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domenica 12 maggio 2013

I RACCONTI DI CANTERBURY - FRAMMENTO 5 - IL RACCONTO DEL MEDICO

C'era una volta, come narra Tito Livio, un cavaliere che si chiamava Virginio, colmo d'onore e di dignità, forte d'amici e grandi ricchezze.
Questo cavaliere ebbe da sua moglie una bambina, e nessun altro figlio in vita sua. Ma questa fanciulla era bella, d'una bellezza superiore a quella di chiunque si possa immaginare. Natura infatti l'aveva formata con la massima diligenza, in modo perfetto, come per dire: «Guardate, come io, Natura, quando voglio, so dar forma e colore a una creatura! Chi può imitarmi! Pigmalione no di certo, per quanto continui a forgiare e a battere, a scolpire e a pitturare. Posso dire che perfino Apelle e Zeusi s'affaticherebbero invano a scolpire, forgiare e battere, pensando d'imitarmi. Perché Colui che è maestro d'ogni forma mi ha nominato sua vicaria generale, per foggiare e dipingere come voglio le creature della terra, ed è in mia cura ogni cosa sotto la luna che cresce e cala. Io non chiedo nulla per il mio lavoro: il mio padrone ed io andiamo perfettamente d'accordo. E questa l'ho creata proprio in onore del mio padrone, come del resto faccio con tutte le altre mie creature, qualunque sia il loro colore o la loro forma». Proprio così pareva che Natura volesse dire.
Ormai aveva compiuto quattordici anni questa fanciulla, di cui Natura si compiaceva tanto. E come questa sa dipingere bianco un giglio e rossa una rosa, con le stesse sfumature aveva colorato questa nobile creatura, prima ancora che nascesse, in tutte le sue agili membra, dov'è giusto che vi siano quei colori; Febo poi le aveva tinto le grosse trecce con i raggi della sua vampa ardente. E se già la sua bellezza era eccelsa, la sua virtù era mille volte maggiore. Non le mancava proprio nessuna delle qualità che giustamente sono da lodare. Casta era nell'anima e nel corpo; e fioriva nella sua verginità in umiltà ed astinenza, in pazienza e temperanza, come pure in modestia di contegno e d'atteggiamento. Nelle risposte era sempre prudente: per quanto si possa dire che fosse saggia come Pallade e soave e femminile nel parlare, non usava tuttavia parole smancerose per sembrare istruita; ma parlava secondo il suo grado, e tutte le sue parole, importanti o meno, erano ispirate alla virtù e alla nobiltà d'animo. Era timida d'una timidezza verginale, costante nei sentimenti e sempre attiva per sottrarsi ad ogni pigra indolenza. Bacco non aveva certo alcun dominio sulla sua bocca, giacché vino e giovinezza infiammano Venere, come olio e grasso gettati sul fuoco. E proprio di sua indole, senza che nessuno ve la costringesse, molto spesso fingeva di non star bene pur d'evitare le compagnie dove non si sarebbe parlato che d'insensatezze, come ai banchetti, alle feste e alle danze, che sono occasione di stravizi. Tali circostanze infatti, come si può ben vedere, rendono certe che ancora sono bambine mature e ardite prima del tempo, il che è assai pericoloso, e lo è sempre stato. Già fin troppo presto una può imparare ad essere audace, quando sia diventata donna...
Voi anziane istitutrici, che avete in cura le figlie dei signori, non prendetevela per quel che dico, ma pensate, il vostro incarico vi fu affidato soltanto per due motivi: o perché vi siete sempre mantenute oneste, oppure perché, essendo per fragilità cadute, conoscete ormai bene la danza antica e ne avete per sempre abbandonato il vizio, tutte prese dal fervore d'insegnare, per amor di Cristo, alle giovani la virtù. Il bracconiere che abbia perduto il vizio e la sua antica astuzia, sa fare il guardaboschi meglio di chiunque... Fate dunque alle giovani buona guardia, ché, volendo, ne siete ben capaci; e badate di non indurle al male, dannandovi coi vostri malvagi proponimenti. Chi infatti così agisce è sicuramente un traditore; anzi, fate attenzione, fra tutti i tradimenti suprema peste è traviare l'innocenza. Ed anche voi padri e madri, sia che di figli ne abbiate uno o molti, sorvegliateli finché sono sotto la vostra cura. Badate che, con l'esempio che voi date o con la vostra negligenza nel castigarli, essi non debbano perire, perché vi assicuro che, se ciò accadesse, la paghereste molto cara, Quando il pastore è fiacco, il lupo sbrana pecore ed agnelli... Ma per ora basta, devo ritornare al mio racconto.
Questa ragazza, di cui voglio narrarvi la storia, sapeva tuttavia badare a se stessa, senza bisogno d'alcuna istitutrice. Nel suo modo di comportarsi le altre ragazze potevano leggere, come in un libro, ogni buona parola o atto che si convenga ad una ragazza virtuosa, tanto lei era sollecita e prudente. E perciò si diffuse ovunque la fama della sua bellezza e della sua immensa bontà, e tutti in quel paese la lodavano, tutti cioè coloro che amavano la virtù, non certo gl'invidiosi, i quali si rodono per la felicità altrui e sono contenti soltanto quando qualcuno è infelice o non sta bene (...è il dottore che ne dà questa descrizione).
Questa ragazza, dunque, un giorno si recò in città a un tempio, accompagnata, com'è usanza delle ragazze giovani, dalla sua cara madre. Ora in quella città c'era un giudice, che governava tutta quanta la regione. Ed accadde che proprio questo giudice, trovandosi lei a passare dove lui abitava, posasse su di lei lo sguardo e si sentisse d'un tratto turbato profondamente. Animo ed umore gli si alterarono all'improvviso, talmente si sentì preso dalla bellezza di quella giovane; ed egli fra sé disse: «Prima d'ogni altro quella ragazza sarà mia!».
E ben presto gli entrò in cuore il demonio, facendogli subito capire che soltanto con l'astuzia avrebbe potuto vincerla ai suoi fini; altrimenti, pensò, né con la forza né col denaro avrebbe mai potuto riuscirvi. Quella ragazza infatti aveva parecchi amici, ed era di per sé così salda nella sua virtù, ch'egli ben comprendeva di non poterla mai indurre a peccare direttamente. Perciò, dopo molte riflessioni, mandò in quella città a chiamare un ribaldo, ch'egli sapeva essere astuto e pronto a tutto. A questo ribaldo il giudice espose segretamente tutto un suo piano, facendosi promettere di non parlarne con nessuno, sotto pena di rimetterei la testa. Come quello sventurato si mostrò d'accordo, il giudice, tutto soddisfatto, con grandi sorrisi, lo colmò di costosissimi doni.
Stabilito punto per punto tutto il complotto, e in che modo la scellerata impresa dovesse astutamente compiersi, il ribaldo, che si chiamava Claudio, se ne tornò a casa. Il falso giudice, che si chiamava Appio (si chiamava realmente così, perché questa non è una favola, ma un fatto storicamente noto, sulla cui autenticità non v'è alcun dubbio), il falso giudice, dicevo, si diede intanto d'attorno per affrettare il più possibile il momento in cui avrebbe soddisfatto il suo piacere.
E così accadde, secondo quanto ci narra la storia, che, qualche giorno dopo, questo falso giudice sedesse come di solito in tribunale, ad emettere sentenze su questo o su quel caso. Ad un tratto si fece avanti a grandi passi l'ipocrita ribaldo e disse: «Messere, vi prego, rendetemi giustizia secondo quanto sta scritto in questa mia pietosa istanza, nella quale mi querelo contro Virginio. Anche se lui vorrà negare, io comproverò, trovando buoni testimoni, che quanto afferma la mia istanza è vero!».
Rispose il giudice: «In sua assenza, non posso emettere alcun giudizio. Va' a chiamarlo, ed io sarò ben lieto d'ascoltarvi. Qui ti sarà fatta ogni giustizia e nessun torto!».
Venne dunque Virginio per conoscere la volontà del giudice, e gli fu letta la melefica petizione che, in sostanza, diceva quanto segue:
«A voi, signor mio, egregio messer Appio, io Claudio vostro umile servo dichiaro che un cavaliere, di nome Virginio, contro la legge e contro ogni giustizia, detiene, contro pure la mia espressa volontà, una mia serva, che è mia schiava di diritto, la quale mi fu tolta di casa una notte, quand'era ancora molto giovane. Questo, messere, son disposto, quando vogliate, a comprovare con testimoni. Per quanto egli lo affermi, lei non è sua figlia. Onde a voi, mio signor giudice, io mi rivolgo, affinché vogliate farmi rendere al più presto la mia schiava.» Ecco, era questa la sostanza della petizione.
Virginio guardò allibito quel ribaldo, ma subito, prima ancora che potesse parlare e dimostrare, come sarebbe spettato a un cavaliere, valendosi anche d'altri testimoni, che era tutto falso quanto affermava il suo avversario, quel malefico giudice non volle perder tempo e, senz'ascoltare nemmeno più una parola di Virginio, pronunciò così la sua sentenza: «Decreto che quest'uomo abbia subito la sua serva. Tu non puoi più tenerla chiusa in casa tua. Va' dunque a prenderla per affidarla a noi. Quest'uomo deve avere la sua schiava: è un ordine!».
E così il nobile cavaliere Virginio, costretto dalla sentenza del giudice Appio a consegnare la sua cara figlia al magistrato, a vivere cioè con lui in lussuria, tornato a casa e sedutosi nella sua sala, la mandò subito a chiamare. E col viso smorto come cenere spenta, contemplandone l'umile volto, col cuore trafitto di pietà paterna, ma ormai deciso nel suo proposito, le disse: «Figlia, Virginia di nome, due sono i modi in cui tu devi patire: o la morte o il disonore. Eppure (ah, non fossi mai nato!) tu non hai mai fatto nulla per meritare di morir di spada o di pugnale. O figlia diletta, coronamento della mia vita, con quanta gioia t'ho allevato, portandoti sempre nel mio pensiero! O figlia, ultimo mio dolore e ultima gioia della mia vita, o gemma di castità, accogli con pazienza la tua... morte, sì, perché questa è la mia decisione! E' per amore, non certo per odio, che tu devi morire; è per misericordia che la mia mano deve mozzarti il capo! Ah, non t'avesse mai veduta Appio! E' lui che oggi con le sue menzogne t'ha condannata...». E le riferì tutto il caso, come prima avete udito: non occorre che vi aggiunga altro.
«O pietà, padre caro!» disse la fanciulla, e così dicendo, come aveva spesso fatto, gli buttò le braccia al collo. E prorompendo in lacrime, gli chiese: «Padre mio buono, devo proprio morire? non c'è proprio nessuna grazia, nessun rimedio?».
«No, ti assicuro, cara figlia mia!» egli rispose.
«Concedimi almeno un po' di tempo, padre mio,» lei disse «un po' di tempo per compiangere la mia morte! In nome di Dio, perfino Jefte fece grazia a sua figlia di lamentarsi, prima che, ahimè, la trucidasse! E Dio sa che anche lei non aveva mai mancato in nulla, se non che per prima era corsa a veder suo padre, per dargli festosamente il benvenuto...» E così dicendo cadde in deliquio.
Ma poi, passato lo svenimento, si alzò e disse a suo padre: «Dio sia benedetto... morirò vergine! Datemi la morte, prima ch'io riceva disonore: sia fatta con vostra figlia la vostra volontà, in nome di Dio!». E dopo aver detto questo, lo pregò ancora di non farle troppo male con la spada e, a quella parola, cadde di nuovo svenuta.
Suo padre, allora, col cuore e l'animo straziati, le mozzò il capo e, tenendolo alto, andò a portarlo al giudice che sedeva ancora in tribunale a giudicare. Narra la storia che, appena il giudice lo vide, ordinò subito di arrestare quell'uomo e d'impiccarlo; ma in quello stesso istante una turba di mille uomini si scagliò dentro per salvare il cavaliere, avendone pietà e compassione, perché ormai era chiaro l'iniquo tradimento. La gente aveva incominciato a sospettare, dal modo in cui il ribaldo aveva presentato la denuncia, ch'egli si fosse messo d'accordo con Appio, ch'era noto per la sua dissolutezza. Perciò andarono da Appio e lo cacciarono immediatamente in carcere, dov'egli poi si uccise. E Claudio, che di questo Appio si era fatto servo, fu condannato ad essere impiccato a un albero, se non che Virginio, per compassione, tanto supplicò per lui da riuscire a farlo esiliare: altrimenti sarebbe stato certamente ucciso. Furono impiccati anche altri che, in misura maggiore o minore, erano stati consenzienti in questa scelleratezza.
Di qui si può vedere come il peccato abbia sempre quel che si merita. State attenti perché nessuno sa chi Dio voglia colpire, né quanto o come il verme della coscienza debba poi contorcersi per una vita disonesta, quantunque sia tutto così nascosto, che nessuno sa nulla all'infuori di Dio e lui. Per ignorante o istruito che uno sia, nessuno potrà mai dire quando sia il tempo della paura. Vi avverto perciò, seguite questo consiglio: abbandonate il peccato, prima che il peccato abbandoni voi!
Qui termina il Racconto del Medico.

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