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venerdì 25 maggio 2012

MELUSINA

Un’incisione medievale della donna-serpente (fonte: leonardo.it).

Guarda, assisa, la vaga Melusina,
Tenendo il capo tra le ceree mani,
La Luna in arco da' boschi lontani
Salir vermiglia il ciel di Palestina.
Da l'alto de la torre saracina,
Ella sogna il destin de' Lusignani;
E innanzi al tristo rosseggiar de' piani,
Sente de 'l suo finir l'ora vicina.
Già, già, viscida e lunga, ella le braccia
Vede coprirsi di pallida squama,
Le braccia che fiorian sì dolcemente.
Scintilla inrigidita la sua faccia
E bilingue la sua bocca in van chiama
Poi che a 'l cuor giunge il freddo de 'l serpente.

G. D'Annunzio, I Sonetti delle Fate (1914)



E’ il tramonto dell’amore, assassinato dai viluppi dal sospetto e della mancanza di fiducia, oltre che dall’incapacità pesante di rispettare l’altrui più intima e segreta parte lasciandola inviolata. E’ la disintegrazione della fantasia, che soccombe sotto gli avidi colpi di una lucidità impietosa e tirannica. E’ l’impossibilità di accettare ed integrare compiutamente le inevitabili zone d’ombra e d’inconscio all’interno della monolitica organizzazione del quotidiano vivere. Melusina è tutto questo, e massimamente rappresenta l’esempio tipico della funzione di una metafora. Mostro soprannaturale ma anche donna affascinante, è amorevole ed al contempo abile, sa essere terribilmente crudele ed insieme assolutamente prodiga. Tanti sono i tratti che si presta a rappresentare quante le leggende nel tempo fiorite attorno alle sue spire. Che, però, partono tutte da una comune radice. Quella che la vorrebbe terza, bellissima figlia del sovrano d’Albania, Elinas, e di un’aguana, una donna di fiume chiamata Pressine, che il re avrebbe incontrato durante una battuta di caccia e - provvidenzialmente - dopo aver perso la sua sposa originale. Convolati a subitanee nozze, Pressine fece giurare ad Elinas che avrebbe dovuto rispettare la sua privacy in alcuni particolari giorni, esimendosi dal farle inopportune visite e lasciandola sola nelle sue stanze. Il sodalizio seguitò florido, finché non nacquero le tre eredi del re. Reduce dall’estenuante veglia contestuale al parto, che la regina aveva insistito per affrontare con il solo conforto della sue forze, dopo aver appreso la felice notizia della triplice nascita Elinas non riuscì a trattenersi, e finì per fare precipitosa irruzione nella stanze di Pressine, sorprendendo la fata intenta al loro primo lavacro. Pressine si adirò profondamente per la mancanza del suo sposo, che aveva infranto il giuramento dato invadendo uno spazio che lei considerava indissolubilmente sacro. Prese seco le figlie, voltò le spalle ad Elinas ed al suo palazzo di fasti per non tornare più. Decise piuttosto di allevare le bimbe in un luogo lontano, inaccessibile al re ed alle sue inopportune premure. Un’isola al largo della costa albanese, coperta di impenetrabili foreste ed asperità montuose inaccessibili dalla cima delle quali, mese dopo mese e stagione dopo stagione, le esiliate principesse scrutavano affrante il mare e, di la dalle onde, quel regno lontano nel tempo e nello spazio che, ancora in fasce, avevano perduto. Sopraggiunta l’età del raziocinio, alla fata non rimase che raccontare alle figlie tutta la storia, ripercorrendo al loro cospetto le vicende di quel giorno amaro in cui il regale padre era venuto meno alla sua solenne promessa. Tra i lamenti ed i singhiozzi, fu Melusina ad escogitare un piano ardito per vendicare il tradimento ai danni della madre. Esposta la manovra alle sorelle, le tre adolescenti fate rimisero piede in terra d’Albania, laddove complice un fosco incantesimo, riuscirono ad imprigionare sire Elinas in cima ad un monte, contornato dall’unica compagnia dei tesori che abbellivano la sua favolosa corte e che, infrangendo il voto accordato alla consorte, aveva condannato ad essere suoi unici, freddi ed inerti compagni per l’eternità. Riguadagnato il mare e tornate sull’isola abitata da Pressine, le tre erano tuttavia andate incontro alla contrarietà decisa della fata madre, che aveva subito deciso di punirle in maniera esemplare. Melusina aveva forse ricevuto il più crudele dei contrappassi. Mutarsi dalla vita in giù in rettile ogni sabato. Finché non avesse incontrato ed impalmato un uomo le cui preclare virtù gli avessero impedito di cadere nell’antico errore paterno. All’infelice giovane, gravata oltremodo dall’impietoso castigo magico dell’aguana genitrice, non rimase che vagabondare di villaggio in villaggio in cerca di quell’amore che per lei diveniva oltremodo salvezza e redenzione. Fu così che approdò nel continente, consumando le strade d’Europa ed i sentieri della teutonica Foresta Nera, l’amabile terra di Francia ed i valichi nevosi delle Ardenne. Un giorno raggiunse la provincia di Poitou, che abbraccia le spiagge di Vandea, i campi del Deux-Sèvres ed i cento e più campanili che svettano sui cieli della Vienne. Qui, nell’intrico scuro della foresta di Colombiers, trovò requie divenendo regina delle fate dei boschi locali. Una calda sera d'estate, il delfino del Comte du Forez e nipote di Aimery du Poitiers, Raymondin, durante una battuta di caccia aveva creduto di intravedere un corpulento cinghiale nascosto all’ombra di un cespuglio. Scagliata la sua infallibile lancia, aveva però scoperto immediatamente che, per un fatale ed irrimediabile errore, il suo bersaglio morente al suolo non era una bestia della macchia ma lo zio e compagno di battuta. Disperato, il giovane si era dato ad una fuga precipitosa e sconsolata, a lungo vagando nei recessi della foresta di Colombiers illuminata appena dalla luce lunare. Il suo errare fu tuttavia improvvisamente interrotto da un canto tanto soave quanto etereo, che costrinse il giovane a cercarne furiosamente la fonte tra fronde e radici, radure ed orridi. Il canto proveniva da una sorgente, la Fonte della Sete, nella penombra della quale stavano tre bellissime fanciulle. Melusina e le sue sventurate sorelle, ritrovatesi per sfogare nella triste litania il dolore della comune avversità. Raymondin non riuscì a passare oltre. Rimase inebetito ad ascoltare il lamento delle fate, finché questo non cessò lasciando nel vuoto della sua testa un unico, indomabile desiderio. Melusina. 
L’incontro di Raymondin e Melusina (fonte: forumfree.it).
La fata offrì il suo conforto al cavaliere sconvolto, che un impeto subitaneo spinse a confidare la sua triste storia e la più che recente dipartita dello zio. Melusina suggerì a Raymondin di fare ritorno a Poitiers, offrendo a corte una versione differente da quella reale circa le vicende della notte e prendendo il posto del potente e trapassato zio. Il ragazzo obbedì, spinto da un misterioso ed inestricabile viluppo magnetico che non poteva non chiamare amore. Calmatesi le acque, un Raymondin più sereno, sicuro e soprattutto potente aveva fatto ritorno alla fonte fatale, ritrovando la fata che aveva saputo consigliarlo per il meglio nell’ora più buia della sua vita e recandole per tutto ringraziamento una proposta di matrimonio. Melusina fu contenta, ma fece promettere a Raymondin che questi non si sarebbe mai arrischiato a cercarla al sabato. Il cavaliere giurò solennemente, ponendo il suo onore sul piatto e ricevendone in cambio la mano della sua misteriosa e silvestre salvatrice. Consumate le nozze, la parabola di Raymondin si fece, se possibile, ancor più brillante. Potere sconfinato, ricchezza smisurata, rispetto universale, devozione da parte delle masse. Non esisteva porta che gli fosse preclusa. Su ogni angolo del suo territorio sorgevano come funghi castelli poderosi ed imprendibili fortificazioni. Costruiti, per di più, a tempo di record in quella nuova éra aurea di abbondanza e splendore in cui tutto sembrava possibile e qualsiasi cosa era a portata di mano. Tanta abbondanza nel regno non lesinava di riflettersi anche nel palazzo stesso di Raymondin. Fu così che la coppia regale concepì ben dieci figli. Ognuno degli eredi, tuttavia, venne al mondo con una qualche tara che ne deturpava la fisicità. Il primo nato, Uriens, era più largo che lungo, e provvisto di spaventose orecchie da pachiderma. Il secondo, Freymund, mostrava un orecchio minuscolo ed uno smisurato. La deformità attaccò il terzo, Gyot, agli occhi, ponendone uno molto più in basso dell’altro. Il quarto si chiamava Anthoni, e recava sul viso una profonda spaccatura, quasi fosse stato artigliato al volto da un leone. Reinhart, il quinto erede, era invece monocolo, eppure concentrava nell’unico occhio una vista tanto acuta da poter scrutare facilmente a distanze chilometriche. Il sesto nato, Geoffroy la Grandent, possedeva un dente enorme. Il settimo, Horribel, presentava una vistosa macchia sul volto, peraltro ricoperta da una folta peluria. Dieterich era l’ottavo, ed aveva in un certo senso recuperato la tara di Reinhart, possedendo non due ma ben tre occhi in bella mostra sul viso. Solo il nono ed il decimo figlio, Thierry e Ramonnet, non sembravano avere alcun difetto fisico o marchio così evidente. Nonostante le premesse avverse, tutti gli eredi del casato di Raymondin fecero, in un modo o nell’altro, carriera. Molti si distinsero sui campi di battaglia, come Uriens e Gyot che funestarono l’invasione pagana dell’isola di Cipro, riuscendo perfino a massacrare il loro re Soldan in occasione di uno scontro alle porte di Famagosta e facendo così assurgere il primo al trono dell’isola. Facendo rotta nel Levante Mediterraneo, al secondo riuscì invece l’impresa di convolare a giuste nozze con la figlia del re d’Armenia, Florie. Anthoni e Reinhart finirono invece per sfidare il campo prima del Lussemburgo e poi di Praga, con il secondo che seppe conquistarsi il regno di Boemia. Freymund aveva invece deciso di cimentare sé stesso nel cammino della fede, divenendo abate di Maillezais.Una notizia, questa, che lasciò pesantemente interdetto suo fratello Geoffroy. Nel frattempo, il cugino di Raymondin fece visita al cavaliere ed alla sua bella dama e, al termine del banchetto di benvenuto, approfittò dell’assenza di Melusina per confidare al marito come da tempo nel regno circolassero voci circa la strana abitudine della fata di trascorrere i sabati da sola. Una circostanza, questa, che il popolo si spiegava unicamente con il comportamento apertamente fedifrago della donna. Non fu dunque difficile all’ospite convincere il padrone di casa a spiare la consorte, infrangendo così il voto contratto. Giunto il sabato, Raymondin si appostò e scorse la sua sposa che si bagnava in vasca, apprendendo così con sommo turbamento che la donna amata nascondeva una lunga coda di rettile bluastra, con sinistre screziature argentate che colorivano alcune scaglie. 
Raymondin, prevaricato dal crudele cugino, spia Melusina e scopre il suo segreto (fonte: theglobeandmail.com).
Incerto sul da farsi, Raymondin alla fine decise di far finta di nulla, e soprassedere su quanto aveva scoperto. Tuttavia, col passare del tempo, non riuscì a dimenticare il senso di disgusto provato, che riecheggiava lo straniamento provato nel vedere che pressoché tutti i suoi eredi mostravano una qualche pesante deformità fisica. Frattanto, il cavaliere cacciò in malo modo il cugino, colpevole non solo di essersi reso consapevole ambasciatore di una falsa pena, ma anche di averlo trascinato al tradimento di un voto che ora pesava come un macigno sul suo stesso onore. Nel figlio Geoffroy, nel frattempo, cresceva la rabbia nel convincimento che il fratello abate avesse rinunciato alla brillante carriera delle armi spalancata di fronte a tutti i suoi fratelli a causa di una circonvenzione operata dai religiosi. Violento nel temperamento e collerico nei modi, il Grandent prese i suoi accoliti ed a cavallo raggiunse Maizellais, dove intimò ai frati di riconsegnargli la pecorella smarrita. Di fronte al rifiuto che lo stesso Freymund gli manifestò, Geoffroy ordinò che il monastero fosse messo a ferro e fuoco con i religiosi serrati al suo interno. Fu così che Freymund trovò la morte per mano del suo stesso sangue. Venuto a conoscenza del luttuoso avvenimento, Raymondin esplose, dopo aver covato in seno il tarlo di un sospetto orribile, frammisto all’implacabile senso di colpa che gli derivava dall’essere venuto meno al giuramento prestato. Sfogò la sua ira proprio su Melusina, che con lui condivideva il palazzo vuoto ora che i figli si erano dispersi per le vie del mondo. La accusò apertamente di essere dannata, e come tale di aver partorito una stirpe maledetta, invisa a Dio ed a quanto di retto esisteva sulla Terra. Ferita mortalmente dalle velenose parole del consorte, la fata ricambiò la maledizione nei confronti del marito, poi si fece spuntare due enormi ali da dragone e terminò la sua totale mutazione in serpe, raggiungendo la ragguardevole lunghezza di quindici piedi e spiccando il volo dalla fortezza di Lusignàn, che ella stessa aveva costruito per l’amato e tra le sale della quale da tempo abitava con Raymondin. Lanciò grida agghiaccianti, dopo aver compiuto tre giri completi degli spalti, e fuggì lontano senza fare più ritorno esattamente come aveva fatto decine di anni prima sua madre, anch’essa tradita da un sospetto immortale. Da allora, quella creatura singolare, in parte donna in parte mostro, essere terribilmente umano nella sua quotidianità di moglie e madre ed insieme personaggio per eccellenza del regno fatato, totalmente fiaccata dalla sofferenza di un destino del quale non era riuscita ad invertire il corso vagò per la terra, ripresentandosi nelle terre dei Lusignano all’uso delle banshees irlandesi, quale presagio di imminenti sciagure che, a seguito delle sue oscure maledizioni, il casato di Raymondin dovrà scontare per l’eternità. Fata o spirito d’acqua a volte affiancata al capitolo delle Dame bianche, Melusina divenne incredibilmente popolare già dal Medioevo, soprattutto nelle regioni più settentrionali di Francia. Soprattutto perché del viluppo raggiunto dal suo denso ed ingombrante mito si occuparono nel XV secolo due differenti ma nobili famiglie, che entrambe si proclamavano lontane eredi dei Lusingano. Uno sforzo, il loro, destinato a rinverdire e sistematizzare i natali dell’antico casato emerso quattro secoli prima fornendo alla stirpe il singolare lustro dell’avocazione di un’antenata addirittura mitologica. E’ il 1390 quando il letterato Jean d’Arras viene solennemente incaricato dal duca Jean de Berry, proprietario delle antiche mura del maniero dei Lusignano, di stendere un roman dedicato alle origini soprannaturali della potente famiglia. Due anni dopo, d’Arras partorirà il Roman de Melusine. Qualche anno dopo, toccherà al cappellano Couldrette, su imprimatur del Lusignano signore di Partenay, redigere un’opera in versi su Melusina, donna-serpente di casa tanto nella mitologia e nel folclore francese, quanto nell'antichità classica greco-romana, nei racconti latinoamericani e perfino in quelli indiani del misterioso popolo Naga. Portatrice di prosperità e di abbondanza, Dea Madre medievale con funzione fondatrice e costruttrice di castelli e di villaggi, non stupisce che Melusina presenti una naturale predisposizione a divenire oggetto di attenzione da parte di molti signorotti di area specialmente francofona, peraltro desiderosi di incrementare il loro potere economico accostando il nome della propria famiglia a quello della singolare fata e sfruttandone il portato mitico di redenzione popolare, oltre che di riscatto della civiltà umana a fronte del temuto caos che regna ne mondo degli esseri non umani. Così, Rohan e Sassenaye sono ad esempio giunti a falsificare il loro albero genealogico per vantare una supposta discendenza dalla donna-serpente, mentre nobili casati europei contendono alle leggende francesi o addirittura lussemburghesi la mitica paternità di fondazione dei loro più maestosi manieri. Simbolo dei fenomeni di frontiera, nella terra della leggenda Melusina ha saputo mantenere saldo il suo radicamento, legandosi ai momenti liminali di transito tra cicli vitali e di crollo dei valori. 
L’immagine della fata riprodotta persino sulle cup del noto franchising d’oltreoceano Starbucks (fonte: leonardo.it).
A Fontanay-le-Comte oggi un'antica torre viene chiamata dal popolo “Tour Mélusine”. Sulle mura del castello di Terre Neuve, splendida proprietà dei de Rochebrune, campeggia un medaglione di pietra che ritrae la fata. Nell’antico villaggio di Pouzages sorge invece una fortezza edificata nell’anno Mille: è qui che nelle notti di plenilunio folle di curiosi si danno convegno, convinti che la buona fata farà la sua suggestiva comparsa nei cieli. Piotiers vanta una scultura sulla facciata della cattedrale di San Pietro, oltre ad un nugolo di pozzi che i vecchi del luogo vorrebbero scavati dalla stessa donna-serpente. Lusignan non è da meno, con i suoi busti in pietra di Raymondin, della sua sposa e del loro rissoso figlio Geoffrey la Grandent. Tra gli alberi sacri ai celti che ornano la foresta di Colombieres, sembra poi che alcuni si siano imbattuti ancora oggi nello zampillo limpidissimo della Fonte della Sete, che vide fiorire il disperato amore tra un cavaliere oppresso dal rimorso ed una fata sradicata dalla sua stessa casa. Che si visiti la Vandea o la Vienne o, ancora, la Charente Maritime, si deve insomma di necessità fare i conti con le terre dei Lusignano. E quindi con le orme lasciate dal passaggio della semidea. Che di quel casato che ne reclama strenuamente la parentela ha deciso perfino il nome. Melusina. Mére lusinan. Madre di Lusignano.

Articolo di Simone Petrelli. Tutti i diritti riservati

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