Prologo al Racconto del Garzone del Canonico.
Terminata che fu la storia di Santa Cecilia, non avevamo neppure fatto cinque miglia, quando presso Boughton-under-Blean ci raggiunse un tipo che indossava abiti neri. Sotto cui spuntava una tonaca bianca. Il suo ronzino, d'un grigio tutto pomellato, sudava ch'era un incanto; tre buone miglia doveva aver galoppato... Il cavallo poi che montava il suo Garzone era così sudato, che quasi non riusciva a tirare avanti; e la bava gli arrivava alta fin sul pettorale, tutto picchiettato come quello d'una gazza.
Con una sacca piegata in due sulla groppiera, pareva che di roba n'avesse ben poca da portare, quello strano tipo, che pure era vestito di leggero per l'estate... Cominciai fra me a chiedermi chi mai potesse essere, finché poi mi accorsi che aveva il mantello cucito a cappuccio, e perciò, dopo essermi un po' fra me consigliato, decisi che doveva essere qualche canonico. Il cappello gli ciondolava da una cordella dietro la schiena, perché, più che di rotto o al passo, era venuto spronando come un matto. Aveva sotto il cappuccio una foglia di lappa per trattenere il sudore e per ripararsi la testa dal caldo, ma continuava a sudare ch'era una bellezza: la fronte gli gocciolava come un alambicco riboccante di piantaggine e petacciuola.
Appena arrivò, si mise a gridare: «Dio salvi» disse «questa lieta brigata! Ho spronato forte» disse «tutto per amor vostro, perché volevo raggiungervi e cavalcare allegramente in vostra compagnia».
Il suo Garzone, anch'egli pieno di complimenti, fece: «Ecco, messeri, stamattina vi ho visto partire dalla locanda, e allora ho avvertito qui il mio signor padrone che sarebbe stato molto bello svagarsi cavalcando insieme a voi; lui ama stare a crocchio».
«Amico, Dio ti mandi buona fortuna per quel tuo avvertimento!» disse allora il nostro Oste. «Certo dev'essere una persona saggia il tuo padrone, almeno così io penso. E dev'essere un gran burlone, ci scommetto! Saprebbe narrarci uno o due bei racconti in modo da tenere allegra la compagnia?»
«Chi, messere, il mio padrone? Sì, sì, senz'altro! Non ne ha mai abbastanza di scherzi e di sollazzi. Eppure, messere, se lo conosceste come lo conosco io, sareste sbalordito da come egli sappia anche lavorar bene e seriamente, e quante cose egli sappia fare! S'è sobbarcato certe imprese, che nessuno dei presenti riuscirebbe mai a portare a termine, senza la sua dottrina. Per quanto ora lo vediate cavalcare familiarmente in mezzo a voi, se veramente lo conosceste, ne andreste orgogliosi: non scambiereste la sua amicizia per una fortuna, ci scommetto tutto quello che posseggo. E poi è un uomo di gran discrezione; insomma, una persona sorprendente.»
«Bene, bene» disse il nostro Oste «ma ti prego, dimmi: è o non è un chierico? Spiegami che cosa fa.»
«Ah, è molto di più d'un chierico!» disse il Garzone. «In poche parole, Oste, ecco, tanto per darvi un'idea della sua arte, vi dico che il mio padrone è d'una così sottile abilità (ma non è che da me possiate saper tutto sulla sua arte, pur se un po' l'aiuto nel suo lavoro), che tutta questa strada su cui stiamo cavalcando, fino alla città di Canterbury, lui potrebbe comodamente rivoltarla sottosopra e lastricarla tutta d'argento e d'oro!»
A queste affermazioni del Garzone, il nostro Oste fece: «"Benedicite!" La cosa mi sembra molto strana, perché il tuo padrone, così valente e perciò degno d'essere da tutti riverito, non tiene gran che al proprio decoro. Mi venga un po' di bene, ma ha una sopravveste che non vale un fico, per uno come lui! E' tutta lercia e sfilacciata... Perché è così disordinato il tuo padrone, dimmi ti prego, quando, stando ai tuoi discorsi sul suo lavoro, avrebbe la possibilità di comprarsi roba assai migliore? Questo spiegami, te ne supplico».
«Perché?» fece il Garzone «ancora me lo chiedete? Ma perché, m'aiuti Iddio, non s'accontenta mai! (Non vorrei però che si spargesse quanto dico, e perciò, vi prego, tenetevelo per voi...) Insomma, egli, secondo me, è troppo bravo. E il troppo stroppia, come dicono i sapienti; diventa un vizio. In questo perciò io lo considero ignorante e balordo. Quando infatti un uomo ha troppo cervello, gli capita spesso d'usarlo male: questo è quello che fa il mio padrone, e a me dispiace molto. Dio vi provveda! Non so che altro dire ...» «Non crucciarti, buon Garzone,» disse il nostro Oste «e invece, dato che tu conosci le astuzie del tuo padrone, raccontaci come fa, te ne prego di cuore, a esser tanto abile ed esperto. E, se è lecito, dov'è che abitate?»
«Nei sobborghi d'una città» rispose l'altro «appostati agli angoli e nei vicoli ciechi, dove vanno abitualmente a rintanarsi i briganti e i ladri, tutta gente che non ha il coraggio di farsi vedere. E lo stesso, a dire il vero, succede anche a noi.»
«Però insomma» fece il nostro Oste «permetti ancora che te lo chieda, perché hai una faccia così scolorita?»
«Per San Pietro!» rispose l'altro. «Dio mi mandi un accidente, ma sono sempre così preso a soffiare nel fuoco, che per forza non devo avere più colore! Non sono abituato a guardarmi allo specchio, ma a sgobbar sodo per imparare a moltiplicare l'oro... Non facciamo che buttare roba al fuoco, e tuttavia non riusciamo nel nostro intento e non arriviamo mai ad alcuna conclusione. Illudiamo parecchia gente, dalla quale prendiamo denaro a prestito, ora una sterlina o due, ora dieci o dodici, a volte anche di più, facendo credere, o almeno sperare, che d'ogni sterlina potremmo farne due. Tutto ciò naturalmente è falso, ma abbiamo sempre qualche speranza di riuscita e continuiamo a fare esperimenti. La scienza, però, ci passa sempre avanti e, per quanti scongiuri facciamo, non riusciamo mai a raggiungerla: corri corri, finisce col ridurci a mendicare.»
Mentre così il Garzone stava parlando, il Canonico gli si avvicinò, per ascoltare che cosa mai avesse da dire; si vedeva proprio ch'era sospettoso dei discorsi della gente, questo Canonico. Dice Catone che chi é colpevole crede che ogni cosa che si dica lo riguardi: ecco perché quello s'avvicinò tanto al suo Garzone... Sentendo tutti quei suoi ragionamenti, gli disse: «Silenzio, non una parola in più, o me la pagherai cara! Tu mi screditi presso questa compagnia e scopri ciò che invece dovresti tener nascosto!».
«Ah sì?» fece il nostro Oste. «Tu invece continua a raccontare, se così stanno le cose. E infischiatene di tutte queste sue minacce!»
«Parola mia» fece l'altro «ciò che dico è ancora poco!»
Comprendendo che non c'era altro da fare, perché il suo Garzone avrebbe ormai rivelato ogni suo segreto, il Canonico se ne scappò via pieno di dolore e di vergogna.
«Ah» disse il Garzone «ora ci divertiremo! Voglio raccontarvi tutto quello che so. Se n'è andato finalmente, e che il demonio laido se lo porti! Non ci sono soldi né sterline che tengano: d'ora in avanti non mi vedrà più, ve l'assicuro. E' stato lui il primo a indurmi a questo gioco, e prima di morire dovrà pentirsene e vergognarsene! E' una faccenda seria per me, lo capisco bene, tutti me lo dicono. Eppure, con tutto il mio dolore e dispiacere, con tutta la mia pena, la mia fatica e le mie disgrazie, non sono mai riuscito in alcun modo a liberarmene. Voglia Iddio che ora io abbia almeno abbastanza cervello da dir tutto ciò che riguarda quest'arte! Vedrete che ad ogni modo qualcosa vi dirò... Ora che il mio padrone se n'è andato, non starò certo a lesinare, e quel che so lo dichiarerò tutto.»
Qui termina il Prologo al Racconto del Garzone del Canonico.
RACCONTO DEL GARZONE DEL CANONICO
Qui inizia il Racconto del Garzone del Canonico.
[PRIMA PARS].
Ormai son sette anni che abito con questo Canonico, e mai non ho potuto avvicinarmi alla sua scienza. Ci ho rimesso tutto quello che avevo, e Dio sa che non sono il solo! Un tempo ero sempre allegro, elegante e ben vestito, ora andrei perfino con una calza in testa; mentre prima ero d'un bel colorito rosso, ora sono smorto e del colore del piombo (provate a maneggiarlo e ve ne accorgerete!) ed ho gli occhi annebbiati per la fatica. Ecco che vantaggio c'è a far pratica d'alchimia! Questa viscida scienza m'ha ridotto al punto che, per quanto mi dia da fare, ormai non posseggo più nulla; anzi, mi sono talmente indebitato, a forza di prendere denaro a prestito, che finché camperò non riuscirò mai a mettermi in pari. Prendete tutti e per sempre esempio da me! Chi vi si caccia dentro e non la smette, per me è rovinato: Dio m'aiuti, ma non fa certo dei guadagni, anzi ci rimette sia di borsa che di cervello; e quando poi, per sua demenza e follia, rischiando ogni suo avere, ha perso tutto, allora si mette a istigare gli altri, perché tutti vadano in rovina come lui. Per i perversi, infatti, è una gioia e un piacere stare in compagnia nella sofferenza e nel dolore: questo l'ho imparato una volta da un chierico... Ma lasciamo perdere, voglio parlarvi del nostro lavoro.
Quando dobbiamo metterci ad esercitare la nostra magica arte, ci diamo l'aria di persone molto istruite, usando leziosi termini dottrinali. Io poi mi metto a soffiare nel fuoco fino a farmi scoppiare il cuore... Ma perché dirvi la dose d'ogni elemento che viene impiegato (se, per esempio, siano cinque o sei le once d'argento o di qualsiasi altra sostanza) e affannarmi a ripetervi i nomi dell'orpimento, delle ossa bruciate e delle squame di ferro che vengono triturate in polvere fine fine; e come il tutto sia messo in una pentola di terra, con un po' di sale dentro, e un po' di pepe, prima ancora della polvere che vi ho detto, e sia ben coperto con una lastra di vetro, dopo avervi aggiunto quel che occorre; e come pentola e vetro vengano saldati in modo da non lasciar passare alcun vapore; e che fuoco, lento o rapido, sia necessario, e le fatiche e le preoccupazioni per sublimare i materiali e per amalgamare o calcinare l'argento vivo, detto pure mercurio crudo?
Intanto, con tutte le nostre preoccupazioni, non riusciamo a concludere nulla. Orpimento e sublimato di mercurio, litargirio tritato sopra il porfido, ciascuno nella sua giusta quantità di once... non ci servono a nulla: la nostra fatica è inutile. Non c'è esalazione di vapori né solidificazione di corpi che ci porti avanti nel nostro lavoro: ogni nostro sforzo e travaglio va perduto e, per venti diavoli, va pure perduto tutto il denaro che abbiamo speso!
Eh sì, ne occorrono di cose nel nostro mestiere! Io non so citarvele tutte con ordine, perché sono ignorante, ma ve le dirò come mi vengono in mente, anche se non so disporle secondo la specie: ad esempio, il bolo armeno, il verderame, il borace e tutta una serie di recipienti di terra e di vetro (orinali e scolatoi, fiale, crogiuoli e sublimatoi, cucurbite, alambicchi ed altri che però non valgono un porro... non c'è bisogno di nominarli tutti!) e poi acqua di carminio e fiele di toro, arsenico, sale ammoniaco (4) e zolfo; erbe ne potrei citare moltissime, come l'agrimonia, la valeriana, la lunaria ed altre, ma non mi va di perdere tempo; e poi
lampade (le lasciamo accese notte e giorno per portarci più avanti che possiamo nel lavoro); e poi fornaci per la calcinazione e la purificazione dell'acqua; calce viva, gesso, chiare d'uovo, polveri varie, ceneri, sterco, piscio, argilla, sacchetti incerati, salnitro, vetriolo e diversi fuochi di legna e carbone; sal tartaro, alcale, sal preparato, materie combuste e coaugulate; argilla mista con peli d'uomo e di cavallo, olio di tartaro, allume cristallizzato, lievito, mosto di birra, cremore di tartaro, risigallo, materie assorbenti e materie incorporanti, sia per la cinitrazione dell'argento che per la cementazione e la fermentazione, stampi, provini e ancora molto altro...
Lasciate almeno che vi citi in ordine, come mi è stato insegnato, i quattro vapori e i sette corpi. Li ho sentiti così spesso elencare dal mio padrone! Il primo vapore è quello dell'argento vivo, il secondo dell'orpimento, il terzo del sale ammoniaco e il quarto dello zolfo. In quanto ai sette corpi, eccoveli subito: Sol sta per oro, Luna per noi vuol dire argento, Marte ferro, Mercurio si chiama l'argento vivo, Saturno il piombo, Giove lo stagno, e Venere, per la stirpe di mio padre, il rame!
Per chi voglia esercitare questa dannata arte, non ci sono mai mezzi abbastanza; infatti, per quanto uno spenda, ci rimette sempre: su questo non vi sono dubbi.
Su, si faccia avanti chi desidera dar sfogo alla sua follia e impari pure a moltiplicare l'oro; su, chiunque abbia qualcosa nello scrigno, si presenti e si metta a fare l'alchimista. Credete forse che sia un'arte tanto facile da imparare? Ah no! Dio sa che chiunque, monaco o frate, prete o canonico, si metta giorno e notte seduto davanti ai libri per imparare questa misteriosa dottrina balorda, tutto è inutile, perdio, se non peggio. Figurarsi poi insegnare certe sottigliezze a un ignorante... Non parliamone neppure, non è possibile! Ad ogni modo, che si tratti d'una persona istruita o meno, il risultato in fondo è sempre lo stesso. Vi giuro infatti sulla mia anima che in alchimia, quando abbiano ben fatto, riescono tutti nello stesso modo, cioè falliscono tutti!
Dimenticavo poi di parlarvi delle acque corrosive e delle limature, della mollificazione dei corpi e del loro indurimento; degli olii, delle abluzioni, dei metalli fusibili... A dir tutto non basterebbe neppure una bibbia; e perciò è meglio ch'io la smetta con tutti questi nomi. Credo d'averne citati ormai tanti, da evocare un demonio, per renitente che sia...
Ah, no, lasciamo stare! E' la pietra filosofale, detta elisir, che tutti noi cerchiamo: certo, se la ottenessimo, allora ci rinfrancheremmo abbastanza. Ma giuro davanti a Dio del cielo che, con tutta la nostra arte, per quanto facciamo, pur con tutta la nostra abilità, da noi essa non vuol venire. Ci fa spendere a profusione, tanto che ci sarebbe quasi da impazzire di dispiacere, se nel nostro animo non s'insinuasse sempre qualche buona speranza ad illuderci, pur fra tante pene, di poter un giorno riuscire. Certe illusioni e speranze sono ostinate e dure a morire, e c'è gente, vi assicuro, che continua a cercare. Sempre sperando nel futuro, queste persone si separano da tutto ciò che hanno, senza mai riuscire a saziarsi di quest'arte che per loro è come un dolce amaro (così almeno sembra): se anche avessero una sola coperta in cui avvolgersi di notte e un unico mantello da mettersi durante il giorno, per quest'arte non esisterebbero a venderli e a spendere tutto. E non la smettono finché proprio non rimangono senza nulla. Dovunque poi vadano, si fanno riconoscere dal loro odore di zolfo: puzzano infatti dappertutto come capre, e quel loro odore caprigno è così forte, che, vi assicuro, si sente anche da lontano un miglio. Così, dal lezzo e dall'abito dimesso, volendo, si possono riconoscere benissimo questi tipi. Se poi in privato chiedeste loro perché si vestono così miseramente, quelli subito vi sussurrerebbero all'orecchio che, se mai fossero scoperti, verrebbero uccisi a causa della loro scienza. Ecco, come questi tipi gabbano gl'innocenti! Ma passiamo oltre e torniamo alla mia storia. Prima che la pentola sia messa al fuoco, con dentro una certa quantità di metalli, il mio padrone li tempra, e nessuno (ora che se n'è andato posso anche dirlo!) ci riesce meglio di lui, lo dicono tutti. Ma per quanto ormai si sia fatto un nome, anch'egli commette errori. Sapete come succede... la pentola si spacca, e allora addio, tutto è perduto! Questi metalli sono d'una violenza tale, che i nostri muri non vi resistono e non sembrano neppure di cemento e pietra; e così quelli perforano e passano la parete da parte a parte: certi vanno a conficcarsi nel terreno (ecco dove a volte sono andate a finire parecchie nostre sterline!), certi si spargono tutt'intorno sul pavimento e certi balzano fin sul tetto. Non c'è dubbio: anche se proprio non ci compare davanti, ci dev'essere il demonio in mezzo a noi, quella canaglia! Ma neanche all'inferno, dove lui è signore e padrone, dev'esserci tanto baccano, rancore o ira... Ricordo che appena la pentola si spaccava, tutti si mettevano a urlare, dandosi reciprocamente la colpa.
Chi diceva che dipendeva dal modo di far fuoco; chi diceva di no, che dipendeva invece dal modo di soffiare... Allora mi spaventavo, perché questo era compito mio.
«Balle!» diceva il terzo «siete ignoranti e balordi: era la tempra che non andava!»
«No» diceva il quarto «zitti, ascoltate me: tutto è dipeso dal fuoco che non era di faggio, ecco perché, ed ora basta, accidenti!»
Io non so dire da che cosa veramente dipendesse: so soltanto che fra noi scoppiava sempre una gran lite.
«Insomma» diceva il mio padrone «ormai non c'è più nulla da fare. D'ora in poi starò attento io a questi pericoli. Son sicurissimo che il recipiente era incrinato... Ma, sia come sia, non state lì a bocca aperta: su, come di solito, scopiamo subito il pavimento! In alto i cuori, e siate allegri e contenti!»
Scopavamo i rottami in un mucchio, buttando una tela sul pavimento; e col setaccio tutti i rottami venivano setacciati e trascelti più volte.
«Perdio» diceva uno «un po' di metallo c'è ancora rimasto, anche se non proprio tutto. Se ora le cose sono andate male, un'altra volta possono andarci bene. Bisogna rischiare, credetemi. Anche ai mercanti, perdio, non va mica sempre bene! Qualche volta la merce affonda in mare e qualche volta arriva in salvo a terra.»
«Basta!» diceva il mio padrone «la prossima volta penserò a portare il lavoro in tutt'altra direzione; e se ancora non riesco, signori, date pure la colpa a me. Da qualche parte l'errore c'era, questo è certo.»
Un altro sosteneva che infatti il fuoco era troppo caldo... Ma, caldo o freddo che fosse, voglio dirvi questo: che alla fine c'è sempre qualcosa che non va, e noi non riusciamo mai ad ottenere quello che vogliamo. Eppure, nella nostra pazzia, continuiamo a farneticare e, quando siamo insieme, ciascuno si dà le arie d'un Salomone. Ma non è tutt'oro quello che riluce (quante volte l'abbiamo sentito dire!), né una mela che all'apparenza sembri bella, è sempre buona: è inutile che la gente sbraiti o gridi. Proprio così, ecco, succede a noi. Cristo, quello che sembra il più furbo, alla prova dei fatti è il più balordo; e quello che pare il più fido è in realtà un ladro. Bisogna che questo lo sappiate, prima che io passi ad altro, ma ora basta con tanti discorsi!
EXPLICIT PRIMA PARS.
ET SEQUITUR PARS SECUNDA.
C'è fra noi un canonico di convento, che infetterebbe una città intera, fosse pure grande come Ninive, Roma, Alessandria o Troia, e ancora altre insieme. Credo proprio che nessuno riuscirebbe a descrivere le sue truffe e la sua infinita ipocrisia, neanche se campasse per mill'anni. Non ha veramente pari al mondo per doppiezza! Sa rigirarsi così bene con i suoi termini e usare le sue parole in modo così astuto, che appena si trova in compagnia di qualcuno, riesce ad imbrogliarlo subito, a meno che anche l'altro non sia un demonio come lui. Quanta gente ha ingannato e quanta ne ingannerà ancora, se riuscirà a campare! Eppure c'è chi continua a percorrere miglia e miglia a cavallo e a piedi, pur di vederlo e conoscerlo, ignorando il suo ipocrita modo di fare. Ma, se vi piace darmi ascolto, ve lo dirò io qui subito com'è!
Però voi, reverendi canonici di convento, non crediate ch'io voglia screditare la vostra casa, soltanto perché il mio racconto parla d'un canonico. In tutti gli ordini qualche mascalzone c'è sempre, perdinci, ma Dio non voglia che per le sciocchezze di uno ci rimetta tutta una comunità! La mia intenzione non è affatto quella di screditarvi, ma se mai quella di correggere ciò che non va. Il mio racconto non si rivolge soltanto a voi, ma anche ad altri... Sapete bene che fra i dodici apostoli di Cristo non c'era nessun traditore all'infuori di Giuda. Perché dunque dir male di tutti, i quali non ne avevano colpa? Lo stesso vale per voi. Però, sentite: se ci fosse qualche Giuda anche nel vostro convento, mandatelo via in tempo, mi raccomando, se non volete che sia cagione d'infamia e denigrazione. Ed ora, vi prego, non prendetevela per ciò che sto per dire, ma anzi ascoltate attentamente.
C'era dunque a Londra un prete cantore (vi abitava già da parecchi anni), il quale era così affabile e servizievole con la donna da cui andava a mangiare, che costei non gli faceva pagar nulla per il vitto e neppure per la cura del vestiario (non era mai andato così elegante), ed egli si trovava perciò ad avere abbastanza soldi da spendere. Qui sta il punto: andiamo avanti, e sentirete come il nostro canonico portasse questo prete alla rovina.
Un giorno, infatti, questo canonico ipocrita si recò da questo prete, proprio nella stanza dove abitava, a pregarlo di prestargli una certa somma di denaro, che poi gli avrebbe reso.
«Prestatemi un marco» gli disse «solo per tre giorni, ve lo renderò puntualmente. Se poi vedete che non sono di parola, un'altra volta mi mandate alla forca!»
Il prete gli diede subito un marco senza discussioni. Questo canonico lo ringraziò molto, lo salutò e se ne andò per la sua strada. Il terzo giorno, riscosso del denaro, riportò quel che doveva al prete, che ne fu molto lieto e bene impressionato.
«Certo» disse «non mi dispiace affatto imprestare a qualcuno un "nobile" o due, o anche tre e perfino tutto quanto è in mio possesso, purché si tratti di persona onesta, che non venga in alcun modo meno ai suoi impegni. A una persona tale non so mai dire di no!»
«Ma via» disse questo canonico «fare il disonesto? Ah, no, questo per me sarebbe inaudito! L'onore è qualcosa a cui terrò sempre finché proprio non scenderò nella tomba... Dio non voglia altrimenti! Di questo potete esserne certo come del Credo. Grazie a Dio, posso anche dirlo: finora nessuno è stato mal ripagato per l'oro o l'argento che m'abbia imprestato e in cuor mio non ho mai inteso ingannare nessuno. Anzi, in tutta confidenza, visto che siete stato così buono con me e vi siete dimostrato così gentile, giusto per ricambiare un po' la vostra cortesia, voglio farvi vedere e, se v'interessa, anche insegnarvi in che modo io sappia operare in alchimia. Attenzione, dunque, aprite bene gli occhi, e vedrete che capolavoro compirò prima d'andarmene.»
«Davvero» disse il prete «davvero, messere, voi farete davvero questo? Maria Vergine, ve ne prego!»
«Ma certo, messere, ai vostri ordini!» disse il canonico. «Dio non voglia altrimenti!»
Ecco in che modo questo ladro seppe offrire i suoi servizi! Vero è che un servizio non richiesto puzza: questo lo dicevano già gli antichi, ed io presto ve lo dimostrerò con questo canonico, radice d'ogni impostura, che gioisce e gode sempre (pensate che mentalità da demonio!) quando può condurre, qualche cristiano alla malora. Dio ci liberi dalle sue ipocrisie e simulazioni!
Il prete, naturalmente, non sapeva con chi avesse a che a fare, e non s'accorse per nulla del malanno che stava per accadergli... O povero prete, povero ingenuo, eccoti subito accecato dall'ingordigia! O disgraziato, orbo di buon senso, tu non t'accorgi dell'inganno che questa volpe ti ha reso e ormai non puoi più sfuggire alla sua astuzia e alle sue frodi! Insomma, per venire ad una conclusione (che in fondo, disgraziato, riguarda la tua rovina), lascia ch'io mi sfoghi come so e posso contro la tua stoltezza e follia, oltre che contro l'impostura di quell'imbroglione...
Credete forse che questo canonico sia il mio padrone? Messer Oste, vi do la mia parola e vi giuro, per la Regina del Cielo, che si tratta d'un altro, non di lui, d'uno che è cento volte più ipocrita. Ha commesso tanti imbrogli, che a citarli tutti c'è da stancarsi. Ogni volta che parlo della sua ipocrisia, mi s'arrossano le guance di vergogna, o meglio, mi s'infiammano appena, perché non ho più colorito, lo so benissimo; tutto per colpa del vapore dei diversi metalli che mi hanno consunto e devastato il volto. Ma torniamo a questo dannato canonico...
«Messere,» disse al prete «mandate il vostro garzone per argento vivo, presto; ditegli di prenderne due o tre once: appena sarà di ritorno, assisterete ad un prodigio mai visto.»
«Sarà fatto, messere,» disse il prete «e subito!»
E ordinò al suo servo d'andargli a prendere quanto occorreva. Pronto al suo comando, quello, per farla breve, andò e tornò con l'argento vivo, consegnando queste tre once al canonico.
Costui le depose bene con cura e chiese al servo di andare a prendere del carbone, che poi si sarebbe subito messo all'opera.
Quando anche il carbone venne portato, questo canonico si tolse dal seno un crogiuolo e lo mostrò al prete: «Questo strumento» disse «che vedete... prendetelo in mano e mettetevi dentro voi stesso un'oncia di quest'argento vivo, ed eccovi, in nome di Cristo, trasformato in alchimista! E' ben poca la gente alla quale gradirei rivelare i segreti della mia scienza. A voi, invece, mostrerò alcuni esperimenti, e qui subito davanti ai vostri occhi, senza che vi siano imbrogli, decomporrò quest'argento vivo e lo trasformerò in argento puro come quello che sta nella vostra borsa o nella mia o di chiunque altro, e perfettamente malleabile. Se non vi riuscissi, consideratemi pure un ipocrita e un incapace, anzi il peggiore che abbiate mai incontrato. Ho qui una polvere che mi costa cara, ma fa riuscire bene ogni cosa: tutto dipende dalla mia destrezza, state a vedere... Ah mandate via il vostro garzone e fatelo star fuori, chiudete bene la porta, mentre attendiamo alle nostre faccende: nessuno deve spiarci, quando siamo all'opera con questa alchimia».
Detto fatto. Dopo aver mandato via il servo e chiusa la porta, i due si misero subito al lavoro. Il prete, agli ordini di questo dannato canonico, messa ogni cosa al fuoco, si diede con gran lena a soffiare sulla fiamma. Il canonico gettò una polvere nel crogiuolo (non so di che cosa fosse fatta, se di gesso, di vetro o d'altro, ma certo non valeva una mosca, se non tanto da dare un po' d'illusione al prete) e gli ordinò di sbrigarsi a disporre bene il carbone.
«E' segno che vi voglio bene» disse questo canonico «se voglio che con le vostre stesse mani facciate tutto ciò che qui c'è da fare.»
«Io vi ringrazio!» disse il prete, tutto contento, mettendosi a disporre il carbone come voleva il canonico. E mentr'egli era tutto indaffarato, questo diabolico miserabile, questo canonico ipocrita (se lo porti il demonio laido!) si tolse dal seno un carbone di faggio, in cui molto abilmente era stato praticato un foro, dentro il quale era stata deposta un'oncia di limatura d'argento; il foro era stato poi accuratamente tappato con la cera in modo da trattenervi dentro la limatura. Voi capite che il trucco non sarebbe riuscito, se non fosse stato in precedenza preparato, insieme ad altri di cui poi in seguito vi dirò. Predisposto l'imbroglio, non rimaneva che attuarlo: nessuno avrebbe ormai fermato questo canonico, neanche a scorticarlo...
Ah, invece di parlar tanto, vorrei poter agire e far qualcosa contro la sua ipocrisia, ma non è possibile, perché lui, scaltro com'è, sempre di qua o di là, non si fa mai trovare da nessuna parte.
Ma attenzione ora, signori, per amor di Dio! Preso il carbone di cui vi parlavo, egli se lo nascose in mano e, mentre il prete, come vi ho detto, era ancora affaccendato a sistemare il fuoco, questo canonico disse: «Amico, sbagliate. Non è sistemato come dovrebbe essere, ma ora ci penserò io... Lasciate che un po' lavori anch'io: mi fate pena, per Sant'Egidio! Siete così accaldato; guardate come sudate. Tenete questo panno e asciugatevi».
E mentre il prete s'asciugava il viso, il canonico prese con maledetta grazia il suo carbone e lo depose nel bel mezzo del crogiuolo, mettendosi a soffiar forte finché non divampò il fuoco.
«Beviamo qualcosa ora» disse il canonico «riuscirà tutto presto e bene, vi assicuro; intanto sediamo e stiamo allegri.»
Poco dopo, quando il carbone di faggio del canonico si fu consumato, tutta la limatura cadde dal foro giù nel crogiuolo; né poteva esser altrimenti, è chiaro, essendo stato tutto predisposto. Ma, ahimè, il prete non sapeva e non sospettava nulla, perché per lui tutti quei carboni erano uguali...
Al momento buono, l'alchimista disse: «Su alzatevi, messer prete, e state vicino a me... Oh, m'accorgo adesso che non avete stampi! Presto, correte fuori a prendermi un po' di gesso: se mi riesce, uno stampo ve lo metterò insieme io; e portatemi anche un catino o una conca piena d'acqua, e poi vedrete come risulterà e verrà bene la nostra impresa! Non vorrei però che, in mia assenza, aveste sfiducia o sospetto di me: sarà meglio che da voi non m'allontani, ed esca e venga anch'io con voi».
In breve, aperta e chiusa la porta della camera, se ne uscirono tutti e due, portando con sé la chiave, e, senza perdere tempo, furono ben presto di ritorno.
Ma perché tirarla avanti tutto il giorno? Preso il gesso, il canonico lo plasmò senz'altro a forma di stampo, ma sentite come: si tolse dalla manica una piastrina d'argento (gli venga un accidente!) che non pesava più di un'oncia, ed ecco che imbroglio combinò: il suo stampo lo formò senza esitare di lunghezza e larghezza uguale alla piastrina, che poi, senza che il prete s'accorgesse di nulla, si nascose di nuovo nella manica; tolse dal fuoco la sua roba e la versò allegramente nello stampo e, quando fu il momento, gettò tutto nel recipiente dell'acqua, dicendo al prete: «Guardate un po' che cosa c'è qui; mettete dentro la mano e cercate: dovrebbe esserci dell'argento...».
Diavolo d'inferno, che altro avrebbe dovuto esserci? Limatura di argento è pur sempre argento, perdio!
Quando il prete, dopo aver messo dentro la mano, tirò fuori una piastrina d'argento puro, fin nelle vene provò contentezza: «Dio e sua Madre e tutti i Santi vi benedicano, messer canonico!» disse «e ch'io sia invece maledetto, se non vi degnate d'insegnare anche a me questa nobile e sottile arte! Vi darò tutto quello che posso...».
Disse il canonico: «Ebbene, proviamo ancora una volta. Voi fate attenzione e cercate d'impratichirvi, così all'occorrenza un altro giorno, anche se non ci sono io, potrete esercitare da solo questa disciplina, quest'ingegnosa scienza. Ecco, prendiamo un'altra oncia d'argento vivo, basta coi discorsi, e fate come avete fatto prima con l'altro che ora è argento vero».
Il prete si mise al lavoro, cercando d'eseguire nel miglior modo possibile tutto ciò che questo canonico, quest'uomo maledetto, gli aveva ordinato, e soffiava forte sul fuoco, sempre con la speranza di poter attuare il proprio desiderio. Nel frattempo questo canonico, pronto a tutto pur d'ingannare il prete, prese con un pretesto una canna vuota (sentite e fate attenzione!), in cima alla quale versò non più di un'oncia di limatura d'argento, proprio come quella che prima aveva deposto nel carbone, e la tappò con un po' di cera in modo che non ne scappasse neppure un granello. Poi, mentre il prete era ancora intento al suo lavoro, questo canonico con la sua canna gli si avvicinò; sparse, come aveva fatto prima, la sua polvere (Dio, fa' che il demonio se lo scortichi vivo, questo falso ipocrita!) e tenendo la canna abilmente truccata come sapete sopra il crogiuolo, smosse i carboni finché la cera a contatto del fuoco si sciolse, come chiunque che non sia balordo sa che succede, e tutto ciò ch'era dentro la canna uscì fuori e cadde dritto nel crogiuolo.
Eppure, buona gente, che ci volete fare? Pur trovandosi così di nuovo imbrogliato, quel prete, che veramente accettava tutto per buono, fu così contento, ch'io non saprei in alcun modo descrivervi tanta gioia e allegrezza. E voleva che il canonico se lo prendesse con sé con tutti i suoi beni.
«Ma via!» disse pronto il canonico «pur se sono povero, so ancora lavorare. Sapeste quante cose so ancora fare... avete del rame in casa?»
«Sì, messere,» rispose il prete «credo che ce ne sia.»
«Altrimenti andatene a comprare un po', e fate presto. Su, buon messere, muovetevi, sbrigatevi!»
Quello andò e tornò col rame. Il canonico glielo prese di mano e ne pesò non più di un'oncia.
Ah, ma è troppo semplice la mia lingua, ministra dei miei pensieri, per esporre la doppiezza di questo canonico, radice d'ogni perversione! In apparenza fa l'amico, ma è un demonio nel suo modo di agire e di pensare. Sono stufo di parlar sempre della sua ipocrisia, ma bisogna che lo faccia, se non altro per mettere in guardia la gente.
Mise dunque quella sua oncia di rame nel crogiuolo e subito depose questo sul fuoco, vi buttò un po' dì polvere e raccomandò al prete di soffiare rimanendo ben curvo come prima... insomma, tutta la solita burla! Ormai poteva menare quel prete per il naso come voleva. Alla fine versò il rame nello stampo, depose il tutto nella conca d'acqua e vi cacciò dentro un braccio, nella cui manica (come vi ho già detto) lui aveva una piastrina d'argento: molto abilmente la fece scivolar fuori, questa maledetta iena, e, senza che il prete s'accorgesse dell'imbroglio, la lasciò sul fondo della conca; continuando poi a rimestare avanti e indietro nell'acqua, riuscì, con straordinaria bravura, a pescare invece la lastrina di rame che subito nascose, sempre senza che il prete sospettasse nulla.
Prese allora il prete per il petto e scherzando gli disse: «Giù, piegate la schiena, perdio, bisogna proprio che vi rimproveri! Aiutatemi ora, come prima ho fatto io; mettete dentro la mano e cercate un po' anche voi». Il prete in un attimo tirò su la piastrina d'argento.
A questo punto il canonico gli disse: «Andiamo, con queste tre piastrine che abbiamo ottenuto, da qualche orefice per sapere se valgono qualcosa. Parola mia, non posso mica sapere di mia testa se siano d'argento puro, e bisogna che ce ne accertiamo subito».
E così andarono da un orefice con queste tre piastrine, che vennero messe alla prova del fuoco e del martello. Nessuno avrebbe potuto negarlo: erano veramente come avrebbero dovuto essere.
Chi ormai era più contento di quel balordo prete? Non vi fu mai più allegro uccello all'alba o usignolo a maggio che avesse maggior voglia di cantare, né alcuna dama maggior desiderio di danzar carole o parlare d'amore e frivolezze, né cavaliere in armi di compiere ardite imprese per guadagnarsi le grazie della sua bella, di quanto ne avesse quel prete d'apprendere la disgraziata arte. Si rivolse al canonico e gli disse: «Per l'amore di Dio che morì per tutti noi, se anch'io conto per voi qualcosa, quanto costa la vostra formula? Ora ditemelo!».
«Per la Madonna,» rispose il canonico «è cara, vi avverto, perché in Inghilterra, all'infuori di me e di un certo frate, non c'è nessuno che sappia prepararla.»
«Non importa» soggiunse l'altro «dunque, messere, per amor di Dio, quanto devo pagare? Vi prego, ditemelo!»
«E va bene» fece costui «è carissima, vi dico... Insomma, messere, se la volete, quaranta sterline dovete pagare, e che Dio mi salvi; se infatti non fosse per l'amicizia che m'avete prima dimostrato, dovreste pagare molto di più, vi assicuro.»
Il prete andò subito a prendere la somma di quaranta sterline in oro sonante, e le diede al canonico per quella sua formula ch'era tutta un imbroglio e una frode!
«Messer prete,» gli disse ancora costui «quel che vi raccomando è che non largheggiate troppo con la mia arte: preferirei che rimanesse segreta. Appena la gente venisse a sapere di tutti questi miei poteri, sarebbe, perdio, così invidiosa della mia scienza, da farmi ammazzare, non c'è scampo.»
«Dio non voglia!» fece il prete. «Ma che dite? Preferirei rimetterci quanto possiedo o altrimenti impazzire, se mai vi dovesse capitare una disgrazia simile.»
«Bontà vostra, messere, possiate farne buona riuscita» disse il canonico «ed ora addio, molte grazie!»
E se ne andò per la sua strada, senza farsi mai più vedere dal prete. Quando poi costui volle a sua volta sperimentare la formula, addio, non riuscì a combinar nulla, e finì così beffato e truffato! Ecco come fu introdotto all'arte di portar la gente alla perdizione!
Signori miei, pensate, c'è in ciascuno strato sociale un tale accanimento fra uomini e oro, che di questo ormai non se ne trova quasi più da nessuna parte. L'idea poi di riprodurlo ne ha accecati tanti, ch'io credo sia proprio questa la maggior causa di tanta penuria. E così nebulosamente parlano gli alchimisti della loro arte, che, per quanto cervello abbia la gente d'oggigiorno, nessuno può sperare di capirli: cianciano sempre come taccole, come se le parole fossero la loro unica gioia e preoccupazione, senza mai arrivare a nulla. E' facile, per chi possegga qualcosa, imparare l'alchimia e ridursi poi così in miseria!
Ecco che guadagno c'è in questo bel gioco: la gioia si tramuta in disperazione, le borse per quanto siano grosse e pesanti si svuotano, e chi impresta denaro ricava poi maledizioni. Ah, che schifo e che vergogna! Ma non possono proprio quanti si sono scottati abbandonare il fuoco? Dico a voi che lo maneggiate: è meglio che smettiate, se non volete rimetterci tutto; meglio tardi che mai. Non riprendersi mai sarebbe veramente troppo tardi! Intanto, per quanto vi affanniate a cercare, non scoprirete nulla. È inutile avere l'ardimento d'un baiardo cieco che corre all'impazzata e non s'accorge del pericolo: per lui tanto vale tener la strada quanto sbattere contro un sasso. Ecco, proprio così fate voi che alchemizzate! Ma se i vostri occhi non riescono a vedere, cercate almeno che la vista non manchi alla vostra mente: per quanto teniate sempre gli occhi aperti e spalancati, non guadagnerete mai nulla da quest'affare, anzi ci rimetterete sempre quanto vi capiti fra le mani. Moderate il fuoco che brucia troppo; non v'immischiate più in quell'arte, dico, altrimenti tutti i vostri risparmi sono bell'e andati.
A questo proposito, bisogna ch'io vi dica subito quel che insegnano gli alchimisti filosofi.
Ecco per esempio, quel che dice Arnaldo da Villanova nel suo "Rosarium"; dice testualmente così: «Nessuno può decomporre il mercurio all'insaputa di suo fratello. (Chi veramente per primo affermò questa cosa fu Ermete, il padre degli alchimisti, il quale diceva: non muore drago senza che venga ucciso anche suo fratello; dove "drago" sta per mercurio e per suo "fratello" lo zolfo, ambedue ricavati da "sol" e "luna".) E perciò, attenti alle mie parole, nessuno s'affanni a perseguire quest'arte senza saper comprendere l'animo e la lingua dei filosofi; stolto è chi agisce altrimenti, perché questa scienza e dottrina è il segreto dei segreti, perdio!».
Vi fu anche un discepolo di Platone, il quale, come attesta il suo libro "Senioris", si rivolse una volta al suo maestro e in tutta franchezza gli fece questa domanda:
«Ditemi, qual è veramente il nome della pietra segreta?»
«Titanos» Platone pronto gli rispose.
«E questo che cos'è?» chiese il discepolo.
«Magnesia» rispose Platone.
«Va bene, messere, ma con ciò? È sempre "ignotum per ignotius" ... Per favore, buon messere, che significa magnesia?»
«Un'acqua composta di quattro elementi» disse Platone.
«Per favore, buon messere,» continuò l'altro «ditemi almeno da che fonte scaturisce...»
«Ah no,» fece Platone «questo mai! Ogni filosofo ha giurato di non rivelarlo a nessuno, né di scriverlo in alcun modo su qualche libro. Si tratta infatti di qualcosa così grato e caro a Cristo, ch'egli non vuole sia rivelato, se non là dove piaccia alla sua divinità d'ispirare l'uomo o per difendere chi a lui sia gradito; ecco, questo è tutto.»
Ed io perciò così concludo: se neanche Iddio in cielo vuole che i filosofi rivelino come si possa giungere a questa pietra, meglio, credo, sia lasciarla stare. Chi infatti si mette contro Dio per fare cosa avversa al suo volere, non avrà sicuramente mai bene, pur se riuscisse a prolungare il termine della sua vita. E qui faccio punto, perché il mio racconto è finito. Dio mandi ad ogni brav'uomo rimedio al proprio male!
Qui termina il Racconto del Garzone del Canonico.
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