Prologo al Racconto della Seconda Monaca.
Quella ministra e nutrice di vizi, comunemente detta pigrizia, che sta di guardia alla porta dei piaceri, dovremmo sempre proporci d'evitarla, opponendo ad essa la sua rivale, vale a dire l'operosità onesta, cosicché il demonio non ci sorprenda mai a far nulla. Egli infatti, con le mille corde della sua astuzia, aspetta sempre d'accalappiarci e, appena scorge qualcuno in ozio, sa prenderlo così abilmente al laccio, che, finché proprio non si sente trascinar via, quello non s'accorge neppure d'essere in mano dello spirito maligno: ecco perché dovremmo sempre lavorare ed evitar di rimanere in ozio. E se anche non abbiamo mai paura di morire, bisogna che almeno con la ragione comprendiamo che la pigrizia è marcia ignavia, da cui non deriva mai alcun bene o vantaggio, essendo da lei portati soltanto a dormire, a mangiare e a bere, a divorare insomma tutto ciò per cui altra gente s'affatica. Ed è appunto per sfuggire a tale pigrizia, causa di tanti mali, che qui mi sono industriata di seguire fedelmente la tua leggenda, narrando la tua gloriosa vita e la tua passione, di te che ormai porti la tua ghirlanda di rose e gigli, di te, dico, vergine e martire, Santa Cecilia.
INVOCACIO AD MARIAM.
E tu che di tutte le vergini sei il fiore, di cui Bernardo seppe scrivere tanto bene, a te innanzi tutto mi rivolgo: conforto degl'infelici, fa' ch'io possa illustrare la morte della tua devota, che ottenne per i suoi meriti la vita eterna e la vittoria sul demonio, come chiunque può vedere seguendo la sua storia. Tu Vergine e Madre, figlia del tuo Figlio, tu fonte di misericordia, rimedio delle anime peccatrici, in cui Dio per sua bontà scelse d'abitare, tu umile eppure più alta di ogni creatura, tu la nostra natura nobilitasti tanto, che il suo Fattore non sdegnò d'avvolgere e vestire di sangue e carne il suo Figliolo.
Dentro il beato chiostro dei tuoi fianchi prese forma d'uomo l'eterno amore e pace, che del compasso trino è signore e guida, cui terra e mare e cielo adorano sempre senza tregua; e tu, Vergine immacolata, portasti nel tuo seno (pur rimanendo intatta e pura) il Creatore d'ogni creatura. In te magnificenza s'aduna con bontà, misericordia, e con tale pietà, che tu, astro d'ogni perfezione, non soltanto aiuti coloro che ti pregano, ma spesso per tua benevolenza, liberamente, prima ancora che gli uomini t'invochino in loro aiuto, tu li precorri e sei medicina alle loro vite. Ora tu, mite e bella Vergine beata, soccorri me, esiliata, misera, in questo deserto di fiele; pensa alla donna di Cana, la quale disse che ai cagnolini bastano anche soltanto le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni, e quantunque io, indegna figlia d'Eva, sia peccatrice, pure accetta la mia fede. Ma poiché la fede è morta senza le opere, concedimi capacità e tempo di poter anche operare, in modo ch'io possa salvarmi dall'oscurità più tetra. O tu che sei così bella e piena di grazia, sii mia avvocata in quell'alto luogo dove senza fine si canta Osanna, tu madre di Cristo, diletta figlia di Anna! E illumina con la tua luce la mia anima in prigione, oppressa dal contagio del mio corpo e dal peso di terreni desideri e affetti falsi; o porto di rifugio, o salvezza di chi è nel dolore e nella miseria, aiutami, ora che sto per mettermi all'opera... E voi che leggete quanto scrivo, perdonatemi, vi prego, se non ho cura d'abbellire con acume questa storia, giacché mantengo le parole e il senso di colui (4) che questa storia scrisse in omaggio di quella santa, e ne seguo la leggenda... e vi prego che pur vogliate emendare l'opera mia! "Interpretacio nominis Cecilie quam ponit
Frater Jacobus Januensis in Legenda".
Ma permettete che prima vi spieghi i diversi significati del nome di Santa Cecilia, così come si possono ricavare dalla sua storia. Esso equivale nella nostra lingua a «giglio del cielo», per indicare la casta purezza della sua verginità: «giglio» per il candore della sua onestà, la verde freschezza della sua coscienza e il dolce profumo della sua fama. Cecilia può anche voler dire «guida dei ciechi», per il buon esempio del suo insegnamento. Altrimenti così com'è scritto, Cecilia si compone mediante la congiunzione di «cielo» e «Lia», dove cielo sta figurativamente per contemplazione di santità, mentre Lia rappresenta la vita attiva. Cecilia può significare anche «colei che manca di cecità», per la gran luce della sua sapienza e per le sue radiose virtù; oppure, ecco, il luminoso nome di questa fanciulla deriva da «cielo» e «leos», e perciò a buon diritto la si potrebbe chiamare «cielo delle genti», esempio a tutti d'opere sagge e buone: «leos», infatti, equivale a «popolo» nella nostra lingua; e come in cielo si possono vedere il sole, la luna e stelle da ogni parte, così in questa virtuosa vergine si possono spiritualmente scorgere magnanimità di fede, perfetta chiarezza di sapienza ed altre doti per eccellenza radiose; e appunto come i filosofi descrivono il cielo svelto e tondo e bruciante, così la bella e candida Cecilia sempre fu svelta e attiva nelle opere buone, conchiusa ed integra nella sua perseveranza, e sempre ardente di luminosa carità. Eccovi così spiegato il senso del suo nome.
EXPLICIT
RACCONTO DELLA SECONDA MONACA
Qui comincia il Racconto della Seconda Monaca sulla vita di Santa Cecilia.
Questa radiosa vergine Cecilia (così narra la leggenda) era d'origine romana e di nobile stirpe, e venne cresciuta fin dalla culla nella fede di Cristo, di cui tenne sempre a mente il vangelo. Sta scritto che non cessò mai, nelle sue preghiere, d'amare e temere Iddio, supplicandolo di proteggere la sua verginità. Quando poi dovette andare sposa (a un uomo assai giovane di nome Valeriano), e ormai s'avvicinava il giorno delle nozze, questa fanciulla, devotissima e umile nel suo animo, sotto la veste d'oro che le stava tanto bene, indossò un'ispida camicia, proprio sulla pelle. E mentre l'organo intonava melodie, lei in cuor suo a Dio soltanto così cantava: «Guida, o Signore, la mia anima e il mio corpo senza macchia, e fa' ch'io non resti mai confusa...». E per amore di Colui che morì in croce, ogni secondo e terzo giorno digiunava, sempre assorta nelle sue orazioni. Giunse così la notte in cui dovette, come d'uso, andare a letto con suo marito. Rimasti soli, lei subito gli disse: «O dolce e beneamato sposo diletto, sentite: c'è un segreto che avrei gran desiderio di rivelarvi, purché voi giurate di non tradirmi».
Valeriano prontamente le giurò che mai l'avrebbe tradita a nessun costo, qualunque cosa fosse accaduta; e lei allora gli disse senza indugio: «Ho un angelo che mi vuol bene e che, con grande amore, sia ch'io vegli o dorma, è sempre pronto a guardia del mio corpo. Se per caso soltanto s'accorgesse che mi toccate o m'amate impuramente, subito sull'atto vi ucciderebbe e, pur giovane come siete, vi farebbe morire. Ma se nel vostro amore vi manterrete casto, allora amerà anche voi come ama me, appunto per la vostra castità, e vi rivelerà la sua gioia e il suo splendore».
Valeriano, correttamente come Dio voleva, le rispose: «Se proprio devo crederti, fa' che quest'angelo io possa vederlo e guardarlo: se veramente si tratterà d'un angelo, allora io farò come tu appunto m'hai pregato; ma se tu ami un altro uomo, t'assicuro che con questa mia spada tutt'e due vi ucciderò».
Cecilia allora gli disse: «Volendo, l'angelo potete vederlo, purché prima abbiate fede in Cristo e vi battezziate». Poi aggiunse: «Andate sulla via Appia, appena tre miglia fuori città, e ai poveri che vi abitano riferite quanto sto per dirvi... Dite che vi ho mandato io, Cecilia, perché vi mostrino il vecchio buon Urbano per certe vostre segrete necessità e buone intenzioni. E quando avrete visto Sant'Urbano, ripetetegli le parole che v'ho detto: com'egli vi avrà assolto dal peccato, voi allora, ancora prima di tornare, vedrete l'angelo!».
Valeriano si recò in quel luogo e, secondo quanto gli era stato indicato, trovò il pio vecchio Urbano che s'aggirava fra le tombe dei santi; e subito, senza perder tempo, gli fece la sua ambasciata. Ciò udito, Urbano sollevò con gioia le mani al cielo e, lasciando che gli cadessero le lacrime dagli occhi, disse: «Signore Onnipotente, Gesù Cristo, spargitore di casti consigli, pastore nostro, accogli il frutto di quel seme di castità che in Cecilia hai seminato! Guarda, come un'ape operosa t'obbedisce sempre senza sosta la tua fedele Cecilia: ha appena sposato un uomo fiero come un leone, ed ecco che a te lo manda mite come un agnello!».
A quelle parole apparve improvvisamente un vecchio, avvolto in bianche vesti luminose, il quale, tenendo in mano un libro a lettere d'oro, si fermò davanti a Valeriano.
Appena lo vide, Valeriano per il terrore cadde a terra come morto. L'altro lo sollevò e prese a leggere così dal libro: «Un Signore, una fede, un unico Dio; un Cristianesimo e un Padre comune, al di sopra di tutto e di tutti ovunque...». Ed erano parole scritte a caratteri d'oro.
Quand'ebbe letto, il vecchio disse: «Credi o non credi in ciò? Rispondi».
«Vi credo fermamente» disse Valeriano «perché cosa più vera di questa son certo che nessuno sotto il cielo potrà mai concepire.»
Il vecchio allora scomparve, senza che alcuno s'accorgesse dove, e papa Urbano battezzò in quel momento Valeriano.
Tornato a casa, costui in camera sua trovò Cecilia che stava con un angelo. Quest'angelo aveva due corone di rose e gigli, che teneva in mano; la prima la diede a Cecilia, e consegnò poi l'altra allo sposo, Valeriano, dicendo: «Conservate queste corone sempre in castità di corpo e purezza d'animo. Credetemi, le porto a voi dal paradiso: esse non appassiranno e non perderanno mai il loro profumo; nessuno, però, riuscirà mai a vederle coi propri occhi, a meno che non sia casto e non detesti il male... Ed ora tu, Valeriano, che ti sei mostrato così pronto a seguire il buon consiglio, chiedi ciò che vuoi, e qualsiasi tuo desiderio verrà soddisfatto»,
«Ho un fratello» disse allora Valeriano «ch'io amo più di chiunque al mondo: vi prego, fate che anch'egli possa avere la grazia di conoscere il vero, com'io lo conosco.»
Disse l'angelo: «A Dio piace la tua richiesta, e voi verrete tutt'e due con la palma del martirio al suo banchetto di beatitudine...».
A queste parole sopraggiunse Tiburzio, il fratello. Sentendo il profumo ch'emanavano le rose e i gigli, fra sé assai meravigliato, disse: «Chissà, in questa stagione dell'anno, da dove viene quel dolce profumo di rose e gigli che qui sento... Neanche se li avessi fra le mani, il loro profumo potrebbe essere più penetrante; è un profumo dolce che m'arriva al cuore, ed io mi sento completamente mutato...».
Valeriano disse: «Siamo noi che abbiamo due corone, bianche come la neve e rosse come le rose, ma così risplendenti, che i tuoi occhi non riescono a vederle... Tuttavia, come ora per merito delle mie preghiere ne senti il profumo, così potrai vederle, amato fratello caro, purché tu voglia, senza indugio, credere il giusto e conoscere il vero».
Tiburzio rispose: «Sei tu che veramente dici questo, o son io che sto sognando?».
«Fra i sogni» disse Valeriano «siamo certo rimasti finora, fratello mio. Ma per la prima volta adesso siamo nel vero!»
«Come lo sai?» chiese Tiburzio «in che modo?»
Rispose Valeriano: «Ecco ti spiego. E' l'angelo di Dio che m'ha insegnato il vero... Anche tu potrai vederlo, se rinnegherai gl'idoli e sarai puro, no altrimenti ...».
(Anche Sant'Ambrogio si compiace di parlare nel suo prefazio del miracolo delle due corone e, celebrandolo solennemente, questo nobile dottore caro dice: «Per ricevere la palma del martirio, Santa Cecilia, colma della grazia di Dio, abbandonò il mondo e il proprio talamo, onde poi si convertirono Tiburzio e Valeriano, ai quali Iddio per sua bontà volle donare due corone di fragranti fiori, e mandò un suo angelo a portarle loro. Quella vergine guidò così quegli uomini alla beatitudine del cielo, mostrando al mondo quanto sia degno amare con devozione la castità».)
Fu dunque Cecilia che dimostrò chiaro e tondo a Tiburzio come tutti gl'idoli, essendo cosa vana, fossero anche muti e sordi, e lo pregò di non curarsene.
«Chiunque questo non comprenda» fece Tiburzio «bestia non può che essere, non mento...»
Ciò sentendo, lei lo baciò sul petto e fu lietissima ch'egli finalmente riuscisse a distinguere il vero: «Ecco, io ti prendo per mio alleato» disse quella beata e bella vergine cara, e proseguì: «...Ti prendo per mio alleato, perché hai voluto rinnegare gl'idoli, e ti accolgo nello stesso amore di Cristo che m'ha fatto sposa di tuo fratello. Va' con lui ora, a battezzarti e a purificarti, così da poter vedere in volto l'angelo di cui egli ti parlava».
Tiburzio in risposta disse: «Fratello caro, presto spiegami: dove e da chi debbo andare?».
«Da chi?» fece l'altro «vieni con me e non preoccuparti: ti condurrò io stesso da papa Urbano.» «Da Urbano? Fratello mio, Valeriano» disse allora Tiburzio «là mi vuoi condurre? L'impresa mi sembrerebbe pericolosa... Non vuoi forse dire quell'Urbano che tanto spesso è stato condannato a morte e che s'aggira sempre di qua e di là per nascondigli, senza poter mai mettere fuori il capo? C'è chi lo darebbe alle fiamme, se lo trovasse e riuscisse a prenderlo, e lo stesso accadrebbe a noi in sua compagnia... E così mentre ancora stiamo cercando quella divinità che sta nascosta in cielo, arsi saremmo qui su questa terra!»
Al che Cecilia arditamente rispose: «Ben si dovrebbe a ragione aver paura di perdere questa vita, fratello mio caro, se questa fosse l'unica e non ve ne fosse altra. Ma c'è altrove vita assai migliore che mai verrà perduta, non temere. Ce lo disse, per sua grazia, il Figlio di Dio, il Figlio del Padre creatore d'ogni cosa, dal quale procede lo Spirito che a tutte le creature capaci di pensare ha dato un'anima... E non solo con la parola ma anche coi miracoli, quand'era su questa terra, il Figlio di Dio proclamò ch'esiste un altro luogo in cui si continua a vivere ...».
Al che Tiburzio replicò: «Ma, cara sorella, non hai appena terminato di dire ch'esiste un solo Dio, nostro vero signore? Come puoi dunque affermare che ve ne siano tre?».
«Ti spiego» fece lei «e subito. Se vi sono in un uomo tre forme d'intelligenza - memoria, ingegno e intelletto - ben possono esistere in un solo essere divino tre persone ...» E prese a parlargli con fervore della venuta di Cristo, descrivendogli le sue sofferenze e spiegandogli diversi punti della sua passione; come il Figlio di Dio fosse venuto al mondo per concedere piena remissione al genere umano, avvinto dal peccato e da agghiaccianti colpe... tutto insomma spiegò a Tiburzio.
Dopo di che, accompagnato da Valeriano, Tiburzio si recò di buon animo da papa Urbano, il quale, col cuore colmo di contentezza, rendendo grazie a Dio, lo battezzò e, perfezionandolo nella sua dottrina, lo nominò cavaliere di Dio. Da allora Tiburzio ebbe la grazia di vedere ogni giorno, a suo tempo e luogo, l'angelo del Signore, e qualunque preghiera rivolgesse a Dio, immediatamente veniva esaudita...
Sarebbe assai difficile dire con ordine quanti miracoli Gesù compisse per mezzo di quei due fratelli; ma alla fine, per farla breve, ricercati dagli ufficiali della città di Roma, essi vennero condotti davanti al prefetto, Almachio, il quale li interrogò e, conosciuto il loro animo, ordinò che fossero portati al simulacro di Giove, dicendo: «A chi non vorrà offrire sacrificio, verrà tagliata la testa: è un ordine!».
Votati ormai al martirio, quei due santi vennero affidati a un certo Massimo, ufficiale del prefetto e suo aiutante, il quale conducendoli via, pianse di pietà per loro. Quando poi seppe della loro pia dottrina, ottenuto il permesso dai giustizieri, Massimo li fece senz'altro entrare in casa sua, ed essi, predicando, riuscirono, prima ancora che fosse sera, a estirpare la falsa fede dai giustizieri stessi, oltre che da Massimo e da ciascuno della sua famiglia, convincendo tutti a credere soltanto in Dio. Quando fu notte, venne Cecilia coi sacerdoti, i quali battezzarono tutti quanti; poi, mentre ormai si faceva giorno, Cecilia, con espressione molto calma, disse:
«Ora, cari e diletti cavalieri di Cristo, scagliate via tutte le opere della tenebra e armatevi con le armi della luce. In verità avete vinto una grande battaglia: il vostro corso è compiuto, la vostra fede è salva. Andate a quella corona di vita che non può mai venir meno: il retto Giudice, che avete servito, ve la concederà, poiché l'avete ben meritata».
Dopo di che, essi, come vi dicevo, vennero condotti a compiere sacrificio. Ma (per passare in breve alla conclusione) giunti sul posto, si rifiutarono di offrire incenso o altro, e così, mentre in ginocchio erano umilmente assorti nelle loro devozioni, vennero ambedue decapitati. Le loro anime salirono al Re della grazia. E Massimo, ch'era presente al fatto, lo testimoniò piangendo pietosamente, d'aver veduto le loro anime salire al cielo fra gli angeli, colme di splendore e di luce, e convertì molti con la sua parola; e perciò Almachio lo fece percuotere con una frusta di piombo finché rimase senza vita. Cecilia allora di nascosto lo prese e lo seppellì accanto a Tiburzio e Valeriano, sotto la stessa pietra del loro sepolcro; dopo di che, Almachio ordinò in gran fretta ai suoi ministri di portare Cecilia innanzi a lui, affinché, apertamente in sua presenza, facesse sacrificio offrendo incenso a Giove. Essi, invece, da lei convertiti alla sua saggia dottrina, piansero amaramente e prestarono tutti fede alle sue parole, affermando con voce sempre più sicura: «Cristo, Figlio di Dio, è Dio egli stesso senz'alcuna differenza: non può essere altrimenti, se così buona serva ha per servirlo. Questa è la nostra fede e per essa siamo anche pronti a morire!».
Almachio, avuto di ciò notizia, mandò a prendere Cecilia direttamente, per poterla ormai vedere, ed ecco come incominciò a interrogarla:
«Che razza di donna sei?» le chiese.
«Una donna di nobile famiglia» rispose lei.
«Ma io intendevo di che religione e di che fede» disse lui «anche se ciò può farti dispiacere.»
«Male dunque avete incominciato a interrogare» disse lei «se a una domanda pretendete illogicamente due risposte.»
Al che Almachio, seccato, rispose: «Da dove viene questa tua tracotanza?»
«Da dove?» fece lei a quella domanda «da coscienza e da sincera buona fede!»
Almachio disse: «Non tieni dunque alcun conto del mio potere?».
Ed ella gli rispose: «Ben poco è da temere il tuo potere, perché, come quello d'ogni mortale, non è altro che come una vescica piena di vento: basta una punta d'ago, quando è gonfio, per svuotarlo di ogni boria».
«Sei tu che molto male hai cominciato» disse lui «e nel male continui con ostinazione. Non sai che i nostri potenti e generosi prìncipi han comandato e dato ordine che ogni cristiano venga sottoposto a pena, a meno che non sconfessi la sua fede, e sia liberato soltanto se la rinneghi?»
«Sbagliano i vostri prìncipi e tutto il vostro nobilume» disse allora Cecilia «e voi che con pazza sentenza ci dichiarate colpevoli, mentre ciò non è vero. Voi infatti, pur sapendo che noi siamo innocenti, c'incriminate e accusate, soltanto perché onoriamo Cristo e portiamo il nome di cristiani. Ma quel nome per noi è virtuoso, e non potremo mai rinnegarlo!»
Almachio rispose: «Ebbene scegli: o celebri il sacrificio o rinneghi il cristianesimo; non ti rimane altra via d'uscita».
Al che sorridendo, quella santa beata vergine bella disse al giudice: «O giudice, confuso nella tua stessa sottigliezza, vorresti che, rinnegando la mia innocenza, io diventassi colpevole veramente? Ecco che assurdità egli sostiene qui in udienza, e come in essa s'ostina e impazzisce!».
Al che Almachio: «Insulsa miserabile, sai fin dove può arrivare la mia potenza? Non ricordi che i nostri potenti prìncipi mi hanno dato autorità e potere di vita e di morte sulla gente? Come dunque osi parlarmi con tanta superbia?».
«Parlo solo con fermezza» disse lei «non con superbia; ti dirò anzi che per noi la superbia è un peccato mortale che aborriamo. Se poi non temi d'ascoltare una verità, voglio chiaramente dimostrarti che qui hai commesso un gravissimo errore. Tu dici che i tuoi prìncipi t'hanno concesso potere di vita e di morte sulla gente: ma tu non hai altro potere o autorità che di privarla della vita, e perciò puoi soltanto dire che i tuoi prìncipi t'hanno fatto ministro di morte. Se parli d'altro, menti e ti spogli completamente del tuo potere.»
«Smettila con la tua sfrontatezza» disse allora Almachio «e offri sacrificio ai nostri dèi prima d'andartene! Non contano le offese che rechi a me, perché da filosofo posso anche compatirle; ma non tollero le ingiurie che tu pronunci contro i nostri dèi!»
Cecilia rispose: «O creatura sciocca, non hai ancora detto una parola da quando mi parli, che non abbia messo in mostra la tua dabbenaggine e quanto tu sia completamente inetto come ufficiale e vano come giudice! Ai tuoi occhi in apparenza non manca nulla, ma tu sei cieco: ciò che noi tutti vediamo esser pietra (chiunque può constatarlo!), tu quella pietra la chiami dio. Ti prego, posavi sopra una mano e toccala bene: t'accorgerai che è pietra, anche se con gli occhi non riesci a vederla. E' ignobile che la gente debba disprezzarti e ridere della tua follia; perché ormai lo sanno tutti che Dio onnipotente sta nei cieli, mentre, come vedi, questi simulacri non servono né a sé, né agli altri, e non valgono veramente nulla».
Questo ed altro gli disse, tanto che alla fine, infuriato, egli ordinò che fosse condotta a casa. «E a casa sua» disse «mettetela in un bagno e datela alle fiamme.»
Detto fatto: Cecilia venne rinchiusa in un bagno, sotto il quale e venne acceso un gran fuoco notte e giorno. E per tutta una lunga notte e un giorno, lei rimase fresca a sedere senza provare alcuna pena, senza neppure versare una stilla di sudore. Ma ormai in quel bagno doveva lasciarvi la vita: Almachio infatti, malvagiamente, vi mandò un suo messo a trucidarla. Tre colpi le vibrò quel carnefice, senza tuttavia riuscire a spezzarle il collo; e siccome allora era in vigore un'ordinanza per cui nessuno poteva infliggere per punizione un quarto colpo, forte o debole che fosse, quel carnefice non poté far altro che andarsene, abbandonandola mezza morta, col collo straziato. I cristiani che le stavano intorno, le stagnarono con panni puliti il sangue. E lei visse per tre giorni in quel supplizio, senza mai cessare di predicare, proclamando la fede che in sé aveva nutrito. Lasciò loro i suoi beni e i suoi averi e, raccomandando tutti a papa Urbano, disse: «L'ho chiesto al Re del cielo di darmi tregua per almeno tre giorni, per poter, prima d'andare, raccomandarvi d'aver cura di queste anime e di trasformare questa mia casa in una perenne chiesa».
Sant'Urbano, coi suoi decani, prese di nascosto la salma e di notte la seppellì onoratamente fra gli altri santi. La casa si chiamò da allora Chiesa di Santa Cecilia: Sant'Urbano la consacrò adornandola meglio che poté, e ancor oggi vi si vive nobilmente al servizio di Cristo e della sua santa.
Qui termina il Racconto della Seconda Monaca.
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