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venerdì 31 maggio 2013

IL MONASTERO DI AGHIOS PAVLOS

Il monastero di Aghios Pavlos (Monastero di San Paolo, in greco: Μονή Αγίου Παύλου) è uno dei venti monasteri della penisola del Monte Athos. Sorge a sud-ovest della penisola atonita. Occupa il quattordicesimo rango nella gerarchia dei monasteri della Santa Montagna.
È dedicato alla Presentazione di Cristo al Tempio, che si festeggia il 2 febbraio (15 febbraio).
Il complesso monastico conta una trentina monaci retti da un statuto cenobitico dal 1839. Sottomesse al monastero vi sono due skite la Nea Skiti e la skita rumena di Lakkoskete. La tradizione vuole che il monastero sia stato fondato nel IX secolo dall'anacoreta Paolo, che lasciato il Monastero di Xeropotamou venne in questo luogo a vivere vita eremitica. Il monastero porta il suo nome ma divenne indipendente da Seropotamou solo nel 1380 quando il monaco serbo Roman lo ampliò e vi piantò delle vigne per il sostentamento della comunità e vi costruì una chiesa. Il katholikòn venne edificato nel 1447 dal despota serbo Giorgio Brankovic, esso fu rifatto nel 1839. Gran parte degli attuali edifici furono costruito nel XVIII secolo con l'aiuto degli Zar Alessandro I e Nicola I. Nella cappella di San Giorgio sono presenti affreschi cretesi del XVI secolo. La biblioteca conta 494 manoscritti e oltre 12'000 volumi.

Fonte: Wikipedia

IL MONASTERO DI SIMONOPETRA

Il monastero di Simonopetra o monastero di Simonos Petras (in greco: Σίμωνος Πέτρας) è uno dei venti monasteri della Chiesa ortodossa della Repubblica del Monte Athos Grecia.
È situato a sud-ovest della penisola atonita. Occupa il tredicesimo rango nella gerarchia dei monasteri della Santa Montagna. È dedicato alla Natività del signore, festa votiva il 25 dicembre (7 gennaio), viene detto la Nuova Betlemme. Nel 1990 contava ottanta religiosi che vivono in regola cenobitica. Il monastero è stato fondato nel 1357 da un anacoreta di nome Simone. Il nome significa la pietra di Simone. L'eremita ebbe la notte di Natale la visione di una stella che si posava sopra la roccia dove oggi sorge il complesso monastico. Egli interpretò questa visione come la volontà divina di edificare un monastero. Con il sostegno del signore di Macedonia Giovanni Ugles e dal fratello il re di Serbia Vukašin Mrnjavčević, riuscì a portare a termine l'ardita impresa. Il complesso monastico subì molti e devastanti incendi nel 1580, 1626 e 1891 ogni volta ricostruito nello stesso stile, tipico dei monasteri atoniti, con alte pareti sormontate da logge e ballatoi. L'ultimo intervento nel XIX secolo fu sostenuto dallo zar Nicola II. I monaci in questi ultimi anni hanno acquisito una certa notorietà con la pubblicazione di una decina di dischi di canti corali monastici bizantini.


Fonte: Wikipedia

IL RE DI BUNYORO: UN LUNGO MEDIOEVO DEI RE SACRI

Il titolo ufficiale del Re di Bunyoro nel corso dei secoli è stato “il Signore che è al di sopra di tutti e che può curare tutti i mali” (1). Non è certo una intitolazione che richiama un ipotetico ed oscuro Medioevo europeo o le credenze ancestrali dei Popoli africani. Fino al pieno XIX secolo, una lunga serie di Re cristiani che curano la scrofola, gli organi o la mente, siedono sui troni europei e richiamano milioni di devoti (2). L’immagine di un Re che è in grado di apportare la guarigione, di chiamare la pioggia per i raccolti o di colmare i granai riempie l’immaginazione e la fiducia di intere popolazioni, dal vecchio Continente all’Africa all’America. Basterebbe ricordare l’uso degli Incas di mescolare al contenuto dei loro granai una piccola quantità del grano proveniente dalle piantagioni imperiali che si trovavano presso il lago Titicaca, luogo di origine della Famiglia regnante, ritenuto in grado di propiziare buoni raccolti e un’ottimale conservazione.
La denominazione del Re di Bunyoro proveniva dunque da una religiosità ancestrale ma anche dalla storia stessa della sua etnia. “Il Signore che è al di sopra di tutti” ricorda infatti quell’ insieme degli uomini liberi che popolò una vasta area prossima all’antico Regno del Kitara, e che era composto da conquistatori di origine camitica e dai discendenti degli antichi agricoltori locali, tutti considerati “uomini liberi”, ossia “banyoro”, sottratti alle più pesanti forme di vassallaggio e di restrizione sociale. Secondo Giorgio Gualco, i pastori liberi provenienti dalla etnia conquistatrice, ebbero il permesso di sposare le figlie di coloro che lavoravano le immense terre occupate nell’area del lago Alberto, ottenendo, grazie a questa commistione di sangue, la possibilità di rimanere in una condizione di libera sudditanza (3). 
Essi tuttavia, pur introducendo con molta probabilità nuovi elementi fonetici,  avrebbero adottato l’antica lingua dei popoli conquistati, oltre ad introdurre e mantenere in vita differenze notevoli di comportamento sociale. L’allevamento del bestiame, per esempio, sarebbe rimasto appannaggio dell’etnia dominante mentre la coltivazione delle terre veniva lasciata alle antiche popolazioni locali; e la stessa alimentazione avrebbe rimarcato per secoli le differenze etniche, poiché il gruppo proveniente dal Kitara si nutriva quasi esclusivamente di prodotti lattieri mentre i locali riservano per sé il consumo di ortaggi e cereali. 
Le invidiabili condizioni economiche e sociali dei nuovi gruppi consentirono già nel corso del XV secolo la strutturazione di un Regno indipendente che può dunque essere annoverato fra le altre grandi compagini statali africane, come lo Stato degli Ashanti, il Regno di Monomotapa, quello del Congo o l’Impero dei Mossi. Una organizzazione che fece poi considerare di più facile applicazione le strutture coloniali che si  mutuavano e adattavano dalle società occidentali.
Il Re di Bunyoro divenne solo pochi decenni dopo il più potente Sovrano dell’attuale Uganda: una supremazia che si mantenne fino a metà del XIX secolo. Un predominio che dovette essere prima di tutto socio-culturale, esteso progressivamente dalle tribù vicine fino a comprendere le regioni dominate dall’antico Regno di Kitara. Qui, quasi come un Sovrano normanno “primo fra i pari” che veniva eletto e riconosciuto fra i grandi cavalieri delle terre conquistate, il Re di Bunyoro era guardato dai sudditi e dagli altri capi e principi proprio come colui che si trovava in una condizione di superiorità che non era dovuta solo alla potenza e alla ricchezza. Il fatto che colui il quale si trovava “al di sopra di tutti” fosse anche in  grado di “curare tutti i mali”, lo sottraeva più tardi alla semplice condizione sociale di capo degli uomini liberi. 
Il Re entrava nell’altra, ben più elevata, di uomo prescelto dalla stessa divinità con il compito di  guidare ed aiutare il suo popolo, servendosi di conoscenze e di misticismo, alla stregua delle capacità sovrannaturali vantate dai Sovrani europei in grazia di una scelta venuta dall’alto. Per questi ultimi, del resto, la dottrina politica a cavallo fra Medioevo e Rinascimento cercava di elaborare sempre più precisamente la convinzione che il Sovrano fosse un uomo non superiore ma prescelto. Nella derivazione da modelli del Vecchio Testamento come il sacerdote-Re Melchisedech e il Re Davide, al Re medievale vengono riconosciute potestà diverse da quelle degli altri uomini, ed il cerimoniale dell’incoronazione prevede per loro anche una sorta di consacrazione e di unzione.
Anche per altri sovrani africani hanno potuto assimilare nella propria figura umana le caratteristiche di una autentica investitura divina. In questi casi, tuttavia, il Re è discendente stesso della divinità, e il suo potere deriva appunto dalla consanguineità celeste.  E’ sintomatico come presso gli stessi vicini Buganda il Re fosse considerato il discendente diretto del mitico capostipite Kintu e genero dell’essere supremo Musaka. Egli era scelto tra fratelli e fratellastri dal consiglio di successione con a capo il katikiro: il primo ministro che era anche tutore dei principi e custode del cordone ombelicale del Re defunto. I Buganda pensavano che il sangue reale fosse sacro (come nella dottrina politica europea degli stessi secoli a cavallo tra Medioevo e Rinascimento), e conferma la loro convinzione il fatto che anche in occasione di duelli o assassinii tra membri della Casa reale per motivi di successione, l’avversario cercava di avere ragione del contendente uccidendolo per strangolamento. Così non veniva commesso sacrilegio versando sangue di un principe. Si credeva anche che il dio Musaka risiedesse su un’isola in mezzo al lago Vittoria e che ogni anno facesse giungere un dono al Re sotto forma di pesci di ogni genere tramite i sacerdoti locali i quali ricevevano a loro volta i regali reali (4). 
Nelle credenze bunyoro, il Re non opera tramite quelle che gli Europei potrebbero considerare superstizioni locali. Piuttosto possiamo pensare che i Sovrani, arrivando in aree che non avevano il loro stesso retaggio culturale, abbiano potuto diffondere quelle conoscenze pratiche di medicina e farmacopea che agli abitanti locali dovevano apparire non solo nuove ma strane, originali, efficaci, miracolose; in grado di operare non solo in forza di un effetto placebo. 
Ma quel che più dovette impressionare le popolazioni che abitavano gli altipiani fu la capacità di rendere sicure terre fertili in grado di ospitare popolazioni di etnia e cultura completamente diverse. Quando a più riprese occuparono la zona dei Grandi Laghi, gli antichi Kitara riuscirono a compiere la grande opera di fortificazione e irreggimentazione  delle acque. Un sistema di camminamenti monumentale, che rendeva sicuro il territorio dagli attacchi esterni e lo preservava dal pericolo delle terribili siccità che erano state causa primaria degli spostamenti di tante popolazioni dalle originarie sedi nubiane ed etiopiche (5). Per le popolazioni autoctone si trattava di realizzazioni a prima vista incredibili, portentose, degne di un Sovrano più divino che umano.
 All’interno di questa rete si conseguiva però anche un altro grande traguardo, ossia il superamento della drammatica dicotomia pastori-agricoltori che per millenni e fino a tempi recenti ha turbato i rapporti fra gruppi ed etnie, dall’Africa all’Europa all’Italia meridionale. La distruzione delle colture dalla diffusione delle mandrie e i contrasti che ne derivano, ricordati già nell’episodio biblico dell’omicidio di Abele da parte di Caino, ha trovato nell’area dei Grandi Laghi una soluzione nella ripartizione della popolazione in ceti e in compiti all’interno dei ceti. La divisione del regime economico e alimentare fra le diverse vocazioni economiche delle etnie, consentiva evidentemente un adattamento anche fra le popolazioni dei pastori aristocratici e dei servi contadini, senza che l’una operasse una traumatica sopraffazione sull’altra. E’ un modello attuato anche al di là della zona dei Grandi Laghi, simile a quello che si ritrova fra i Bertha dell’Etiopia. Qui la spartizione della terra fra i due gruppi che si erano rifugiati sulle colline per motivi di difesa, ha eliminato i conflitti tra le etnie, in modo da poter ottenere anche una pacifica sopravvivenza economica (6).
Nei Regni nilotici la strategia politica elabora un sistema dottrinale ancora più perfezionato, che fa capo proprio alla figura del Sovrano. Il Re dell’etnia dominante viene infatti considerato come il discendente di un progenitore comune anche all’etnia degli agricoltori sottomessi. Nel Bunyoro, da Kahuma sono discesi gli allevatori nobili e da suo fratello Kairu i servi contadini, entrambi figli del primo uomo Kintu. Nel Rwanda Gatutsi e Gahutu, avi delle due etnie, sono creduti figli del comune antenato chiamato Kanyarwanda (7).
La denominazione reale, dunque, perfezionata dall’etichetta di Corte e da una propaganda politica che deve essere stata precisata e amplificata nel corso dei secoli, poggiava sul valore, la comprensione, la constatazione e l’applicazione di esperienze. Tutte queste capacità furono essenziali per edificare lo Stato intorno alla figura del Re. Ed oggi molte di esse non sembrano di minore importanza. Se alla cura dei mali del corpo si sostituisce l’assistenza e la volontà di alleviare i mali dello spirito, la figura di colui che deve coordinare questi sforzi sarà in grado di apparire davvero superiore a quanti lo circondano.
Carmelo Currò 

                                                                                     Note

(1)Cf. G.GUALCO, Uganda, Usi e costumi, in  Il Milione, XIII, Novara 1964, p. 562.
(2)Cf. M. BLOCH, I re taumaturghi, Torino 1973.
(3)Cf. GUALCO, cit., p. 563.
(4)Id., pp. 564-565.
(5)Cf. C. CURRO’, Medioevo africano: Bunyoro, Uganda e Regni dei Grandi Laghi – La storia scritta dalle fonti non scritte, in Sguardo sul Medioevo, 28 maggio 2013.
(6)Cf. C. MOFFA, L’Africa alla periferia della storia, Napoli 1993, p. 283.
(7)Id., p.282.

Articolo di Carmelo Currò Troiano. Tutti i diritti riservati.

giovedì 30 maggio 2013

IL MONASTERO DI PHILOTHEOU

Il monastero di Philotheou (greco: Φιλοθέου) è uno dei venti monasteri della Repubblica del Monte Athos Grecia. È situato a sud-est della penisola a un'altitudine di 370 metri. Possiede un porto sulla costa orientale. Occupa il dodicesimo rango nella gerarchia dei monasteri atoniti. È dedicato all'Annunciazione, festa votiva il 25 marzo (7 aprile). È retto a statuto cenobitico dal 1973 nel 1990 contava settantanove monaci. Molte skite sono legate al monastero, attualmente cinque sono attive. La tradizione indica come fondatore Filoteo, da cui il complesso monastico prende il nome, che verso la fine del X secolo con l'aiuto dei compagni Arsenio e Dionisio diede vita al complesso monastico. L'esistenza è documenta dal 1015. Dal XIV al XVI secolo fu abitato in prevalenza da monaci provenienti dalla Bulgaria. Nel 1871 un incendio devastò parte del complesso monastico risparmiando il katholikòn e gli edifici centrali. Il refettorio possiede degli affreschi di scuola cretese. Nella chiesa è custodita una icona della Madonna con bambino detta Glykofilusa (dal dolce bacio), dove Maria è dipinta mentre bacia il Creatore. La biblioteca possiede 250 manoscritti e circa 2500 libri di cui 500 in lingua russa e rumena.

Fonte: Wikipedia

"GUIDO RENI, LA CONSEGNA DELLE CHIAVI. UN CAPOLAVORO RITORNA"

Sabato 15 giugno sarà inaugurata, presso la Pinacoteca San Domenico di Fano, la mostra “Guido Reni “La Consegna delle Chiavi” Un capolavoro ritorna”. L’esposizione, ideata, voluta e promossa dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Fano, organizzata insieme alla Soprintendenza per i Beni Artistici Storici ed Etnoantropologici delle Marche ed al Comune di Fano, è stata resa possibile grazie alla gentile collaborazione del Musée du Louvre di Parigi, dei Musei Civici di Ascoli Piceno, della Pinacoteca Civica di Fano, della Diocesi di Fano Fossombrone Cagli Pergola. Per l’occasione si è costituito un comitato scientifico d’eccezione composto da alcuni tra i più illustri esperti del settore: Maria Rosaria Valazzi, Andrea Emiliani, Daniele Benati, Franco Battistelli, Rodolfo Battistini, Giuseppina Boiani Tombari, Daniele Diotallevi, Claudio Giardini, Stefano Papetti. Fino al 29 settembre la Pinacoteca ospiterà la “Consegna delle Chiavi”, dipinta da Guido Reni per l’altare maggiore della chiesa fanese di San Pietro in Valle, tela “estratta” in epoca napoleonica (1797) ed oggi esposta presso il Musée du Louvre di Parigi. Saranno inoltre mostrati altri due prestigiosi capolavori del pittore bolognese, dueAnnunciazione, una realizzata per la chiesa di San Pietro in Valle, oggi nella Pinacoteca Civica del Palazzo Malatestiano, e l’altra proveniente dai Musei Civici di Ascoli Piceno. Guido Reni (1575-1642) rappresenta uno degli esponenti di spicco del barocco italiano e la mostra, oltre a costituire un’occasione imperdibile per ammirare uno dei suoi maggiori capolavori, rientrato, seppur temporaneamente, dopo oltre due secoli di assenza dal territorio italiano, costituisce altresì una testimonianza del mecenatismo culturale del patriziato marchigiano nel corso del diciassettesimo secolo, nel momento in cui diversi aristocratici iniziano a mostrare interesse nei confronti della produzione artistica dei maggiori esponenti della scuola emiliano-bolognese. Dopo la mostra su Guercino del 2011 e l’esposizione relativa a Simone Cantarini del 2012, la Fondazione Cassa di Risparmio di Fano prosegue la sua linea di recupero della storia e del vissuto culturale che hanno caratterizzato la città di Fano lungo tutto il suo percorso storico, con picchi di assoluto rilievo. Ad arricchire la mostra concorre la redazione di un catalogo, edito dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Fano, nel quale saranno raccolti saggi e approfondimenti dei massimi esperti del settore. Per tutta la durata della mostra è stato inoltre predisposto un itinerario guidato alla scoperta delle opere del Seicento fanese

INFORMAZIONI UTILI

Titolo Mostra:

Guido Reni “La consegna delle chiavi” Un capolavoro ritorna

Si ringraziano per la gentile collaborazione:
il Museo del Louvre, i Musei Civici di Ascoli Piceno, la Pinacoteca Civica di Fano, la Diocesi di Fano Fossombrone Cagli Pergola

Sede espositiva: Fano, Pinacoteca San Domenico

Periodo di apertura: 15 giugno – 29 settembre 2013

Ingresso: gratuito

Data inaugurazione: sabato 15 giugno ore 18.00

Orari di apertura al pubblico:
Tutti i giorni escluso il lunedì dalle 18.00 alle 22.00

Informazioni per il pubblico:
Segreteria organizzativa della Fondazione Cassa di Risparmio di Fano
Tel 0721-802885

Comitato scientifico:
Maria Rosaria Valazzi, Andrea Emiliani, Daniele Benati, Franco Battistelli, Rodolfo Battistini, Giuseppina Boiani Tombari, Daniele Diotallevi, Claudio Giardini, Stefano Papetti

Comitato Promotore e Organizzatore
Soprintendenza per i Beni Artistici Storici ed Etnoantropologici delle Marche
Comune di Fano
Fondazione Cassa di Risparmio di Fano

Editore: Fondazione Cassa di Risparmio di Fano

Catalogo a cura di: Daniele Diotallevi con testi di: Maria Rosaria Valazzi, Andrea Emiliani, Daniele Benati, Rodolfo Battistini, Giuseppina Boiani Tombari, Claudio Giardini, Stefano Papetti, Stéphane Loire


ITINERARIO DEL SEICENTO FANESE

Basilica Cattedrale e Basilica di San Paterniano:
tutti i giorni esclusi i festivi dalle 10,00 alle 12,00 e dalle 16,00 alle 18,00

Chiesa di San Pietro in Valle: venerdì, sabato e festivi ore 18,00 - 20,00

Pinacoteca Civica: mar ore 9,00 - 13,00 e 17,00 - 20,00; gio e dom ore 17,00 - 20,00; sabato ore 9,00 - 13,00
dal 15 giugno al 29 settembre 2013

Le persone interessate all’Itinerario del Seicento fanese, illustrato da una guida, potranno prendere direttamente contatto con:
Cooperativa Comedia tel. 0721 830638 - email coopcomedia@libero.it
Guide turistiche della città 346 6701612 - email info@traduzioneweb.com
punto di ritrovo: Pinacoteca San Domenico in via Arco d’Augusto

L’ingresso è libero per tutte le sedi espositive

Agenzia di Comunicazione e ufficio stampa:



Culturalia di Norma Waltmann
Bologna - Vicolo Bolognetti 11
tel : +39-051-6569105
mob: +39-392-2527126
email: info@culturaliart.com
web: www.culturaliart.com

IL MONASTERO DI KARAJALOU

Il monastero di Karakalou (greco: Καρακάλλου) è uno dei venti monasteri della Santa Montagna Repubblica del Monte Athos. È situato a sud-est della penisola. Occupa l'undicesimo posto nella gerarchia dei monasteri atoniti. È dedicato ai santi apostoli Pietro e Paolo, festeggiati il 29 giugno (12 luglio). Il monastero è retto a regola cenobitica dal 1813 e nel 1990 contava trenta monaci. Venne costruito alla fine del X o all'inizio dell'XI secolo, da un monaco chiamato Nicola Karakalas, da cui prende il nome. Nel XIII secolo mostra un forte declino causato da continui attacchi di pirati e crociati. Alla fine di questo secolo si riprende con l'aiuto degli imperatori bizantini. Dal XVI al XVII secolo fu sostenuto dai principi moldavi e georgiani. Il katholikòn venne edificato tra il 1548 e il 1563. Nel complesso monastico sorgono cinque cappelle e custodiscono numerose reliquie di santi. La biblioteca conta 279 manoscritti e circa 2500 libri stampati.

Fonte: Wikipedia

IL MONASTERO DI DOCHIARIOU

Il monastero di Dochiariou (greca: Δοχειαρίου) è uno dei venti monasteri della Chiesa ortodossa oggi esistenti nella penisola del Monte Athos, in Grecia. È situato nella parte ovest della penisola. Occupa il decimo rango nella gerarchia dei monasteri della Santa Montagna, è retto a regola idiorritmica. È dedicato agli arcangeli Michele e Gabriele, festa votiva l'8 novembre (21 novembre nel calendario gregoriano).
Nel 1990 contava 32 monaci. Fu fondato nel X secolo o agli inizi dell'XI secolo da sant'Eutimio di Costantinopoli discepolo di sant'Atanasio. Fu parzialmente ricostruito nel XVI-XVII secolo. Il nome sembra far riferimento a dochiéris cantiniere in greco, che sembra essere stata l'attività del fondatore quanto viveva presso la Grande lavra. Il katholikòn di questo monastero è la più grande chiesa presente sulla penisola. Fu edificato nel 1567 e venne affrescato da Teofane di Creta. Nella chiesa è custodita l'icona della Madonna Gorgoepikoos, (che risponde prontamente). Nella biblioteca sono custoditi 545 manoscritti di cui 62 pergamene e circa 5 000 volumi stampati.

Fonte: Wikipedia

IL MONASTERO DI SANTA MARIA DE ALCOBACA

Il Monasteiro de Santa Maria de Alcobaça” è un antico monastero di origine medievale che si trova nell’omonima cittadina di Alcobaça ed è stato una delle più importanti, e dal più ampio significato, sedi cistercensi della penisola iberica nel Regno emergente del Portogallo.
Fondato da D. Afonso Henriques nel 1153, il monarca lo concesse a Bernardo di Chiaravalle attribuendo all'Ordine dei Cistercensi anche un territorio di circa 44.000 ettari. Le motivazioni di una donazione tanto consistente vanno cercate non secondariamente nell'importante ruolo politico di Bernardo di Chiaravalle, una delle figure più influenti dell'Europa del XII secolo. All'epoca infatti Alfonso I del Portogallo non era ancora stato riconosciuto da Roma come re e un tale gesto mirava a portare alla propria causa l'influenza di questo cruciale personaggio della Curia romana. Si può affermare quindi che l'indipendenza del Portogallo sia intrinsecamente legata alla realizzazione del Monastero di Alcobaça. La costituzione di questo vasto dominio consolidò definitivamente la posizione dei Cistercensi nella penisola iberica. L'opera di edificazione si è sviluppata e modificata lungo diversi secoli testimoniando i periodi d'oro della storia del Portogallo e mischiando molti stili diversi. Il progetto architettonico di base segue la filosofia di austerità e semplicità sostenuta da S. Bernardo con linee pulite e poche decorazioni, fatta salve qualche immagine mariana. La facciata esterna originale della chiesa è  barocca con un portone romanico mentre il perimetro esterno presenta la tipica merlatura medievale ma con torri risalenti al XVIII secolo.
I lavori iniziarono nel 1178 cominciando dalla Chiesa, che doveva diventare la più grande abbazia gotica in Portogallo, proseguendo in  parallelo con la costruzione delle ali monastiche. Nel XIII secolo furono edificate parte delle dipendenze medievali come la Sala Capitolare, il Dormitorio, la Refettorio e le Celle dei monaci. La Sala Capitolare del monastero era usata dai monaci per discutere di problemi quotidiani e particolari questioni o anche per leggere la “regola di San Benedetto”, alla base di tutti gli ordini monastici del tempo. Nel 1308, per ordine di D. Dinis, sorge il chiostro e, nel XIV secolo, vengono deposti nel Transetto della Chiesa le tombe di D. Pietro e D. Ines de Castro, unici esempi di sepolcri in scultura gotica esistenti nel Paese. Nel XVI e XVII secolo l'Ordine dei Cistercensi detiene un grande potere economico e intraprende una serie di lavori tra cui la Sagrestia Nuova, il Sobreclaustro, la Sala dei Re e il Palazzo Abbaziale.
Sulle ali nord e sud della chiesa si creano altre dipendenze e un quinto chiostro, chiamato Rachadouro, dove si trovavano le botteghe, l'archivio e la biblioteca. Questa conteneva numerosi libri trascritti dai monaci sulla storia del Portogallo nonché di argomento religioso ed era una delle più grandi del Portogallo. Nel XIX secolo, durante l’invasione francese, fu saccheggiata e molti libri rubati; ad oggi la biblioteca conta un centinaio di manoscritti medievali a cui si aggiungono dei testi conservati nella biblioteca di Lisbona. Nella seconda metà del XVII secolo il barocco raggiunge il suo apogeo estetico e artistico e la sua  testimonianza nel Monastero di Alcobaça é rappresentata dalla Cappella Santuario conosciuta come "O Espelho do Céu", lo specchio del cielo, e dal gruppo scultoreo "La morte di San Bernardo". Nella seconda metà del XVIII secolo fu costruita la Cappella do Desterro e la Cucina Nuova, entrambe completamente rivestite con piastrelle azulejos. A seguito dei danni causati dal terremoto del 1755 fu ricostruita anche la Sagrestia Nuova, precedentemente di stile manuelino. Per ultima,  nel 1770, fu eretta la Sala dos Túmulos in stile neogotico disegnata da William Eldson. Nel 1834 tutti gli ordini religiosi in Portogallo furono soppressi e le loro proprietà nazionalizzate. Da quel momento il monastero fu occupato, convertito e adattato a diverse funzioni pubbliche e private. La monumentalità, la bellezza e la locazione di questa abbazia portarono l'Unesco a classificarla Patrimonio Mondiale nel 1989. 

Abbazia 
Consacrata nel 1252 costituisce il primo esempio di gotico portoghese. Le sue grandi dimensioni e la notevole eleganza delle proporzioni fanno di questa abbazia una perfetta dicotomina pietra/luce. La pianta è a croce latina composta dalla navata centrale, divisa in tre e lunga 100 metri, e dal transetto dove sono collocate le tombe di D. Pietro e D. Ines de Castro. La costruzione, iniziata nel 1178, è stata avviata dalla testa (cappella principale) che è costituita da un ambulatorio con nove cappelle radiali di forma trapezoidale, collegate insieme e coperte da volte a botte. La forte verticalità dell'ambiente (oltre venti metri di altezza) gli conferisce una bellezza unica. Le pareti e le colonne della chiesa non hanno decorazioni mentre l'illuminazione è demandata a file di finestre lungo le navate a cui si aggiunge un rosone sulla facciata principale. L'illuminazione e i giochi di luce sono il vero spettacolo di questa chiesa la cui maestosità, proprio in ragione dell'essenzialitá delle sue forme, non può che emozionare.  Il transetto nord ha accesso diretto al Dormitorio dei monaci mentre, al vertice opposto sotto un grande rosone e due grandi finestre, vi è ancora la porta verso il Cimitero dei monaci, comunemente chiamata "Porta dei Morti". La Chiesa presenta inoltre un bellissimo Pantheon Reale ricostruito nel XVIII secolo in stile neogotico dopo che il terremoto del 1755 distrusse quello originale. Nel Pantheon si trovano le tombe dalla regina Urraca di Castiglia moglie di Alfonso II e della regina Beatrice di Castiglia moglie di Alfonso III.  

Túmulo de D. Pedro 

Ragioni di Stato obbligarono D. Pedro, figlio ed erede di D. Alfonso IV, a sposarsi con D. Costança, Infanta de Castela. D. Pedro si innamorò di D. Ines de Castro, dama di compagnia della moglie. Alla morte di questa D. Pedro andò a vivere con D. Ines a Coimbra. D. Alfonso IV, giudicando pericolosa la famiglia di lei, mandò quattro sicari ad ucciderla il 7 gennaio del 1355. Dopo la morte del padre D.Pedro si vendicò degli assassini facendo loro strappare il cuore. La leggenda dice che fece riesumare il corpo dell'amata, affermando di averla sposata, la fece incoronare e obbligò tutta la corte a inginocchiarsi davanti a lei e baciarle la mano. La decorazione della tomba di D. Pietro I è prevalentemente composta da edicole gotiche contenenti momenti della vita di San Bartolomeo. Nella parte anteriore si trova l'elemento più emblematico: un rosone che comprende diciotto edicole disposte in due fasce circolari concentriche dove viene rappresentata la Ruota della Vita (esterno) e la Ruota della Fortuna (all'interno). Verso l'alto, da sinistra a destra, sono raffigurati i momenti felici, mentre quelli tragici vanno dall'alto  verso il basso. Al punto dove D. Pedro è rappresentato avvolto nella sua tomba si contrappone l'immagine opposta del re sul trono. In verticale si può leggere la frase "A (qui) é o Fim do Mu(ndo)", qui è la fine del mondo. D. Pedro insistette che la sua statua fosse voltata verso D. Ines, in modo che la prima cosa che avesse visto il giorno del Giudizio Universale fosse la sua amata. 

Túmulo de D. Inês 
La tomba di Inês de Castro  si poggia su sei supporti raffiguranti ibridi di volti umani e corpi di animali. Le edicole lati sono completamente riempite con scene del Nuovo Testamento che terminano nel lato di facciata con la raffigurazione del Calvario. Al lato opposto, a fronte dei piedi, è rappresentato il Giorno del Giudizio.






Claustro de D. Dinis 
Centro nevralgico di tutta l'Abbazia, accesso obbligatorio per tutte le dipendenze, è stato anche il luogo di lettura e meditazione per eccellenza. Viene chiamato infatti anche “Chiostro del Silenzio” ed èuno dei più grandi di tutta l’Europa; le colonne che lo circondano sono decorate con capitelli con motivi animali e vegetali ad opera degli architetti portoghesi Domingo Domingues e Maestro Diogo. Al suo centro si trova una fontana rinascimentale dove compaiono stemmi e grifoni. Questo chiostro è l'unico medievale del Monastero di Alcobaça e fu costruito durante il regno di D. Dinis, presumibilmente tra il 1308 e il 1311, rimanendo uno dei più begli esempi di gotico portoghese. Più tardi, durante il regno di Manuel I (1495-1521) per ordine dell'abate D. Jorge de Melo, gli è stato aggiunto un piano superiore (Sobreclaustro). Tutto il soffitto è a volta, con archi a schiena perfetta e ogivali.  Interessante vedere come le volte accompagnino l'asimmetria della costruzione, essendo questa irregolare, soprattutto a ovest. 
A risaltare l'evoluzione della costruzione nel tempo si possono distinguere alcuni elementi arcaici affiancati ad altri databili al XIV secolo. Su un lato del chiostro si affaccia anche la bellissima “Sala Dos Reis”, sala dove sono conservate le statue dei reali di Portogallo e che ha la caratteristica di essere quasi completamente coperta di azulejos del XVIII secolo raffiguranti scene che ricordano la fondazione del monastero. 


Capela Relicário (Cappella Santuario) 
Integrata nella Sagrestia Nuova e situata sulla sua cima, questa Cappella di suprema bellezza e spiritualità, "Lo specchio del cielo" secondo Reynaldo dos Santos, fu costruita tra il 1669-1672. La sua pianta è ottagonale e l'interno è interamente rivestito di una foglia dorata. Riceve luce da un lucernario nel soffitto che accentua ulteriormente l'atmosfera particolare dell'ambiente. Il polittico barocco dorato e policromo ospita 89 sculture e reliquie raccolte in nicchie che si sviluppano su sei livelli. Al centro si trova la Vergine, figura centrale di tutta l'iconografia cistercense, mentre alla sua destra è stata collocata la figura di S. Benedetto e la sua sinistra per S. Bernardo. 




Cucine 
La cucina medievale era situata ad ovest del Refettorio, adiacente a questo come garanzia di funzionalità. Fu distrutta nel XVII secolo durante la costruzione del Chiostro D. Alfonso VI, e si conserva solo la traccia della porta romanica di accesso. La cucina attuale, situata tra il Refettorio e la Sala dei Monaci, dispone al centro di un grande camino rivestito con piastrelle come tutte le pareti interne e, sullo sfondo, si trova una vasca con acqua (Levada) destinata a vari tipi di lavaggi. Inoltre l’ingegno cistercense aveva creato un canale che trasportava l'acqua, e persino il pesce fresco, dal fiume Alcoa direttamente in cucina. 

Refettorio 
Situato accanto alla cucina esistente il Refettorio è una sala imponente, sia per la dimensione che per la complessità architettonica e cura strutturale. L'interno è costituito da tre navate a volta, divise da due file di quattro colonne che danno armonia e unità all'intero spazio. Si evidenzia in particolare l'elegante Púlpito do Leitor, che si trova ad ovest, dove un monaco ogni giorno era incaricato della lettura religiosa durante i pasti. L'accesso a questo pulpito è tramite una piccola scala. Ci sono altri due passaggi: uno conduce direttamente alla vecchia cucina medievale ormai scomparsa, e l'altro al cortile. 

Articolo ed immagini di Isabel Giustiniani. Tutti i diritti riservati.








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