraverso la preziosità dei materiali, è vero, ma prima di tutto attraverso la sinuosità e la delicatezza del disegno, ed il disegno è sostanzialmente costituito dalla linea, elemento bidimensionale per antonomasia. Su questa considerazione squisitamente artistica si innestava tutto un sistema teologico-filosofico di lettura dell'opera (relazionarsi all'immagine sacra significava sostanzialmente relazionarsi alla figura sacra ritratta o, per essere più specifici, significava relazionarsi a ciò che di sacro, non di corporeo, essa aveva) che ne accentuava l'apprezzamento per i valori della linea e per tutto quanto riuscisse a far percepire la manifestazione, la presenza del sacro, osservandola. E' in quest'ottica che deve essere letto un altro elemento che caratterizza fortemente questa pittura: il fondo oro. Al di là delle considerazioni sulla preziosità del materiale, pure importanti, esso si faceva veicolo di irradiazione della luce, la più forte metafora sensibile della presenza del divino, di una luce diversa da quella dei raggi del sole o di una fonte di illuminazione artificiale, e questa sua alterità rispetto all'esperienza quotidiana ben si prestava a dare un'idea, seppur vaga, all'osservatore di cosa potesse essere la luce divina. L'oro poi arrivava ad invadere molta parte dello sfondo, lasciando che l'occhio perda qualsiasi coordinata spaziale che possa ancorarlo alla realtà. Ciò che si sta vedendo, quindi, non si configura come spazio di questo di mondo, bensì, come quello di un altro, che per la sua luminosità non può essere che quello del Paradiso.
Bidimensionalità e perdita di agganci con la realtà. Se ci pensiamo bene è la negazione dell'arte classica. Anche questo non è un caso. Figure che perdono volume, chiamiamole poco statuarie, forse questo aiuterà nella comprensione, e che non sono inserite in uno sfondo reale aiutano meglio l'osservatore a capire che l'arte che si ha di fronte non è pagana, che non si sta ammirando un idolo dei tempi antichi. Non è solo il contenuto a definire, per così dire, la religiosità di un'opera. A ben vedere è quello che è avvenuto, a livello testuale, prediligendo il libro, il codice, al rotolo, al papiro. Ma questi elementi che vengono tenuti fuori dall'arte cristiana "greca" sono quelli che,  per Cennino, qualificano l'arte "latina" di Giotto. Passiamo allora a comprendere cosa volesse dire questo termine per l'autore, come abbiamo fatto per l'altro. Se greco aveva, come abbiamo visto, una valenza geografica, latino non si riferisce tanto ad occidentale (lo stile che fiorisce nell'epoca in cui Giotto è attivo è il gotico, ma anche questo fa dell'eleganza della linea un valore fondante della qualità dell'opera, per certi versi ancora di più che per l'arte bizantina), quanto ad un periodo, quello antico, nello specifico a quello dell'antica Roma. Torniamo allo stile gotico pocanzi menzionato. Uno dei referenti spesso tirati in ballo per spiegare l'innovazione della pittura giottesca è proprio la scultura gotica. Questo è   vero a patto però di capire che non è il gotico tout-court ma solo un suo aspetto, la sua volontà di voler restituire, come aveva detto Federico II di Svevia, ea quae sunt sicut sunt, vale a dire di ritrarre le cose come appaiono nella realtà, nel nostro mondo, all'occhio. 
Spunto che viene dato al gotico proprio dallo studio dell'arte antica, cosa che avviene soprattutto nel nostro Paese. Riflettiamo su quanto detto: rivoler dare "naturalezza" a quanto dipinto e scolpito, essere artista "latino" diviene allora, allo stesso tempo, ripresa dell'antico ma anche scelta di voler realizzare un'arte nuova, che guarda al proprio tempo. Una precisazione a questo punto è d'obbligo. Questi cambiamenti in campo artistico furono possibili poichè diversa era la sensibilità religiosa del XIII e del XIV secolo. Pensiamo solo a quale dovette essere l'impatto sull'uomo medievale della visione francescana dell'aldiquà, di un mondo terreno che non veniva più percepito come luogo di tentazione e di lotta per ottenere il premio nella vera vita, quella ultraterrena, ma dono per cui ringraziare il Creatore, un mondo in cui persino una belva feroce ed ostile come il lupo poteva essera chiamato fratello.  Elementi che allora caratterizzano un'arte siffatta sono quelli che si rifanno alla nostra realtà, non alludono a quella ultraterrena. La plasticità dei corpi, di tutti i corpi: e tutto nei dipinti di Giotto, rocce ed alberi compresi sembra avere, oltre che un volume, un spazio da occupare, un peso, quasi che più che un dipinto stessimo ammirando un bassorilievo colorato. Sarebbe bello a questo punto dilungarsi sulle influenze della coeva scultura, in particolare dei Pisano, ma ci porterebbe troppo lontano, (basti qui dire che l'influsso dell'arte antica è forte in questi artisti). Ed è evidente il naturalismo se non un vero e proprio realismo delle scene: se non in tutte le sue opere, in diverse il fondo oro scompare; le case che osserviamo sono case che all'epoca si potevano vedere nei centri abitati; l'abbigliamento è quello realmente indossato allora. Guardare un alcuni dipinti di Giotto, verrebbe da dire, è un po' come guardare un'istantanea dei primi del Trecento, cosa impossibile se non fosse stata in atto una rivalutazione della vita terrena. Ed eccoci quindi a fare il ripromesso confronto "sul campo". Per iniziare due crocifissi: quello dipinto da Cimabue per la chiesa di San Domenico ad Arezzo e quello di Giotto per la Chiesa di Santa Maria Novella a Firenze. Non bisogna essere storici dell'arte per osservare, soprattutto nella resa delle anatomie, una differenza abissale. Il Cristo di Cimabue è un Cristo elegante e regale, misurato nel dolore, dall'andamento del corpo sinuoso, ma che non sembra fatto di carne bensì di metallo, un corpo in sottile lamina di metallo sbalzato. Ventre, petto, muscoli delle braccia ed altre parti paiono quasi ottenuti da un semplice rialzo dello stesso piano del resto del corpo, col sospetto che, proprio per rialzarlo, al di sotto non vi sia nulla. Questo effetto crea profondità, è vero, ma i piani di scansione non sono che due: parti i rilievo e le altre retrostanti. Quello che vediamo si inserisce perfettamente nel filone bizantino, o per dirla come Cennino, greco. 
Quanto appare invece diverso il corpo sofferente del Cristo giottesco! Un corpo in cui i valori della plasticità, complice l'aver collocato la figura di trequarti,  sono forti, che sembra sottoposto alle leggi della gravità per come ci appaia pesante nell'abbandono in lui del soffio vitale. Se non fosse inchiodato, ci vien da pensare, sarebbe già caduto a terra, forse rotolato lungo il crinale del Golgota. Già, perché il pittore non ci risparmia neppure la collocazione geografica, con quell'accenno di cima rocciosa triangolare su cui è stata fissata la croce. Nel suo corpo privo di vita che si protrae verso di noi nulla rimanda nell'occhio all'eleganza del disegno. No, qui non vi è nulla di elegante e misurato ma la forza come di un corpo scolpito, e monumentalità, complice la visione dal sottinsù. Decisamente, alla luce di quanto detto in precedenza, sì può definirlo Cristo latino. Concludiamo con un secondo confronto, passando dal Figlio alla Madre. Osserviamo la Madonna in trono di Cimabue, oggi al Louvre. Le anatomie dei personaggi che compongono la scena (mi stava per scappare un affollano, ma la disposizione è troppo ritmata e cerimoniosa per poter usare questo verbo!) hanno un maggior accenno di plasticità rispetto al Cristo di Arezzo solo nell'ovale delle teste. Ancora una volta a prevalere è il valore lineare, a scapito della profondità. Non c'è negli angeli, che non scorrono dal primo piano al fondo ma dal basso verso l'alto, non c'è nella Vergine e nel trono in tralice, dove ancora una volta percepiamo un primo piano costituito dal Bambino, dalla gamba sinistra della Madonna e dalle parte inferiore del trono che sembra fuggire prospetticamente (ma forse è una parola grossa) indietro, rapidamente, ma la cui corsa verso il fondo si ferma altrettanto rapidamente per la subitanea presenza dello schienale del trono e della parte superiore della Vergine, che sono percepiti tra l'altro come appartenere allo stesso piano. Ancora, soprattutto negli angeli, è presente quella bidimensiolalità di cui si accennava all'inizio e che fa apparire i loro corpi come ritagliati ed incollati uno sopra l'altro, senza che nemmeno l'aria possa passare tra loro. Quale confronto potremo ora fare, se non con la celeberrima Madonna d'Ognissanti giottesca conservata negli Uffizi? A separare i due capolavori sono solo trent'anni, ma i linguaggi sono quantomai diversi. Anche per questo suo dipinto si sprecherebbero gli aggettivi che rimandano alla plasticità scultorea dell'insieme, basti ammirare il baldacchino su cui la Vergine è seduta. La Madonna stessa sembra citare, nella sua corporeità, nel suo peso, una scultura antica, una dea mater romana. Non bastasse questo, le figure di contorno questa volta affollano per davvero la scena, si fanno corona attorno al centro della scena in modo da dare realmente il senso della  profondità.  Ad esser pignoli un elemento greco resta, il fondo oro, ma è reso necessario dalla sacralità della scena, e in questo l'artista non poteva essere troppo avanti con i tempi: era pur sempre un artigiano, seppur di lusso, che doveva vivere del proprio lavoro!

Un'ultima cosa. Bisogna tenersi lontani dal rischio di tramutare un confronto del genere in un confronto di valore dell'artista tout-cout. Giotto non è un artista più bravo e talentuoso di Cimabue, entrambi sono figli dell'epoca in cui sono vissuti e ne hanno rispecchiato le sensibilità artistica, più volta a cogliere, consentitemi la parafrasi, lo spirituale coll'arte in Cimabue, più aperta a rivalutare, e quindi ad indagare, i doni del divino già in questa vita per Giotto.

Articolo di Mario La Piano. Tutti i diritti risevati

DAL MEDIOEVO, LA RICETTA PER I FICHI RIPIENI


Nel Frammento di un libro di cucina del Sec. XIV, troviamo la ricetta di un dolce, ideale per un banchetto di fine estate. Il testo consiglia, innanzitutto, di selezionare 40 fichi di grosse dimensioni. Si prepara il ripieno pestando metà dei fichi selezionati con pere, noci e mele, per poi mescolare il tutto con una manciata di zucchero. Quando l'impasto sarà ben amalgamato, si pratica un foro in ciascuno dei fichi interi, da colmare con il preparato. Si immergono i fichi in un po’ di pastella e si lasciano friggere in olio ben caldo. Una volta sgocciolati, devono essere cosparsi con un leggero strato di zucchero, dopodiché potranno essere serviti.

Di seguito il testo originale:

"Se vuoli fichi ripieni, prendi 40 fichi grossi, i migliori che tu puoi avere e i più grassi. Prendi pere monde e noci e mele monde e alquanti fichi medesimi, e pesta queste cose insieme, e buone spezie e alquanto zucchero. E prendi i fichi interi e levane il fiore, e fa' un buono foro in cadauno col dito; e riempili di questo battuto, e infarinali di pasta molle, e mettili a friggere in olio, e gettavi suso zucchero; e dalli dassezzo all'altre vivande."

Fonte: Medioevo.it

LA CUCINA SARDA NEL MEDIOEVO: DUE RICETTE!


Ci sono ricette sarde contemporanee che assomigliano terribilmente a pietanze medievali, e non a caso, vi sono molti legami. In particolare penso a due fantastici dolci sardi contemporanei, tipici e tradizionali, che cui radici mi pare sino ben piantate nel Medioevo: mi riferisco a s'aranzada nugoresa e su papai biancu. Che cos'è s'aranzada in uso nel nuorese? Un dolce delicato e raffinato, composto da scorza di arancia candita, scagliette o mandorle intere, secondo il paese e la ricetta, mompariglia colorata, in sardo traggea (dal francese dragée). La ranciata era una ricetta che faceva parte delle epices de chambre, dei bonbon che si mangiavano fuori pasto o a fine pasto. Ecco la ricetta dell'anonimo veneziano del Trecento:

A fare ranciata bona e delicata

Toy la scorza del ranzo e fane quelli pezi che tu vole e curali ben dentro, miti a mole per 15 zorni poy le lessa in aqua tanto che sia tenere, lasale sugare per tri zorni, poy lo miti in lo mele che tu la voi bolire per trizorni, poi la fa bolire un pocho e chambia, poy quello mele e miti l’ altro chon le spezie; ma prima le specie siano messe dentro sia spumato lo mele, bolla tanto che ‘l mele sia ben cocto, poy la lassa alquanti zorni a l’ aiere senza sole.

La traduzione:

Per fare aranciata buona e delicata.

Togli la scorza dell'arancia, falla a pezzi a piacere e mettila a mollo per 15 giorni, lessala sino a che sia tenera, lasciala asciugare per tre giorni, poi mettila nel miele, falla sobbollire per tre giorni, ogni tanto cambia il liquido di cottura, e infine con altro miele aggiungi le spezie; ma prima assicurati che anche il miele sia ben cotto, e infine lasciala alcuni giorni ad asciugare all'aria ma non al sole diretto.

Ovviamente si possono ridurre i tempi, 15 giorni sono un'eternità al giorno d'oggi.

Il bianco mangiare, di origine medievale e catalana, cucina influenzata dal mondo arabo, è rimasto sull’Isola come dolce, su papai biancu. In origine blanc manger significava in realtà una serie di pietanze in cui comparivano le mandorle, il pollo o la gallina, il riso come addensante grazie all’amido, lo zucchero, il latte. Prodotti raffinati chiari che conferivano a questi cibi anche un supposto potere purificante,  mondante ed erano uno status symbol.  La seguente ricetta è presa dal ricettario di Maestro Martino da Como, il Libro de Arte Coquinaria, del XV secolo. Le quantità sono pensate per 12 persone.

Per far XII menestre de bianco mangiare a la catelana.

Piglia doi bocchali di lacte de capra, et octo oncie di farina de  iso ben fina, et ponila a boglire nel dicto lacte. Dapoi piglia il petto di un cappone morto quello medesimo dì, et che sia mezo cotto,  et deffila tutto questo pecto sottilmente come capegli, et dapoi mittilo nel mortale et non gli dare se no doi tracti del pistone. Dapoi  quando lo lacte ha bollito meza hora, gectavi dentro lo dicto pecto  così sfilato con una libra de zuccharo, et lassalo bollire per spatio  de quattro hore vel circha; et questa cosa vole essere menata continuamente col cocchiaro dal principio infine a la fine Et per  quando ella è cotta, tira el cocchiaro et parerà che sia vischio. Et dapoi ponegli dell'acqua rosata como è ditto di sopra; et fa' le  menestre, sopra le quali metterai un pocho di zuccharo, et dapoi  mandale ad tavola.

Traduzione: Piglia due boccali di latte di capra, otto once di farina di riso fine, e ponila a bollire nel latte. Poi prendi un petto di cappone fresco già mezzo cotto e sminuzza il petto, mettendolo anche nel mortaio e dando un paio di colpi di pestello. Poi quando il latte ha bollito mezz'ora gettaci dentro il petto di cappone con una libbra di zucchero e lascialo bollire per 4 ore, girando continuamente il composto. Una volta cotto il composto ha una consistenza viscosa. Poi metti dell'acqua di rose, poi impiatta le minestre, sopra le quali si metterà un po' di zucchero e si serviranno a tavola.

Articolo di Alessandra Guigoni per il sito http://www.sandalyon.it/ . Tutti i diritti riservati

lunedì 22 settembre 2014

"LA BATTAGLIA DI ANGICOURT" - RACCONTO DI BENEDETTA MELAPPIONI

Pochi giorni fa ho inserito un bell'articolo sulla Battaglia di Agincourt scritto da un nostro bravissimo collaboratore...a quanto pare questa famosa battaglia è stata fonte di ispirazione per altri appassionati. Per questo è stato inserito un racconto di una nostra nuova e giovanissima collaboratrice che ritengo anche molto promettente da un punto di vista narrativo, Benedetta Melappioni. per rendere il testo più moderno è stato creato questo pdf sfogliabile on line...ovviamente...attendiamo i vostri commenti!

IL "RELAIS CASTRUM BOCCEA" SI CONVENZIONA CON SGUARDO SUL MEDIOEVO!


Il Relais Castrum Boccea ci ha proposto una convenzione molto interessante presso la loro affascinante struttura. Il Relais è una dimora storica di epoca medievale trasformata in Hotel ed inaugurata nell'anno 2010. La struttura dispone di ventinove tra camere e Suites, tutte arredate con mobili in stile, ampie mansarde con travi in legno, camere con letto a baldacchino Superior, Deluxe & King-Suite con vasca idromassaggio e spazio esterno attrezzato. Sono a disposizione sale per meeting ed eventi, due sale ristoranti, una grotta dei vini con cucina regionale

OFFERTA DEL RELAIS CASTRUM BOCCEA

Camera Doppia Uso Singola          €65,00
Camera Doppia                               €85,00
Camera Tripla                                 €95,00

Prezzi compresi di prima colazione, servizi ed iva
Tassa di soggiorno Esclusa (€6,00/pax/notte)


I CLIENTI CONVENZIONATI HANNO DIRITTO ANCHE AD ALTRI SERVIZI:

  • Parcheggio Gratuito
  • Sconto del 10% per i pasti consumati nel ristorante
  • Possibilità di richiedere la mezza pensione con 20 euro in più nel soggiorno
  • Shuttle Bus su prenotazione per il polo fieristico e per il centro a pagamento
  • Internet free of charge (internet - lan nelle camere + wi-fi nelle zone comuni)

All'atto della prenotazione scrivere che siete lettori di Sguardo Sul Medioevo o che siete Iscritti all'Associazione Culturale Sguardo Sul Medioevo

Relais Castrum Boccea
Via SS. Mario e Marta, 27 - 00166 Roma

sul Navigatore inserire Via di Boccea n°1500, dal Raccordo Anulare, dopo il n°1452 c'è l'entrata del Castrum.

giovedì 18 settembre 2014

SCOPERTA FOSSA COMUNE DI VICHINGHI DECAPITATI IN INGHILTERRA, DORSET


In Inghilterra è stata scoperta una fossa con ben cinquantuno scheletri decapitati intorno all'anno mille. il rinvenimento è il frutto di alcuni lavori di scavi durante la costruzione di una strada nella contea del Dorset nei pressi di Ridgey Hill. L'università di Oxford è intervenuta immediatamente e, grazie agli esami del radiocarbonio, è riuscita a chiarire la situazione. Le vittime sono tra i 18 e 25 anni provenienti dall'Europa del Nord e morti a cavallo del cambio di millennio: è stata definita, senza tema di smentita, la più grande sepoltura di massa vichinga. Le teste sono state rinvenute in una fossa vicina ed è stato praticamente impossibile ridare una testa per ogni corpo. Ciò che emerso immediatamente è che le vittime non erano soldati professionisti, avevano una corporatura non così robusta come ci si spetterebbe da un soldato, il tutto rafforzato dal fatto che avevano tutti evidenti problemi fisici o disabilità varie. L'archeologa Louise Lee afferma che probabilmente furono uccisi da una incursione inglese oppure uccisi dagli stessi vichinghi in quanto mercenari dell'Inghilterra; ma una tale strage fa pensare anche alla lezione morale da fissarsi nelle menti del popolo per generazioni e generazioni. 

DA COSA DERIVA IL TERMINE..."SEI UN CORNUTO"?



Quante volte abbiamo detto al pirata della strada di turno, o ad un arbitro di calcio..."cornuto"? Abbiamo mai pensato a dove deriva questo curioso modo di etichettare il prossimo? Ebbene, andiamo indietro nel tempo per arrivare al Medioevo. Andronico Comneno (1118-1185), imperatore bizantino aveva una grande mente tattica e politica unita ad una raro coraggio ma aveva anche una certa predilezione per le donne ed era noto, per questo, come "collezionista" di amanti. Dopo ogni conquista, l'imperatore usava mostrare teste di cervo a testimonianza della sua impresa. Da lì nacque il termine che oggi, quotidianamente e in mille occasioni, diciamo!

C'è anche una versione più antica e risale al mito della regina Parsifae moglie di Minosse con cui non aveva molti rapporti e per questo venne punita da Afrodite che la fece diventare una vera e propria ninfomane. Il re la fece allontanare e per soddisfarsi si innamorò di un toro chiedendo a Dedalo di costruire una mucca per attirare l'attenzione dell'animale. Da questa unione, come sappiamo, nacque il Minotauro e, da quel momento, il re venne salutato con il gesto delle corna per ricordargli che era stato tradito...da un toro!

mercoledì 17 settembre 2014

COSI' MORI' RE RICCARDO III


Uno studio dell'Università di Leicester pubblicato sulla principale rivista del mondo, il Lancet, ha rivelato la verità sulla morte del re Riccardo III. Ultimo re di Inghilterra, venne ucciso durante una battaglia verso la fine della Guerra delle due Rose nell'anno 1485 contro le truppe di Enrico Tudor nella celeberrima Battaglia di Bosworth. I resti che furono scoperti nell'anno 2012 a Leicester e riportavano ferite alla testa compatibili con armi medievali: due di queste ferite furono provocate da un fendente di spada e di una alabarda unitamente ad un colpo importante al bacino. La storia ci racconta che il re abbandonò il cavallo dopo essersi impantanato e fu subito circondato ed ucciso riuscendo a proteggere con la propria armatura solamente gli arti. Altri esami approfonditi hanno dato anche un fenotipo interessante del sovrano: era piuttosto gracile e con una gravissima scoliosi. Si rimanda al video di seguito sulla ricostruzione pubblicata da Lancet. 

27 SETTEMBRE 2014 - PRESENTAZIONE DEL LIBRO DI VITO TELESCA "FRANCESCO E FEDERICO, DUE GIGANTI ALLO SPECCHIO" PRESSO IL CASTELLO NORMANNO SVEVO DI CASTEL LAGOPESOLE

Nello splendido e suggestivo scenario del Castello normanno-svevo di Castel Lagopesole (Avigliano-PZ), l'Assessorato alla cultura del Comune di Avigliano, in collaborazione con StoriaMeridiana, ManifestoCultura e il Museo Narrante "Il Mondo di Federico" organizzano per sabato 27 settembre 2014, con inizio alle ore 18.00, la presentazione del libro "Francesco e Federico, due giganti allo specchio" (distribuito da "La Feltrinelli"), di Vito Telesca. L'autore, studioso di storia medievale e direttore di StoriaMeridiana, che vive a Locorotondo ma di origini aviglianesi, è stato invitato per poter illustrare le vicende storiche di Federico II e San Francesco d'Assisi in uno dei luoghi del sud più rappresentativi del duecento italiano. Farà gli onori di casa l'Assessore alla Cultura del Comune di Avigliano Anna D'Andrea. Interverranno nel dibattito il sindaco di Avigliano Vito Summa, il Consigliere Regionale Vito Santarsiero, la storica e critica dell'arte Fiorella Fiore. Moderatore della serata sarà Leonardo Pisani, noto e apprezzato giornalista, esperto di storia locale. Ovviamente grande risalto verrà dato al movimento francescano nel XIII° secolo nella zona dell'alto Basento e Vulture-melfese nonché alle vicende storiche e culturali che videro protagonisti sia Federico II che Francesco d'Assisi. Vicende raccontate ampiamente nel libro.



Redazione Centrale StoriaMeridiana

Circuito ManifestoCultura

MIRACOLO DI AGINCOURT - CRONACA DEL TRIONFO CHE IMPRESSE UNA SVOLTA ALLA GUERRA DEI CENT'ANNI

“Per l'amor di Gesù Cristo, amico, rendi quel che devi”. Qualcuno ne resterà sorpreso, ma si tratta di una conversazione tra re, e per giunta epistolare. Per essere più precisi, questo fu il modo piuttosto brusco con cui il re d'Inghilterra Enrico V, nel 1413, reclamò da Carlo VI di Francia la consegna non solo delle proprietà cedute alla corona inglese con il trattato di Brétigny (1360), ma anche di quelle che, a suo dire, Filippo II Augusto aveva ingiustamente sottratto a Giovanni Senza Terra (quindi si parla di circa due secoli addietro). Si trattava di richieste gravose, anzi gravosissime. Quali che fossero i pretesti, quella guerra estenuante, interminabile, nota oggi come la Guerra dei Cent'Anni, stava per entrare in una delle sue fasi decisive. Considerando la tempistica e le modalità con cui operò, Enrico V dimostrò un intuito politico senza eguali nell'Europa del suo tempo. Non per niente, già i cronisti dell'epoca riportavano che, nonostante avesse solo 25 anni quando ascese al trono, vantava le doti tipiche del sovrano consumato. “Aetate juvenis, maturitate senex” dicevano di lui. Le sue pretese temerarie infatti non costituivano solo il frutto di quella sorta di prassi dei re inglesi nel corso della Guerra dei Cent'Anni di rivendicare il trono francese, ma nascondevano un disegno ben ponderato. Il regno di Francia, infatti, stava vivendo una fase molto travagliata della sua storia tanto che lo stesso re era stato costretto ad assistere indifeso come un agnello alla lotta tra Armagnacchi e Borgognoni, che da sciacalli quali erano si contendevano ogni brandello di una monarchia sull'orlo del collasso. Inoltre la jacquerie continuava ad essere lo spettro che si aggirava in tutta una Francia profondamente turbata da disagi economici e sociali. Poteva esserci forse momento migliore di quello per reclamare diritti e, eventualmente, venire alle armi? Se la tempistica era stata ottima, il modus operandi non fu da meno. Non bisogna dimenticare infatti che nel 1396 era stata siglata una tregua di ventotto anni tra Inghilterra e Francia, e quindi riprendere il conflitto significava violare in pieno gli accordi presi. Fu indubbiamente per tale ragione che Enrico V decise di procedere, almeno in prima battuta, per vie diplomatiche, sfoderando molte delle doti che il buon Machiavelli avrebbe poi decantato nelle sue opere. Percorse dapprima quella che lui definiva “la via del diritto”, ma che fosse una formalità lo si capiva dalla portata delle richieste fatte a Carlo VI, che sopra accennavamo: nel dettaglio, pretendeva la cessione di Aquitania, Angiò, Maine, Turenna, Normandia, l'omaggio della Bretagna e la sovranità della Fiandra, dell'Artois e della Provenza. In aggiunta, esigeva il saldo del riscatto che era stato richiesto per liberare il re francese Giovanni il Buono, catturato nel 1356 a Poitiers, e chiedeva di avere la mano della figlia di Carlo VI, Caterina di Valois. Certo, sapeva condire il tutto con le dovute formalità, le ampollose formule, perfino con le adulazioni, ma non bisognava farsi ingannare: chiedeva mezza Francia e una posizione più favorevole per avanzare pretese alla corona del regno nemico. I Francesi lo intuirono e declinarono ogni offerta. Fu solo allora che Enrico V passò alle “vie di fatto”: nel maggio 1415 si alleò col duca di Borgogna, Giovanni Senza Paura, onde far leva sulle rivalità delle fazioni francesi, e iniziò i preparativi per la spedizione imminente. Di fronte al rapido precipitare degli eventi, il re inglese ebbe a scrivere: “Ci sia testimone il Supremo Giudice […] del fatto che, nella nostra sincera propensione alla concordia, abbiamo tentato ogni via possibile per ottenere la pace”. Verrebbe da dire che fosse un vero ipocrita, ma lasceremo ad altre trattazioni simili giudizi. Quel che è certo è che trovò il modo di riprendere la guerra, e su questa dobbiamo soffermarci. Uomini, armi, navi, cavalli: adesso non occorreva altro.

LA VOLUBILE DEA FORTUNA


Stupore. Questa doveva essere la sensazione di chiunque avesse la fortuna di vedere o anche solo di scorgere in lontananza il porto di Southampton nella mattina dell'11 agosto 1415. Nel mare antistante la piccola cittadina stavano ormeggiate ben 1500 imbarcazioni di varia dimensione e tipologia, una massa informe di legname, uomini e animali pronta a far rotta verso la Francia. 12000 guerrieri stavano su quella flotta in attesa del segnale per la partenza (ormai era solo questione di ore), e ad essi si aggiunga un gran numero di medici, ingegneri, chierici, giullari, personale di servizio e cavalli. In effetti Enrico V aveva dovuto faticare non poco per allestire la campagna militare. Ai nostri occhi, abituati ad una certa concezione “tradizionale” del potere monarchico (“l'Etat ce moi”), sembrerà strano, ma non era affatto semplice per un re medievale radunare un esercito consistente. Oltre alla ricerca di fondi sufficienti, bisognava assicurarsi che tutti i cavalieri e i notabili del regno adempissero con buona volontà ai doveri feudali che li legavano al re e mettessero a sua disposizione le proprie guardie e soldati. Si trattava di un punto particolarmente delicato, questo, considerato che ogni volta toccava convincere una quantità più o meno considerevole di signori feudali poco propensi a cedere prezioso materiale umano per conflitti lontani e quasi sempre estranei alle loro realtà. In un momento tanto impegnativo, Enrico V seppe destreggiarsi con rara determinazione e caparbietà. L'Inghilterra intera si mobilitò per il suo giovane re e non se ne sarebbe pentita. Partiti intorno alle tre del pomeriggio, Enrico V e i suoi sbarcarono non lontano dalla foce della Senna, nei pressi di Harfleur, uno dei capisaldi francesi in Normandia. Ci vollero ben sei settimane di assedio perché la città capitolasse. Gli Inglesi, infatti, avevano trovato ad attenderli un nemico che non si aspettavano: la dissenteria, che si portò via almeno 2000 uomini e ne lasciò moribondi altrettanti. Dio sembrava aver già abbandonato l'armata inglese e, cosa ancor peggiore, bisognava già fare i conti con l'idea di tornarsene in patria. Di certo una marcia su Parigi in alta stagione e con un esercito enormemente assottigliato era fuori discussione. Dovremmo ormai aver capito, tuttavia, che Enrico V aveva una volontà ferrea e la parola “ritirata” tendeva a non far parte del suo vocabolario. “Il coraggio vale più dei numeri” scriveva Vegezio, profetico su questa vicenda. Il re inglese dunque decise di marciare verso Calais, che Edoardo III aveva conquistato nel 1347 (dopo Crécy), e attendere là rinforzi. Come annota Frediani, si trattava di 250 km, un lungo percorso dove l'incontro con i Francesi era praticamente scontato. Per farla breve, da sogno di gloria la spedizione inglese stava per tramutarsi in un incubo. Dal punto di vista francese, considerata la situazione, sarebbe stato sufficiente temporeggiare ancora, magari bloccando o ritardando la traversata del fiume Somme, e affondare al momento giusto gli artigli nella carne di una preda inerme. Persuaso dalla fortuna iniziale, Carlo VI autorizzò l'adunata con un bando rivolto a tutti i nobili di Parigi e di Amiens, che risposero in gran quantità, certi di procurarsi in tempi brevi gloria, fama e bottino. A Rouen, agli ordini del conestabile di Francia, Carlo D'Albret, si radunarono 25000 uomini, tra cui 7000 cavalieri e 15000 uomini d'armi (ovvero soldati interamente ricoperti di armatura addestrati a combattere sia a piedi che a cavallo). Equipaggiamenti pesanti, scintillanti corazze e cavalli da guerra riccamente ornati conferivano un aspetto di invincibilità all'armata del re di Francia. La sconfitta, nella mente degli uomini di Carlo VI, non faceva parte dei possibili esiti dell'imminente scontro. Ma la superbia, come insegna il Libro del Siracide, è “odiosa a Dio e agli uomini”.

APPUNTAMENTO AD AGINCOURT


Volenti o nolenti, sani o infermi, gli Inglesi dovevano andare avanti. Oltre al morale basso e alla malattia inarrestabile, gli animi dei soldati erano attanagliati dalla paura, il male più contagioso. Ad ogni modo, Enrico V fece marciare i suoi non lontano dalla costa, passando per Fécamp, Arques, Eu e St. Valéry. Di Francesi neanche l'ombra fino a quel momento. Quando bisognava attraversare il fiume Somme, tuttavia, non si vedevano altro che ponti distrutti, robusti presidi e guadi bloccati con pali e catene: il nemico si era messo in movimento. Il cammino si allungava e, dunque, gli Inglesi dovevano seguire verso est il corso del fiume in attesa di trovare un punto lasciato libero per la traversata, sempre più stremati. “L'esercito del re d'Inghilterra era abbattuto dalla malattia; lo spirito dei soldati fiaccato dalla fatica e scoraggiato dalla ritirata” scrive Goldsmith. Dopo cinque giorni di vani tentativi, infine, gli esploratori di Enrico V rintracciarono un guado dimenticato dai Francesi e finalmente i soldati inglesi oltrepassarono il fiume, nei pressi di Nesle. Era il 19 ottobre. Proprio quando si intravedeva un tenue bagliore di speranza, venne la notizia che tutti temevano: a pochi chilometri dagli Inglesi era stato avvistato un imponente esercito francese, ben rifornito ed equipaggiato. Non possiamo esserne certi, ma a questo punto è logico ipotizzare che finanche l'indole irriducibile di Enrico V, che come un marinaio intrepido aveva sfidato la tempesta, fosse provata da una situazione strategicamente drammatica. Il re inglese sapeva che in ogni momento di quei tragici giorni i suoi potevano essere spazzati via da un colpo di mano di Carlo D'Albret. Era semplice, dopotutto, sterminare un'armata già falcidiata dalla fatica, dalla malattia e dalla carenza di viveri. Ciononostante, i Francesi non attaccarono subito: volevano essere certi di avere la vittoria e il tempo giocava a loro favore. Nella notte tra 24 e 25 ottobre Enrico V fece riposare gli uomini nel villaggio di Maisoncelles, avendo visto che oramai i suoi erano a “tre tiri d'arco dal nemico”. Carlo D'Albret, persuaso dagli animi bollenti delle truppe, aveva infatti sbarrato la strada per Calais agli Inglesi. A tal fine aveva posto il suo accampamento all'estremità nord di una stretta pianura delimitata dalle zone boschive della cittadina di Agincourt, a ovest, e da quelle di Tramecourt, a est. Lo scontro doveva quindi avvenire in questa sorta di corridoio inzuppato dalla pioggia caduta nei giorni precedenti. Quale fosse l'atmosfera che si respirava nelle ore immediatamente antecedenti la battaglia lo si capisce da come i due schieramenti avversari trascorsero quella notte di attesa: gli Inglesi, naturalmente, si confessavano in massa; i Francesi, viceversa, banchettavano, avvantaggiandosi almeno un poco in vista di quanto ritenevano avrebbero fatto dopo lo scontro. Un testimone inglese riporta che “quella notte si giocavano a dadi il nostro re e i nobili”. Ma la Storia aveva in serbo per loro un'altra mano.

IL MIRACOLO


Con postura fiera, Enrico V, in sella al suo cavallo grigio, arringava i suoi come se non ricordasse né gli eventi appena trascorsi né la condizione presente. Erano le otto del mattino del 25 ottobre, “il dì di San Crispino”, e solo un chilometro separava i due eserciti, pronti ad affrontare il loro destino in quell'anonima piana fangosa. “Perché oggi chi verserà il suo sangue per me, sarà per sempre mio fratello; perché per quanto possa essere umile di nascita, questo giorno lo nobiliterà” fa dire Shakespeare, nell'atto IV dell'Enrico V, al re inglese. Lottare uniti per una giusta causa: Enrico V non chiedeva che questo. L'armata francese poteva contare su circa 25000 uomini, disposti secondo gli schemi militari tradizionali: avanguardia, corpo centrale, retroguardia. La prima era organizzata in due battaglioni, che, messi insieme, erano composti da uomini d'armi smontati: quello di destra era condotto dallo stesso Carlo D'Albret e dal maresciallo di Francia, Giovanni La Maingre, noto come Boucicault; quello di sinistra dai duchi d'Orléans e di Borbone. Per completare la linea, furono formate due ali di fanti, rinforzate da balestrieri genovesi ed arcieri. Su entrambi i fianchi, infine, vennero posizionate robuste unità di cavalleria, per proteggere lo schieramento ed eventualmente condurre la carica. La seconda linea era composta da uomini d'armi, scudieri e serventi armati e nella terza fu disposta una riserva di cavalleria, oltre ai non combattenti al seguito dell'esercito. L'armata inglese, al confronto, doveva sembrare quanto di più misero si potesse vedere su un campo di battaglia. Gli effettivi al momento dello scontro, infatti, non erano più di 6000, tutti appiedati. Enrico V, tuttavia, tentò di fare il possibile con il poco che aveva e, costretto dalla necessità, si discostò dagli schemi militari tradizionali: organizzò un fronte lineare, diviso in tre schiere di uomini d'armi, protette ai fianchi da due grandi corpi di arcieri. Questi ultimi, che di lì a poco avrebbero avuto un ruolo decisivo, costituivano l'unità più efficace dell'armata d'Inghilterra. Non erano particolarmente temibili a vedersi, anzi forse potevano apparire piuttosto buffi mentre si affaccendavano con i loro archi di legno di tasso lunghi 1,80 metri. Tuttavia, nel momento della guerra, potevano scoccare 8 frecce al minuto e colpire fino a 350 metri di distanza. C'era ben poco, dunque, di cui beffarsi. Così disposti, i due eserciti si fissarono a lungo. Nessuno osava compiere il primo passo. Carlo D'Albret, naturalmente, non aveva interesse ad attaccare battaglia, giacché era il re d'Inghilterra che voleva raggiungere Calais; Enrico V, sebbene sapesse di dover dare inizio allo scontro, si era preso tutto il tempo necessario per pronunciare rincuoranti discorsi ai suoi soldati, comprensibilmente sconvolti. Intorno alle undici, le linee inglesi ricevettero l'ordine di avanzata generale: la battaglia era cominciata. Dobbiamo immaginarci soldati spossati, sopravvissuti ad una marcia infernale. La dissenteria, peraltro, non era certo sparita: si pensi che lo stesso Enrico V aveva imposto ai suoi di tagliarsi i calzoni, in modo da non doverseli slacciare in caso di coliche nel corso del combattimento. L'avanzata si arrestò giusto quando i Francesi erano a distanza ottimale per essere bersagliati dai dardi. Dopo aver piazzato dei pali affilati alle estremità contro una prevedibile carica di cavalleria, gli arcieri del re d'Inghilterra scoccarono la prima salva: una breve, ma letale pioggia di morte si scatenò sul nemico, inerme. Quel primo assaggio del longbow fu quanto di più eloquente si potesse trovare per convincere i soldati del D'Albret a scuotersi dal loro immobilismo. Su entrambi i fianchi la cavalleria francese prese a galoppare verso i reparti dei tiratori, con furia terrificante. Ma l'impulsività, in guerra, è madre solo del disastro: la carica perse spinta fin da subito per via del terreno fangoso e, inoltre, non era stato possibile aggirare i reparti nemici, perché avevano su entrambe le ali i fianchi coperti dalle aree boschive che delimitavano la piana. Come era prevedibile, quei pochi che raggiunsero le linee di arcieri si scontrarono violentemente con i pali da loro piazzati, mentre per i più i cavalli divennero ingovernabili nel mezzo del tragitto e furono costretti a ripiegare. Un disastro, appunto. E il martellamento di dardi, implacabile, riprese. Carlo D'Albret, che iniziava comprensibilmente ad innervosirsi, mandò avanti l'intera avanguardia, ma la sorte di questo secondo attacco non fu diversa da quella del primo: il terreno inzuppato d'acqua bloccava i movimenti delle truppe francesi, che come se non bastasse erano ulteriormente rallentate dalle loro armature pesanti, divenute delle prigioni. La battaglia, ormai, si stava trasformando in un tiro al bersaglio. Quel che peggiorò la situazione fu poi la totale mancanza di disciplina dei soldati francesi, che, atterriti da un senso generale di impotenza, operarono una conversione verso il centro, per subire con meno intensità le salve scoccate dai reparti di tiratori inglesi sulle ali. Così facendo, quegli uomini disperati si strinsero in una minuscola porzione di terreno e finirono per ostacolarsi a vicenda. Enrico V, da giocatore fortunato, alzò la posta e ordinò di caricare il nemico, lanciandosi lui stesso nella mischia. Perfino alcuni arcieri, impugnando asce, mazze e falcetti, fecero strage di quella calca disorganizzata.
Poi subentrò la seconda linea francese, il corpo centrale. Lo spettacolo che si presentava agli occhi delle truppe era un campo pieno di sangue, urla, dardi e, ovunque, fanghiglia. Come potevano i soldati del conestabile di Francia non temere di subire lo stesso destino di coloro che li avevano preceduti? Ciononostante, si mossero, ma senza alcun risultato. Le cronache dell'epoca tengono a sottolineare la ripetitività di uno scontro segnato fin dal principio e riportano che gli Inglesi “distrussero il secondo battaglione come avevano fatto col primo”. Vuoi per le frecce, vuoi per il corpo a corpo, i Francesi morivano in quantità, incapaci di reagire a quel turbinio di eventi. Addirittura in certi punti del campo si vedevano pile di cadaveri alte quanto un uomo in posizione eretta. La prospettiva migliore era quella di essere presi come prigionieri dai lesti arcieri inglesi, che grazie alla leggerezza dell'equipaggiamento erano pressoché invincibili contro un nemico appesantito, bloccato e, spesso, già gravemente ferito. La terza linea francese, l'ultima, non aveva nessuna intenzione di andare incontro a una morte praticamente certa, dunque titubava. Il sussulto finale di un nemico devastato venne da un paio di nobili locali che, alla testa di un gruppo di contadini, fece strage di malati e feriti nell'accampamento inglese. Per prudenza, Enrico V ordinò di uccidere a sangue freddo tutti i prigionieri francesi, onde evitare che questi, incoraggiati dall'iniziativa, si ribellassero. Così, a parte tale massacro, l'attacco nelle retrovie non sortì alcun effetto. Quanto a quel che rimaneva dell'esercito francese, superate le iniziali esitazioni, finì per ritirarsi in tutta fretta, in preda allo sconforto. La battaglia era finita. In mezz'ora soltanto la Francia sembrava aver perso una guerra iniziata quasi ottant'anni prima. “Non siamo noi che abbiamo compiuto questa carneficina, ma Iddio onnipotente come punizione per i peccati francesi” disse il re d'Inghilterra quando vide che il campo era suo. Le vittime tra i ranghi francesi furono pesantissime. Si stima che siano caduti tra i 7000 e i 15000 uomini, tra cui lo stesso conestabile Carlo D'Albret, tre duchi e 90 signori: il fior fiore di Francia, insomma. Gli Inglesi al contrario lasciarono sul campo non più di 400 uomini. Un vero e proprio miracolo.

LA PACE DEL VINCITORE

I frutti del trionfo erano dolci e succosi per Enrico V, il quale, ovviamente, non esitò a coglierli. Entro un quadriennio dopo la battaglia, l'intera Normandia cadeva in mano inglese. Perfino l'imprendibile Rouen capitolò. Con la Francia in ginocchio, il re inglese impose condizioni umilianti al nemico: il trattato di Troyes, siglato nel maggio 1420, stabiliva che Carlo VI avrebbe continuato a regnare fino alla morte, ma suo erede e “figlio” diveniva proprio il re d'Inghilterra, cui veniva data in moglie la figlia del sovrano di Francia, Caterina di Valois. Nel frattempo Enrico V, col titolo di reggente, avrebbe esercitato il governo sullo Stato sconfitto in nome di Carlo VI e conservato a titolo personale il ducato di Normandia. “E' una vittoria del debole sul forte, del soldato semplice, appiedato, sul cavaliere, della risolutezza sulla vanagloria” scrive John Keegan su Agincourt; poi prosegue: “[...] un episodio capace di scuotere qualsiasi scolaretto annoiato dall'ora di Storia”. Con il grande storico nativo di Clapham non si può che concordare, ma bisogna tener conto che parlava da inglese, orgoglioso di uno dei trionfi più celebrati dalla storiografia britannica. Noi, tuttavia, al di fuori di qualunque logica nazionalistica, dobbiamo dare il giusto peso alla battaglia di Agincourt e tener presente che proprio quando tutto sembrava perduto, la Francia seppe avere la sua riscossa. Non molti anni dopo gli eventi di cui abbiamo trattato, quello stesso Dio, spacciato instancabilmente da Enrico V come alleato d'Inghilterra, avrebbe “cambiato” parte del conflitto. Di lì a poco, infatti, avrebbe regalato alla Francia il miracolo dei miracoli: Giovanna d'Arco.

BIBLIOGRAFIA

  • Philippe Contamine, “La Guerra dei Cent'Anni”, il Mulino, Bologna, 2009
  • Juliet Barker, “Agincourt”, Hachette Digital, 2010
  • Alessandro Barbero, “Donne, Madonne, Mercanti e Cavalieri. Sei Storie Medievali”, Editori Laterza, Bari, 2013
  • Andrea Frediani, “Le Grandi Battaglie del Medioevo”, Newton Compton Editori, Roma, 2009
  • Dr. Goldsmith, “An Abridgement of the History of England”, R. and W. Dean, Manchester, 1818
  • John Keegan, “Il volto della battaglia, Azincourt, Waterloo, La Somme”, il Saggiatore, Milano, 2010
  • Henri Pirenne, “Storia d'Europa dalle invasioni al XVI secolo”, Newton Compton Editori, Roma, 2010
Articolo di Giulio Talini. Tutti i diritti riservati

SCOPERTO IL LUOGO DI PRIGIONIA DI VLAD III TEPES?


Nei sotterranei del Castello di Tokat, una equipe di archeologi turchi ha rinvenuto due celle segrete ed è proprio dove venne rinchiuso il Principe Vlad III, altrimenti noto nel mondo delle leggende Dracula. La cella è costituita da una serie di tunnel segreti e misteriosi che somigliavano molto ad un bunker militare con celle segrete proprio quelle che hanno avuto come "ospite d'onore" il principe. Vlad Tepes III era detto l'Impalatore perchè amava impalare banditi, nemici e tutti quelli che osavano contraddirlo. Secondo la leggenda, magistralmente raccontata nel "Dracula" di Bram Stoker, era chiamato Draculea che significa figlio del drago. Dracula (1431-1476) difese l'occidente dall'avanzata dei turchi ottomani che lo catturarono imprigionandolo per ben dieci anni. Intervistato ad uno dei più venduti giornali turchi, Cetin Ibrahim l'archeologo che ha scoperto le probabili celle della prigionia del principe, afferma che Vlad avesse imparato molto sulla tortura da parte dei suoi carcerieri, studiandone le tecniche e apprezzando particolarmente l'impalamento, tecnica che fu in continuazione usata non appena fece ritorno a casa. In cantiere c'è la volontà di fare di questo sito un luogo turistico anche per portare denaro nelle casse della città di Tokat.

martedì 16 settembre 2014

MANIFESTAZIONE "MEDIOEVO QUANTE STORIE"...INCONTRI MEDIEVALI! 20/9 - 20/12


Jaca Book e l’Associazione Italia Medievale danno il via alla II edizione di MEDIOEVO QUANTE 
STORIE con un ciclo di incontri ancora più ricco che si apre a nuove iniziative: non solo presentazioni di saggi e romanzi, ma anche incontri a tema, esecuzioni musicali, proiezioni e molto altro. Un viaggio tra finzione e realtà, tra arte, cinema, letteratura, musica e videogiochi. Per studiosi e appassionati, ma anche per lettori incuriositi che vogliono esplorare l’affascinante Età di Mezzo.

Informazioni

0248561520
0245329840

Libreria Jaca Book “Città Possibile”, Via Frua 11, Milano 

Sabato 20 SETTEMBRE 2014
LA VIPERA E IL DIAVOLO (Meravigli Edizioni)
Ore 17 Presentazione del libro di Luigi Barnaba Frigoli

Sabato 4 OTTOBRE 2014
LA LEGGENDA DI DEFUK. EST, EST, EST (Edizione a cura dell’autore)
ore 17.00 Presentazione del libro di Quinto Ficari

Venerdì 10 OTTOBRE 2014
GUGLIELMO VII. GRAN MARCHESE DI MONFERRATO E SIGNORE DI MILANO
ore 18.30 Conferenza a cura del Circolo Culturale “I Marchesi del Monferrato”

Sabato 25 OTTOBRE 2014 
LA QUERCIA E LA SPADA
ore 17.00 Presentazione del film di Alessio Rupalti e Raffaele Savoldi 
(Produzione Wearedreamers)

Sabato 8 NOVEMBRE 2014
PROSPERITY ITALIA 1434
ore 17.00 Presentazione del videogioco di Entertainment Games App

Venerdì 14 NOVEMBRE 2014
FACINO CANE. SAGACIA E ASTUZIA NEI TRAVAGLI D’ITALIA 
TRA FINE TRECENTO E INIZIO QUATTROCENTO
ore 18.30 Conferenza a cura del Circolo Culturale “I Marchesi del Monferrato”
L’evento è inserito all’interno della rassegna BOOKCITY MILANO 2014 

Domenica 16 NOVEMBRE 2014
ICONOGRAFIA MEDIEVALE. IL DIALOGO TRA L’ARTE E LA STORIA (Jaca Book) 
ore 11.00 Presentazione del libro di Jerome Baschet 
L’evento è inserito all’interno della rassegna BOOKCITY MILANO 2014 

Sabato 20 DICEMBRE 2014
CANZONI DELL’AMOR CORTESE 
ore 17.00 Presentazione del CD L’Amoros Pessamens dei Lilium Aeris

* segue aperitivo

lunedì 15 settembre 2014

ROBERT I BRUCE

Robert I Bruce fu re di Scozia del 1296 al 1329: di discendenza normanna è stato uno dei più grandi re e patrioti della Storia della Scozia conducendo il suo paese contro l'Inghilterra durante le guerre di indipendenza. Riposa nell'abbazia di Dunfermline mentre il suo cuore, su desiderio di Robert stesso, doveva essere portato nella Chiesa del Santo Sepolcro da alcuni cavalieri che si unirono poi ad una crociata. La leggenda vuole che uno dei cavalieri, un certo sir Douglas, portò il cuore in battaglia come fosse un talismano, in realtà fu riportato in Scozia nell'abbazia di Melrose.Nell'agosto dell'anno 1296 i Bruce giurarono fedeltà al re d'Inghilterra Edoardo I mediante il famoso patto a Berwick-upon-Tweed, patto che fu violato dallo stesso Robert che si unì ad una rivolta contro il sovrano. Il 7 luglio 1297 i Bruce furono costretti a firmare la Capitolazione di Irvine secondo cui i signori della Scozia potevano scegliere chi servire e sarebbero stati perdonati per la loro ribellione in caso di giuramento ad Edoardo e come garanzia Robert avrebbe dovuto consegnare sua figlia Marjiorie come ostaggio. Dopo la battaglia di Stirling Bridge, Bruce venne considerato un traditore, Annandale fu distrutta e successivamente la battaglia delle Falkirk sia Annandale che Carrick furono esclusi dall signoria e furono assegnate da Edoardo ai suoi seguaci. Dopo Falkirk William Wallace divenne Guardiano di Scozia e vi succedettero lo stesso Robert e Comyn. nel 1303 Edoardo attaccò nuovamente la Scozia arrivando ad Edimburgo e Perth. Comyn sapeva che avrebbe potuto ben poco contro l'esercito di Edoardo che intanto arrivò a Dundee, Montrose, Brechin ed Aberdee. La Scozia era praticamente sottomessa e tutti, tranne Wallace, si arresero ad Edoardo. L'11 giugno del 1304 Comyn e Robert strinsero un patto di collaborazione contro il nemico per proteggere gli scozzesi e per portarli all'indipendenza. La Scozia non aveva un esercito e Edoardo iniziò un processo di fusione con l'Inghilterra. Nel 1305 Edoardo affidò a Robert il Castello di Kildrummy unitamente a vasti possedimenti che ne faceva, praticamente, il padrone di tutta la Scozia facendolo mettere in cattiva luce con una parte della Comunità scozzese. Una forte opposizione a Bruce venne proprio da Comyn che aveva riunito attorno a sè altri nobili scozzesi per una strenua opposizione agli inglesi. Per evitare che l'opposizione interna avesse potuto minargli il potere, Bruce lo convocò a Dumfiers il 10 febbraio del 1306. La riunione era decisamente tesa, con Bruce che attaccò il suo compagno e lo fece uccidere da due suoi sostenitori prendendosi anche una scomunicata ritirata poi da Papa Giovanni XXII nel 1328. Bruce divenne re di Scozia con il nome di Roberto I a Scone il 25 marzo del 1306. L'avventura come re di Bruce no niniziò bene: fu sconfitto a Methven e a Strathfillan e fu costretto a fuggire a Rathlin dinanzi alla costa settentrionale dell'Irlanda. Sua moglie, sua figlia e sua nipote furono catturate mentre Niall, suo fratello, fu giustiziato. Per fortuna di Bruce Edoardo I morì il 7 luglio 1307 lasciando il trono a Edoardo II, ben lontano dalla preparazione politica e militare del padre. Bruce ed i suoi seguaci ritornarono in Scozia nel febbraio 1308 divisi in due gruppi: uno, condotto da Robert e da suo fratello Edward che si stanziarono nel castello di Turnberry dal quale organizzarono una guerriglia contro gli inglesi nel sud-ovest della Scozia; l'altro, condotto dai suoi fratelli Thomas ed Alexander che si stanziarono a po' più a sud nel Loch Ryan; ma ben presto i due fratelli vennero catturati e giustiziati. In aprile Bruce ottenne una discreta vittoria contro gli inglesi nella Battaglia di Glen Trool prima di sconfiggere Aymer de Valence e il conte di Pembroke nella Battaglia di Loudoun Hill. Lasciando suo fratello Edward a capo della regione di Galloway, si diresse verso nord e conquistò i castelli di Urquhart e di Inverlochy, dando fuoco al castello di Inverness e radendo al suolo quello di Nairn, e minacciando infine, senza successo Elgin. Trasferite le operazioni nell'Aberdeenshire verso la fine del 1307, attaccò Banff ma venne colto da una malattia piuttosto seria, che probabilmente fu la causa delle difficoltà della lunga campagna. Ristabilitosi, Bruce sottomise John Comyn, terzo conte di Buchan, e proseguì verso ovest dove conquistò i castelli di Balvenie e di Duffus, e dell' allora castello di Tarradale sulla Black Isle. Tornò indietro nel tentativo di riprendere Elgin, ma fallì nuovamente, infine sconfisse nuovamente Comyn nella Battaglia di Inverurie nel maggio 1308, quindi conquistò Buchan e massacrò la guarnigione inglese ad Aberdeen. Infine penetrò nella regione di Argyll e sconfisse i suoi nemici nella Battaglia di Pass of Brander prendendo il castello di Dunstaffnage, l'ultima fortezza di Comyn. Nel marzo del 1309, riunì il suo primo Parlamento a Saint Andrews ed entro agosto dello stesso anno controllava tutto il nord della Scozia. Il seguente anno, il clero scozzese, durante un consiglio generale, riconobbe Bruce come re di Scozia. Il supporto concesso dalla chiesa nonostante la scomunica era, per Bruce, di grande importanza politica. I tre anni successivi videro la conquista di un castello e di un avamposto inglese dopo un altro: Linlithgow nel 1310, Dumbarton nel 1311 e Perth. Nella sua sete di conquista, Bruce fece incursioni nel nord dell'Inghilterra e si stanziò a Ramsey nell'Isola di Man, dove assediò il Castello di Rushen a Castletown conquistandolo il 21 giugno 1313, con il chiaro intento di strappare agli inglesi un'importante postazione strategica, quale era l'isola di Man. Nella primavera del 1314, il fratello, Edward Bruce assediò il castello di Stirling, il cui governatore, era Sir Philip de Mowbray. Intanto nel marzo del 1314 sir James Douglas catturò Roxburgh e Randolph conquistando il Castello di Edimburgo. A maggio del 1314 Bruce invase e sottomise l'Isola di Man, per poi assicurare militarmente l'indipendenza della Scozia dall'Inghilterra con la storica Battaglia di Bannockburn.

Fonte: Wikipedia

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