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mercoledì 16 maggio 2012

IL PRIMO SANTO "ROGO". FINNICELLA, STREGA DI ROMA

Cristogramma (fonte: wikipedia.org)

Rifugio dei peccatori. Vessillo dei combattenti. Medicina degli infermi. Sollievo dei sofferenti. Onore dei credenti. Splendore degli evangelizzanti. Mercede degli operanti. Soccorso dei deboli. Sospiro dei meditabondi. Aiuto dei supplicanti. Debolezza dei contemplanti. Gloria dei trionfanti. In totale fa dodici. Esattamente come i raggi del sole che splende d’oro nel campo azzurro ormai quasi sbiadito della tavoletta con la croce. JHS, sta scritto sul legno. E’ l’emblema della devozione a Nostro Signore. Sua è la croce riprodotta sulla tavoletta. A Lui vanno le labbra dei fedeli, che uno dopo l’altro si inginocchiano supplici a baciare la santa effigie, il Cristogramma che il buon frate porge alle masse adoranti durante e dopo la predicazione. Chi adora la croce si disfa del demonio, salmodia il prete. Chi bacia il legno santo abbandona i mali della terra. Ed a Roma, nell’estate del 1426 c’è un disperato bisogno di purificazione. Ora che la peste ha steso le sue ali nere sulla città, ora che i morti si accatastano ai bordi delle strade lerce, ora l’Urbe ha più bisogno dei suoi eroi, e massimamente dei santi che la riavvicinino alla perduta grazia di Dio.
E quel toscano, partorito nel secolo precedente nella casa dei senesi Albizzeschi in quel di Massa Marittima, fa proprio al caso del popolo. Bernardo, si chiamerebbe. Ma un po’ per la statura - che non è certo quella di un gigante, un po’ per quel saio immenso e lacero - indossato quando era ancora poco più che un ragazzino ventiduenne, tutti lo indicano con il diminutivo. Bernardino. E’ diventato adulto in fretta, Bernardino. Rimasto presto orfano, ha fatto ritorno alle sue origini, riparando da Massa a Siena per abitare nel palazzo delle zie, agiate vecchine che lo hanno sostenuto negli studi e rifocillato a dovere. Nel 1402, con l’abito monacale ancora fresco indosso, ha iniziato a girare in lungo ed in largo per l’Italia del nord. E’ solo un fraticello, dicono di lui quando lo incontrano. Poi apre bocca e chi se lo trova davanti allibisce. E’ il fervore di Dio in persona, dicono alla fine, mentre la sua modesta figura si allontana verso una nuova mèta. Cavalca il rinnovamento, quel Frate Minore che fa della religione del Cristo il suo scudo e sostegno contro i tempi avversi, la perdizione, le tentazioni della carne, la miseria. Devoto fino al midollo, non gli riesce di trascurare una virgola della vita del gregge. A partire dai suoi aspetti più pratici. E’ il primo teologo che, dopo Pietro di Giovanni Olivi, si fa carico di firmare di suo pugno un tomo intero dedicato all’economia. Materia sottile, in cui gli alfieri di Cristo al tempo non brillano certo. Ma lui no. Scrive di contratti, di proprietà privata, di etica commerciale, di valore e di prezzo. Abbozza il ritratto del giusto negozio, dell’onestà potenziale dell’imprenditore che non necessariamente è dannato per sua natura. Onestà significa utilità, dice, per l’intera società. Il commercio equo transita attraverso l’efficienza e la responsabilità, afferma, e procede grazie alla laboriosità ed all’assunzione del rischio. La proprietà esiste è ed un bene, almeno finché non appartiene all’uomo ma sussiste per esso, quale strumento per ingenerare miglioramento nel mondo. Non tollera la contesa, Bernardino. Lavora al telaio della diplomazia, piuttosto. Media. Riconcilia. Appiana. E parla contro i nuovi ricchi senza legge. E l’usura, soprattutto. Non sarebbero novità assolute, le sue. Ma quel che gli manca in termini di pensiero inedito lo recupera e surclassa quanto ad acume del ragionamento, con quella lingua tagliente e diretta che è il suo marchio migliore e più autentico. Nel 1425 è ancora a Siena, e si dà al virtuosismo della predicazione. Legge e rilegge decine di volte i suoi discorsi. Almeno finché non li ha imparati a perfezione. Fino a che non ne è assolutamente convinto. In sette settimane non salta una predicazione giornaliera. Per ogni alba ha un discorso nuovo, rutilante, perfettamente logico e convincente. Pericoloso. Tanto che usurai e gestori delle case da gioco attive in città stringono un pactum sceleris e, a forza di denari, assoldano testimoni per convincere le autorità che egli sia un eretico. I signori di Siena mangiano la foglia e lo incriminano. 
San Bernardino da Siena
(fonte: airemsea.it)
Bernardino intanto ha già abbandonato la città, i suoi passi instancabili già consumano l’antica via consolare che conduce a Roma. In Vaticano frattanto siede un Gran Maestro dell’Ordine di Cristo nato genazzanese presso i potentissimi Colonna. Il Papa numero 206 nei registri di Pietro. Ottone, ovvero Martino V, assurto alla gloria del regno di Dio in terra a furor di concilio di Costanza, mentre la Chiesa cattolica si dibatte nell’ardua impresa di governare le bizze del trasferimento della curia da Avignone di Francia a Roma. Successore di Giovanni XXIII, Martino è l’uomo che ha scritto di suo pugno la parola fine sull’annosa questione dello Scisma d’Occidente. Un uomo che ama la moderazione e non tollera i tumulti. Che difende la pace ed a fatica tollera le turbative. Per questo quel frate ormai famoso non gli va proprio a genio. Eppure, in molti sono disposti a difenderlo a spada tratta. Uno di essi si chiama Paolo da Venezia, ed è un sommo dottore di teologia che si prende la briga di tirare giù un intero trattato in difesa di Bernardino, che nel frattempo è finito nel mirino della Santa Inquisizione complici le voci infami che dilagano sul suo conto in quel di Siena. Il processo formale al toscano si tiene proprio a Roma, e ne segna infine l’assoluzione con formula piena. Se possibile, l’incidente con la legge non fa che aumentarne la già considerevole fama. Anche perché Bernardino si avvale del diritto di difendersi da sé, e lo fa proprio al cospetto di Martino V. Le sue parole sono ambrosia e fuoco. Riescono a smuovere perfino la pax granitica di quel Pontefice che non vuole scocciatori. Adesso è il Papa in persona ad insistere affinché agli rimanga nell’Urbe. Che diffonda le sacre vampe della fede in ogni dove, se gli riesce. Roma ha la peste. Ed un disperato bisogno di conforto. Il misero frate predica per 80 giorni consecutivi, ed affine se possibile le sue già acutissime arti. A molti dei suoi discorsi Martino presenzia, segretamente per tentare di trovare una falla in quel baluardo di fede. Ma è inutile. Bernardino è un leone di Cristo. Al Papa non resta che convincersi ed abbandonarsi egli stesso alla malia. Gli si proponga la nomina ufficiale a Predicatore della Casa Pontificia. Un lustro assoluto. Che, come tale, l’umile monaco rifiuta con discrezione, opponendo ai fasti ecclesiastici un’umiltà che gli fa ancora più onore. A Roma diventa in fretta una celebrità, mentre stuoli di fedeli ignorano i già alti rischi di contagio per assieparsi alle sue prediche infinite. Tutti ascoltano, tutti acclamano, tutti si inginocchiano. E tutti posano le labbra sulle tavolette col Cristogramma, che Bernardino reca con sé durante i bagni di folla e che ormai anche la Chiesa più ufficiale ed altolocata ha finito per adottare ed inserire nel novero delle sue simbologie predilette. Dall’estate 1427 Bernardino è di nuovo a Siena, tornato su richiesta dei Signori della Cinta. Il sant’uomo è sfinito, sta sfidando i suoi limiti e con ciò pervertendo la sua stessa natura terrena, ma ha una nuova sfida da raccogliere e non può tirarsi indietro. Il santo va sempre e soltanto avanti. Porterà il verbo di Cristo nel clamore del Comune per 45 giorni a partire dalla metà di agosto. Il popolo lo avrebbe voluto Vescovo della città, ma per tre volte consecutive i nobili gli recano la proposta formale e per tre volte lui rifiuta recisamente. La sua è una virtù che rifugge i titoli. A Siena non esiste luogo di culto che possa aiutare nell’opera immane di contenere tutto il volgo. Dunque i Signori gli ordinano di prendere Piazza del Campo. Parlerà a partire dall’alba, in modo da coinvolgere tutta la popolazione disponibile, stazionando su di un altare improvvisato che viene tirato su in fretta tra due finestroni del Palazzo Comunale, o al massimo sporgendosi dal pulpito in legno che dopo qualche giorno le autorità gli concedono. Alla sua sinistra presenzieranno i Priori della Signoria, raccolti in una tribuna apposita suddivisa in due ali, la destra riservata alle donne e la sinistra agli uomini. Bernardino inizia l’opera, e celebra la Santa Messa per due ore filate, fino alle sette del mattino. A quell’ore, mentre le botteghe iniziano ad aprire i battenti ed i mercato termina il suo acconciarsi per il popolo, inizia instancabile a predicare. Conosce a menadito il latino, come tutti gli uomini di Chiesa del suo tempo. Ma parla al popolo minuto, e quindi preferisce affidarsi alle coloriture del volgare, per raggiungere il cuore e non solo le orecchie del suo uditorio. Finito con Siena, il frate riprende la sua vocazione itinerante di missionario inquieto. Nel 1431 è nella Ferrara degli Estensi, che lo vorrebbero vescovo. Dal 1435 è in Montefeltro e nelle grazie di Federico, futuro Duca d’Urbino che resta scottato dalla sua profonda e vivida spiritualità. Anche qui rifiuta la nomina a vescovo. Cosa che tuttavia non gli riesce quando, due anni più tardi, viene nominato di prepotenza Vicario Generale dell’Ordine degli Osservanti, per poi divenire nel 1438 Vicario Generale di tutti i Francescani d’Italia. Ormai ha quasi sessanta anni. Sul suo capo, oltre al peso di un’invincibile stanchezza, grava la malattia che attanaglia le sue notti. Ma il vescovo aquilano Amico Agnifili ha un incarico che sembra fatto apposta per lui. Dovrà recarsi in terra d’Abruzzo e tentare di riconciliare le fazioni che insanguinano la città con l’ennesima faida interna. E’ il maggio del 1444 quando Bernardino comprende che le sue forze stanno venendo meno. I suoi tentativi di mediazione producono buoni frutti, ma il tempo è tiranno ed il 20 Bernardo si riconcilia con la Grazia Divina che l’ha voluto alfiere della potenza e del perdono celeste. Al suo funerale interviene tutta la città, e mentre il sant’uomo viene deposto nella bara, qualcuno tra i presenti leva alte grida al cielo notando che il legno perde sangue vivo. La bara di Bernardino sanguina. Continuerà finché i litiganti aquilani non deporranno le armi. E’ un ritratto sacrale, quello che emerge dalle cronache dedicate a Bernardino da Siena. Infatti, appena sei anni dopo la sua dipartita, il Papa lo canonizza ufficialmente. 
Strega al rogo, incisione del XVI secolo
(fonte: airesis.net)
Un record per un campione della vera Fede. Non altrettanto, però, per l’immagine che sta accanto e dietro a quella del missionario, predicatore, evangelizzatore delle masse. Un’istantanea dai colori molto meno vividi, più oscuri anzi, che restituisce l’indizio di un uomo di Chiesa non esattamente retto ed anzi a tratti accecato dal suo prepotente integralismo.  E’ una strana immagine, quella del Bernardino “collaterale”. Un quadro che fa a pugni con quello retto e magnifico ricordato negli scritti ecclesiastici ed ostentato nella pietra seicentesca della chiesa a lui dedicata nella romanissima via di Panisperna. Un secondo ritratto che prende le mosse proprio dai suoi giorni migliori, quelli delle prediche di piazza senesi e, soprattutto, romane. In uno dei suoi capolavori d’ars oratoria, nel 1427, il frate avrebbe ammutolito Piazza del Campo tornando con la mente e col racconto ad alcuni fatti di cui era stato più che testimone negli anni trascorsi a Roma. Fatti riconducibili ad un nome che fece tremare l’Urbe. Quello di Finnicella. Prima fattucchiera finita tra le fiamme del Santo Rogo e vittima inaugurale della caccia alle streghe che, partita proprio dalla culla della cristianità, di lì a poco avrebbe insanguinato l’Europa intera, finendo per raggiungere addirittura il Nuovo Mondo. A Roma Bernardino aveva goduto di un pubblico di devoti in numero davvero impressionante, a motivo della sua vicinanza ai problemi quotidiani della plebe e, soprattutto, agli innumerevoli mali che ne minavano il giornaliero vivere. Plasmati da tanti discorsi e spunti ed esportazioni sulla ricerca della virtù e, più ancora, sull’abiura assoluta del male congenitamente presente in seno alla società, i romani avrebbero devotamente riportato al loro buon difensore le loro perplessità circa la condotta di una donna sul cui capo pendevano accuse a dir poco infamanti. Trenta infanti assassinati per suggerne il sangue ancora caldo, cui andava assommato perfino lo stesso figlio della donna, massacrato per farne polvere da ingerire in occasione di nefandi ed oscuri riti. Ce n’era abbastanza, insomma, per spiccare nei confronti di Finnicella un’accusa formale. Quella riservata ad una figlia del demonio. Quella per stregoneria. Detto fatto, la donna venne portata in ceppi presso Bernardino, la cui eloquenza sembra fosse pari unicamente alla dedizione nella ricerca ad ogni costo della verità più recondita. Denunciata ed interrogata, Finnicella fu condannata alla pubblica morte nel luglio del 1426, in piena epidemia di peste. Forse, mondata l’Urbe della sua nefasta presenza, anche il morbo senza pietà avrebbe preso un’altra via. La sera dell’8 luglio il Campidoglio sprigionò alte vampe. Il prezzo dell’obbedienza cieca del volgo all’ancor più cieca dedizione del suo campione di fede, che assistette fianco a fianco al suo zelante e nutrito pubblico, intervenuto in massa pur di non perdersi lo spettacolo d’eccezione, agli spasmi dell’accusata. A nulla valsero le obiezioni sollevate da alcuni dottori, che testimoniarono come la donna fosse semplicemente un’ostetrica. Le fiamme consumarono in fretta il suo corpo martoriato, mentre Bernardino consegnava alla storia il primo atto dell’atroce cronaca della caccia alle fattucchiere. Verità o semplice leggenda? Diceria o evento fondato? A quasi sei secoli di distanza, il dubbio permane, e finisce per avvolgere il protagonista in negativo dell’ipotetica cronaca. Bernardino, l’alfiere della Grazia Divina. O piuttosto il principe dei cacciatori di megere?

Articolo di Simone Petrelli. Tutti i diritti riservati

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