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La Grande Storia dei Cavalieri Templari

Creati per difendere la Terrasanta a seguito della Prima Crociata i Cavalieri Templari destano ancora molto interesse: scopriamo insieme chi erano e come vivevano i Cavalieri del Tempio

La Grande Leggenda dei Cavalieri della Tavola Rotonda

I personaggi e i fatti più importanti del ciclo arturiano e della Tavola Rotonda

Le Leggende Medioevali

Personaggi, luoghi e fatti che hanno contribuito a conferire al Medioevo un alone di mistero che lo rende ancora più affascinante ed amato. Dal Ponte del Diavolo ai Cavalieri della Tavola Rotonda passando per Durlindana, la leggendaria spada di Orlando e i misteriosi draghi...

lunedì 31 marzo 2014

IL PROCESSO AI TEMPLARI - 5


Mentre ascoltava le deposizioni dei Templari comparsi al suo cospetto in Poitiers, alla fine del mese di giugno 1308, papa Clemente V si rese conto che le colpe da loro effettivamente confessate, cioè il rinnegamento verbale di Cristo e lo sputo verso la croce, non nascevano da una scelta volontaria bensì da uno strano, indegno rituale d’ingresso che veniva imposto tassativamente a tutti i nuovi membri. La ricerca storica ha permesso di appurare che si trattava di una messinscena fatta apposta per imitare le violenze cui andavano incontro i Templari caduti prigionieri dei saraceni in Terrasanta, i quali dovevano abiurare il cristianesimo proprio rinnegando il Cristo e sputando sulla croce; se si rifiutavano, venivano decapitati. Il rito era violento e scioccante, fatto anche di percosse per chi si rifiutava di obbedire: aveva la funzione di una prova per testare la tempra delle nuove leve, il loro carattere e le attitudini militari. Ad esso si erano poi aggiunti altri elementi di tipo goliardico, come l’obbligo di baciare le terga del superiore anziano per infliggere una cocente umiliazione al novellino e dargli un’idea dell’obbedienza totale che vigeva all’interno dell’ordine. Il papa si rese conto che questi atti, pure indegni e scandalosi per uomini impegnati da voti religiosi, non comportavano alcuna adesione intima: se non vi era libera volontà non vi poteva essere vero peccato, e l’unica grande colpa andava addossata alle gerarchie dell’ordine che aveva tollerato l’esistenza di queste vergognose tradizioni da caserma. Clemente V però non poté mai incontrare il capo dell’ordine, il Gran Maestro Jacques de Molay, e gli altri gerarchi maggiori, che pure stava aspettando: infatti a metà circa del viaggio da Parigi a Poitiers essi erano stati isolati dal resto del convoglio e rinchiusi nelle segrete del castello reale di Chinon, sulla Loira. Lo scopo di questa manovra era decapitare l’importanza del procedimento giudiziario del papa privandolo proprio dei membri più rappresentativi. Se l’inchiesta condotta a Parigi dall’Inquisitore fosse rimasta l’unica a contenere l’interrogatorio del Gran Maestro, poteva sempre essere presentata come il solo procedimento completo e autorevole.

Articolo della dott.ssa Barbara Frale

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Contattare telefonicamente, via fax o via mail i nostri uffici e provvederemo a verificare la disponibilità degli immobili e riscontrare la vostra richiesta. In caso di conferma invieremo modulo di prenotazione con indicate le coordinate bancarie per bonifico caparra o altra forma da concordare

ARRIVO E PARTENZA

Arrivati al nostro ufficio, verranno eseguite le pratiche di registrazione, versando il saldo ed i costi aggiuntivi concordati ed il deposito cauzionale di € 200,00 che verrà restituito alla partenza dopo che un nostro incaricato avrà accertato il buono stato dell'immobile locato. Consegna degli immobili: dalle ore 17:00 alle ore 20:00 e dovranno essere riconsegnati entro le ore 10:00 del giorno di partenza. Gli arrivi fuori orario dovranno essere obbligatoriamente preavvistati e concordati.

COSTI AGGIUNTIVI

Pulizia finale: monolocale € 50,00 - bilocale € 60,00 - trilocale € 70,00.
Consumi energetici per appartamento: monolocale € 55,00 - bilocale € 65,00 - trilocale € 75,00.
Su richiesta alla prenotazione: noleggio biancheria da letto € 12,00 - da bagno € 8,00 a persona a settimana.
La biancheria da cucina non è in dotazione. Il costo della pulizia finale non comprende l'angolo cottura, il frigorifero e le stoviglie: se non puliti ed in ordine verrà detratto il costo dalla cauzione.

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domenica 30 marzo 2014

IL PROCESSO AI TEMPLARI - 4

Non appena ricevette la notizia che tutti i Templari di Francia erano stati arrestati, Clemente V cominciò una lunga battaglia diplomatica allo scopo di poter incontrare personalmente i frati, che intanto rimanevano segregati nelle prigioni reali e custoditi dai soldati reali. Le uniche armi di cui disponeva erano la negoziazione diplomatica e la minaccia di scomunica; quest’ultima però non si era mostrata molto efficace nei recenti trascorsi dello scontro tra il re di Francia e papa Bonifacio VIII. Del resto, lo stesso Clemente V si trovava ad essere in un certo qual modo ostaggio del sovrano; lo avevano eletto dopo un conclave durato quasi un anno i cardinali riuniti in Italia mentre egli era in Francia, nella sua arcidiocesi di Bordeaux, e dal momento della sua elezione non riuscì mai a tornare in Roma: ogni volta che il viaggio veniva programmato, l’arrivo dell’esercito francese consigliava di rimandare la partenza. Tale situazione avrebbe poi determinato l’inizio della cattività avignonese. Alla fine del giugno 1308, dopo ben nove mesi di interrogatori illegali gestiti dal re e dall’Inquisizione, Clemente V poteva finalmente incontrare i Templari; erano una settantina di frati che il sovrano aveva acconsentito ad inviargli solo perché il papa si era rifiutato di prendere qualunque decisione prima di aver potuto esaminare gli imputati di persona: non si fidava del sovrano e neppure dell’Inquisizione, il cui capo frate Guillaume de Paris era stato da lui sospeso nei mesi precedenti per le gravi irregolarità commesse ed abuso di potere. Alcuni documenti tuttavia sembrano mostrare che il domenicano fu ingannato dai giuristi reali, perché il suo appoggio era indispensabile all’innesco del processo.

Articolo su concessione della dott.ssa Barbara Frale

sabato 29 marzo 2014

LA CONCEZIONE DEL TEMPO NEL MEDIOEVO

File:Clock - Clock tower - Piazza San Marco.jpg
La prossima notte segnerà l'ingresso dell'ora legale: come sappiamo il giorno si suddivide in 24 ore ma qualche secolo fa un'ora estiva poteva durare anche 75 minuti contro i 35 minuti di una invernale. Nella Roma antica il giorno era diviso in due parti (12 horae): dies naturalis (dal sorgere del sole al tramonto) e nox (dal tramonto al sorgere del sole). Il nuovo giorno scoccava con la mezzanotte (media nox) e questo valeva solo per i romani dato che sia i greci sia i babilonesi usavano considerare l'inizio del giorno al sorgere del sole. Il primo a dare una regola alle ore fu Benedetto da Norcia che nel VI secolo stabilì otto momenti distinti di preghiera
- lodi (alba)
- prima
- terza 
- sesta
- nona
- vespri
-compieta
Le preghiere erano raccolte nei celeberrimi Libri delle Ore. Successivamente fu la Chiesa ad imporre nuove concezioni del tempo: la conclusione della preghiera del Vespro indicava la fine di un giorno nuovo così come le campane all'alba ne segnavano l'inizio di uno nuovo. Questo, però, comportava notevoli problemi in quanto era necessario spostare di continuo le lancette dell'orologio. E fu proprio l'invenzione degli orologi meccanici a risolvere il problema: essi funzionavano grazie a pesi che scendendo battevano ore e quarti d'oro permettendo così una suddivisione del tempo in tante unità tutte uguali tra di loro. Grazie a questa invenzione fu possibile suddividere il giorno in 24 ore di durante sempre uguale. Gli orologi furono dotate di tacche e si estesero in tutta Europa col nome di "Ora Italiana". Tutto fu modificato dai francesi che nel XV secolo decisero di far partire il nuovo giorno dalla mezzanotte, proprio come si faceva a Roma antica. In Italia, Firenze fu la prima città ad utilizzare il metodo francese a partire dal 1749 seguita da Parma e dalla Liguria. Dopo la discesa di Napoleone in Italia, tutta la penisola adottò il metodo "alla francese".

Immagine tratta da Wikipedia, Autore: M0tty (Questo file è licenziato in base ai termini della licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo 3.0 Unported)

IL PROCESSO AI TEMPLARI - 3

In quei mesi dell’estate 1307, papa Clemente V era angustiato per via di ripetute denunce che gli provenivano da parte di Filippo il Bello, denunce circa una strana forma di corruzione che secondo il sovrano aveva completamente infettato l’ordine del Tempio. Poiché Filippo il Bello aveva fatto diffondere queste dicerie presso le maggiori corti d’Europa, agli inizi dell’estate 1307 il Gran Maestro frate Jacques de Molay si era rivolto al papa chiedendogli di svolgere un’inchiesta sullo stato dell’ordine onde fare chiarezza una volta per tutte; del resto il pontefice romano era l’unica autorità legittima in grado di indagare sui membri del Tempio. Clemente V aveva accettato e programmato l’apertura dell’inchiesta per la fine del mese di ottobre, appena terminata la sua terapia; se non ché, appena due settimane prima, ricevette da un corriere la notizia che tutti i Templari residenti in Francia erano stati arrestati all’improvviso dietro ordine del re. Gli uomini che avrebbe dovuto esaminare in realtà erano già stati dichiarati colpevoli, torturati e interrogati dall’autorità laica con l’appoggio dell’Inquisizione di Francia. Il sovrano motivava il suo gesto affermando che i Templari durante le loro cerimonie d’ingresso usavano rinnegare Gesù Cristo e sputare sulla croce, oltre a commettere altri reati minori; il tutto era stato accostato dai giuristi reali in un coerente teorema accusatorio per dimostrare che tali gesti erano la prova di un vero e proprio credo eretico.

Articolo per gentile concessione della dott.ssa Barbara Frale.

IL PROCESSO AI TEMPLARI - 2

Quello del Tempio, il primo ordine religioso e militare della cristianità, era nato a Gerusalemme verso l’anno 1120. Derivava dall’iniziativa di alcuni cavalieri laici che avevano fatto voto presso il Santo Sepolcro: il Patriarca di Gerusalemme aveva assegnato loro la missione specifica di combattere per difendere dai predoni islamici i pellegrini diretti ai Luoghi Santi. Il re di Gerusalemme Baldovino II intuì le potenzialità di questa confraternita e lavorò per farla diventare un vero e proprio ordine religioso preposto ala difesa del regno cristiano. Il progetto sollevava una delicata questione morale: i membri del nuovo ordine si sarebbero impegnati a vita con i tre voti monastici di povertà, obbedienza e castità, pur essendo propriamente dei guerrieri. Era necessario stabilire se le emergenze dettate dallo stato in cui versava la Terrasanta in quegli anni fossero conciliabili con la dottrina cristiana. Il più grande mistico dell’epoca, san Bernardo di Clairvaux, fu chiamato a definire la questione: ritenne che le due attività della preghiera e della guerra fossero compatibili qualora l’uso delle armi servisse lo scopo della difesa. Così nel 1129 un concilio tenuto a Troyes, nel nord della Francia, sanciva la nascita del nuovo ordine insieme religioso e militare; san Bernardo supervisionò la stesura della sua regola, strutturata su quella benedettina ma con alcuni prestiti dalla spiritualità agostiniana. Il fondatore Hugues de Payns e i suoi primi compagni avevano ricevuto in dono dal re di Gerusalemme una parte della sua reggia che sorgeva presso le rovine dell’antico Tempio di Salomone; perciò la gente del posto aveva preso a chiamarli Militia Salomonica Templi, o milites Templi, o anche Templarii. Nel giro di pochi decenni l’ordine crebbe a dismisura fino ad estendersi su gran parte dell’orbe cristiano: la sua idealità specifica era molto sentita nella società del tempo, i sovrani come pure la gente comune moltiplicavano le loro donazioni al Tempio che nel 1139 aveva anche ricevuto da papa Innocenzo II un privilegio speciale in virtù del quale godeva di un’esenzione completa ed era responsabile dinanzi alla sola persona del pontefice romano. I Templari divennero il nerbo dell’esercito cristiano in Terrasanta, in seguito affiancati dai frati dell’altro maggiore ordine religioso militare, l’Ospedale di San Giovanni in Gerusalemme; quest’ultimo aveva all’origine una funzione solo assistenziale, assumendo poi in seguito anche l’onere del combattimento per sopperire le necessità difensive della Tearrasanta. Nel 1187 il sultano Salahaddin riuscì a compattare il fronte islamico della Siria-Palestina che fino a quel momento era stato spaccato da divisioni interne. I cristiani subirono una memorabile sconfitta presso il luogo chiamato I corni di Hattin: Gerusalemme fu perduta e il Santo Sepolcro tornò di nuovo in mano islamica. Nei decenni seguenti divenne sempre più chiaro che il progetto crociato era sul viale del tramonto, e la società occidentale cominciò a nutrire una grande sfiducia verso gli ordini militari: erano stati creati e nutriti di privilegi per la difesa della Terrasanta, ma ormai sembravano come incapaci di tenere fede al loro impegno. Quando nel 1291 cadde anche la città di Acri, ultimo baluardo della presenza cristiana in Siria-Palestina, anche il papato cominciò a credere che fosse necessario procedere ad una sostanziale riforma degli ordini militari. Proprio a questo progetto stava lavorando papa Clemente V nell’anno 1306, quando aveva inviato una consultazione ai due capi dei Templari e degli Ospitalieri chiedendo il loro parere circa una possibile fusione dei due maggiori ordini militari in un ente unico. In un certo senso, fu l'inizio della fine.

Articolo gentilmente concesso dalla dott.ssa Barbara Frale

IL PROCESSO AI TEMPLARI - 1


Questo è il discorso che lessi nell'Aula del Sinodo Vecchio (Vaticano) durante la presentazione di Processus contra Templarios: dopo ben settecento anni, il Vaticano pubblicava per la prima volta i documenti originali del famoso processo avvenuto fra 1307 e 1314, che io avevo già studiato in forma privata. Lessi il testo qui di seguito in presenza del cardinale Segretario di Stato; in genere parlo sempre a braccio durante una conferenza, ma quel giorno l'emozione era tale che non ne sarei stata capace. Soprattutto una cosa m'impressionava: rinchiuso in prigionia, durante gli anni del processo l'ultimo Gran Maestro Jacques de Molay aveva chiesto molte volte di parlare con il papa, cosa che gli agenti del re di Francia non permisero mai. Ecco, in quel giorno di settecento anni dopo, in qualche modo, le sue ragioni risuonarono sotto le volte antiche del Vaticano, giungendo fino al santo Padre, benché in forma indiretta. Ma basta con le mie chiacchiere personali, ecco la sostanza dei fatti. Il discorso è rimasto finora inedito, e sono felice di condividerlo con voi, a piccole dosi, come bisogna fare sul web.

1

Il 18 marzo 1314 l’ultimo Gran Maestro dell’ordine del Tempio Jacques de Molay moriva sul rogo a Parigi, in un’isoletta della Senna. Moriva dopo essere stato letteralmente rapito per un ordine del re di Francia Filippo IV il Bello: infatti era stato sottratto dalle mani degli ecclesiastici che lo attendevano all’indomani per sottoporlo ad un altro interrogatorio. Pur essendo stato assolto dall’autorità del papa e ricevendo regolarmente i sacramenti, moriva con una condanna per eresia. In tal modo il re liquidava alla spicciola un lungo, complicatissimo caso che aveva coinvolto e scandalizzato tutta la società cristiana. Era l’ultimo atto di un processo durato ben sette anni che si chiudeva proprio come si era aperto: cioè sotto il segno della violenza e dell’illegalità.

Il 13 ottobre 1307 papa Clemente V si trovava nelle campagne presso Poitiers, dove la Curia Romana risiedeva a quel tempo. Stava completando una terapia depurante a base di lassativi ed acque termali secondo quanto gli avevano prescritto i suoi medici; il papa, che era vicino agli ottant’anni, soffriva da tempo di una malattia molto grave che oggi è difficile individuare: sappiamo però che gli provocava violenti accessi di febbre e persino emorragie. La cura si sarebbe conclusa per la fine di ottobre; allora il papa avrebbe cominciato un lavoro programmato da tempo, ovvero un’inchiesta pontificia sullo stato dell’ordine templare. Non poté mai svolgerla: l’arresto improvviso e indebito dei Templari da parte del re di Francia gli aveva sottratto ogni controllo sulla questione. Ma facciamo un passo indietro, per vedere chi erano, i Templari.

Articolo concesso dalla dott.ssa Barbara Frale

venerdì 28 marzo 2014

LA BATTAGLIA DI AD DECIMUM

Il Basso medioevo ha visto la riconquista dei territori occidentali da parte dell'esercito Romano d'Oriente. Se  la guerra gotica è citata da numerosissime fonti, la riconquista dell'Africa è meno nota. Voglio ricordare il momento finale della guerra quando la potenza dei Vandali fu spezzata. Una premessa i Vandali urna una popolazione germanica fortemente cristianizzata con una visione integralista della religione, in particolare seguivano la corrente ariana. tale corrente era oramai vista dai cattolici come eretici e per tanto da estirpare.
Ci tengo a sottolineare questo contesto in quanto le guerre di Giustiniano avevano il sottofondo (mai troppo enfatizzato) della guerra di religione. In effetti la chiave di interpretazione della guerra gotica (ad esempio) è proprio la religione, i goti governavano si autonomamente la penisola, ma nella forma lo facevano nel nome dell'Imperatore unico che sedeva a Costantinopoli. Fu il loro rifiuto ad abbandonare l'eresia ariana una delle molle formali per intraprendere la guerra. Così come fu in Africa la completa intolleranza religiosa imposta dai vandali alle popolazioni autoctone che se non divenivano ariane erano perseguitate, con deportazioni, eccidi e distruzioni della vegetazione (furono i costanti disboscamenti operati dai vandali a innescare la desertificazione dei territori nord africani). Il momento finale della guerra romano-vandalica fu la Battaglia di Ad Decimum. L'esito di questo scontro segnò l'inizio del declino dei Vandali e il primo passo della riconquista dei territori occidentali da parte dell'Imperatore Giustiniano. La battaglia  fu combattuta il 13 settembre 533 tra l'esercito dei Vandali, comandato dal Re Gelimero, e quello Romano sotto il comando del Generale Belisario. Ad Decimum  (dal latino a dieci miglia), è la semplice indicazione topografica del punto in cui fu combattuta la battaglia, posta appunto dieci miglia a sud di Cartagine. Le forze Vandale erano inferiori di numero, ma la tattica militare che utilizzavano era più efficace di quella romana e la cosa avrà un peso nell'evolversi del combattimento. La tattica di Gelimero è quanto mai semplice avanzare sino al punto più favorevole della strada di comunicazione per Cartagine un luogo stretto ove è necessario procedere incolonnati, e li attendere l'arrivo dei 15000 romani. A questo punto il re divide le sue truppe in tre tronconi 7000 uomini restano sul posto sotto il suo comando; 2000 uomini  marciano, al comando del nipote Gibamondo, per attaccare la lunga colonna romana sul fianco sinistro; altri 2000 effettivi al comando del fratello del Re: Ammata avevano il compito di contenere in questa gola le truppe romane di Belisario. Se il piano fosse riuscito i romani si sarebbero trovati in trappola attaccati da tre lati e senza la possibilità di manovrare per la conformazione del terreno. Gimabondo fallì tuttavia nel porre a termine la sua missione: una forza di Romani e di mercenari Unni respinse i suoi 2.000 uomini disperdendoli; lo stesso Gibamondo fu ucciso nel combattimento. Contemporaneamente le truppe di Gelimero si scontrarono frontalmente con l’esercito romano, le truppe di Belisario videro i contingenti mercenari messi in rotta dai Vandali che, anche se inferiori sul piano numerico, combattevano in maniera più efficace, tanto che il centro composto dalle truppe romane subiva incessanti perdite. Tutto faceva propendere per una vittoria vandala. Ma ecco l’imprevisto; quando le truppe di Ammata e Gelimero si ricongiunsero il Re  e iniziarono il combattimento per annientare le spossate forze romane il fratello del Re venne ucciso. Gelimero si perse d’animo e abbandonò il combattimento per cercare le spoglie del nipote, sottrarle alla furia del luogo e dargli sepoltura. La relativa pausa fi immediatamente recepita e sfruttata da Belisario che raggruppando il suo esercito approfittò della strada libera per porsi in nuovo schieramento più a sud. Effettuate queste manovre Belisario lanciò un  contrattacco respinse i Vandali e li mise in fuga. Tanto inaspettato il contrattacco che  Gelimero fu costretto addirittura ad abbandonare Cartagine. Belisario si accampò vicino al campo di battaglia, non volendo avvicinarsi troppo alla città durante la notte. Il mattino dopo marciò su Cartagine, ordinando ai propri uomini di non uccidere o ridurre in schiavitù la sua popolazione (com'era normale pratica di quel periodo) poiché abitata prevalentemente da cittadini romani sottoposti al giogo vandalo. Trovando le porte della città aperte e la popolazione che lo acclamava, il generale bizantino si diresse immediatamente al palazzo reale sedendosi sul trono dei Re Vandali. Decise inoltre di ricostruire le fortificazioni intorno a Cartagine.  Da quel momento furono scaramucce che portarono al disfacimento della forza militare vandala e della loro scomparsa dalla storia.

Articolo di Luigi Caliendo. Tutti i diritti riservati. 

giovedì 27 marzo 2014

UNGHERIA: SCOPERTA LA TOMBA DI ATTILA?


Attila

Durante alcuni lavori edili per la costruzione di un ponte sul Danubio a Budapest è stato scoperto un incredibile sepolcro del V secolo che potrebbe essere la camera sepolcrale di un grande re unno, molto probabilmente lo stesso Attila. "Questo sito è incredibile" ha detto Rümschtein Albrecht storico della Lorand University di Budapest e membro del team di specialisti che si sta dedicando allo studio della tomba. Oltre alla tomba sono stati trovati innumerevoli scheletri di cavalli, armi e suppellettili varie tutte associabili agli Unni. Tra gli oggetti rinvenuti sarebbe presente anche la spada leggendaria di Attila concessa, secondo la tradizione, dal dio Marte. Altre analisi sono ancora in corso per certificare l'effettiva presenza del sepolcro del "Flagello di Dio". La scoperta di questo importante sito funerario colmerebbe alcune lacune culturali che avvolgono la storia degli unni ponendo l'accento anche sulle reti commerciali e le loro origini.


Attila era il re degli unni, un popolo nomade dell'Asia centrale. Governò dal 434 d.C. al 453. Condottiero di rara capacità e forza, condusse innumerevoli incursioni militari sia nell'impero romano di oriente che in quello occidentale provocando quella che passerà alla storia come "invasioni barbariche" (o meglio dire "spostamento") catalizzatrici di quel processo di caduta dell'impero romano che vedrà compimento nel 476 d.C.


"LA STORIA DEI TEMPLARI RACCONTATA A SAN BEVIGNATE" - MARTEDI' 1 APRILE 2014 ORE 18.00

La leggenda templare: un caso emblematico 
di medievalismo contemporaneo 

TOMMASO DI CARPEGNA FALCONIERI
Università degli Studi di Urbino

Introduce PAOLA MONACCHIA



Dopo il grande successo di pubblico riscosso dalla relazione di Barbara Frale, tenuta nel giorno della ricorrenza del settimo centenario della morte sul rogo di Jacques de Molay (18 marzo 1314), prosegue il ciclo di conferenze La storia dei Templari raccontata a San Bevignate, organizzato dal Comune di Perugia con il contributo della Regione Umbria e con il patrocinio, tra gli altri, del Senato della Repubblica. Relatore sarà questa volta Tommaso di Carpegna Falconieri, che martedì 1° aprile, alle ore 18:00, terrà nel complesso monumentale di San Bevignate una conferenza dal titolo La leggenda templare. Un caso emblematico di medievalismo contemporaneo.
Tommaso di Carpegna Falconieri insegna Storia medievale presso l’Università degli Studi di Urbino. Le sue ricerche vertono prevalentemente sulla storia di Roma, della Chiesa romana e dell'Italia centrale. A tale riguardo, oltre alla monografia su Cola di Rienzo (Salerno Editore, 2002), si segnalano le numerose voci sui Montefeltro contenute nel Dizionario biografico degli italiani (vol. 76, anno 2012). In L’uomo che si credeva re di Francia. Una storia medievale, (Laterza, 2005) ha invece indagato il tema delle testimonianze storiche, soprattutto in relazione al falso e all'impostura. Attualmente sta concentrando i propri interessi sull'uso politico del medioevo nel mondo contemporaneo. Su questo argomento, ha pubblicato nel 2009 il saggio Barbarossa e la Lega Nord: a proposito di un film, delle storie e della Storia (in "Quaderni storici", 132) e un libro di grande successo dal titolo Medioevo militante
La politica di oggi alle prese con barbari e crociati (Einaudi, 2011) in cui, al termine di un Prologo fortemente suggestivo, il medioevo è definito un'utopia. Quello che prevale nell'opinione e nella percezione comune è, infatti, un medioevo mitico, immaginario, talvolta volutamente mistificato, utilizzato come una sorta di inesauribile contenitore da cui estrarre modelli, esempi e identità. Ed è in questo tentativo di perpetuare le gesta, gli ideali, i valori e i presunti riti dell'Ordine del Tempio che si colloca la leggenda templare, un esempio emblematico, a parere di Tommaso di Carpegna, di medievalismo contemporaneo. Non a caso, nel capitolo dal titolo Templari e santo Graal: un medioevo nella Tradizione, l'autore sottolinea come "il mito della cavalleria medievale ha avuto esiti e interpretazioni anche di tipo esoterico", nel convincimento che "il passato medievale racchiude tesori di sapienza e verità" preservati nei secoli e "resi noti a gruppi di illuminati" che beneficiano di una conoscenza autentica e completa per il tramite di un accesso iniziatico e di percorsi sapienziali. Se dunque all'ordine fratello dei cavalieri ospitalieri di San Giovanni di Gerusalemme (poi cavalieri di Rodi e infine di Malta) sono toccati in sorte i beni materiali dei milites Templi, della storia e della memoria del Tempio e dei suoi presunti rituali si sono fatti carico, da posizioni talvolta antagoniste, la storiografia, le arti e la letteratura, contribuendo così a perpetuarne il mito attraverso opere come Le tombeau de Jacques Molai ou histoire secrète et abrégée des initiés anciens et modernes (1796) di Cadet de Gassicourt, farmacista di Napoleone, e la tragedia in cinque atti Les Templiers (1805) del filologo romanzo e drammaturgo Raynouard. Si comprende così come la "spettacolarizzazione della storia" cui continuamente si assiste − grazie anche all'enorme successo di certa produzione letteraria, televisiva e cinematografica − trae molti dei suoi contenuti proprio dal medioevo cavalleresco iniziatico, "tempo arcano di profondi misteri" in cui si passa con estrema facilità dalle coordinate spazio-temporali della storia alle suggestioni della leggenda e del mito.




FEDERICO BARBAROSSA

Federico BarbarossaNon fu facile per Federico di Hohenstaufen, duca di Svevia, in quel lontano 1152, convincere i grandi elettori tedeschi che la sua candidatura al trono di Germania, e dunque a quello imperiale, sarebbe stata la migliore e, soprattutto, l’unica in grado di riportare stabilità nei territori germanici, in preda da decenni alle scorrerie dei nobili perennemente in rivolta. Nelle sue vene scorreva il sangue delle due piú grandi casate del regno di Germania: quella dei Welfen (da cui «Guelfo»), duchi di Sassonia e di Baviera, e quella degli Hohenstaufen, proprietari del castello di Waiblingen (da cui «Ghibellino»), duchi di Svevia; e ciò gli procurava un vantaggio significativo. In ogni caso, la morte inaspettata del re Corrado III, zio di Federico, e la giovane età del figlio Enrico, accelerarono il ritmo degli eventi. Si doveva far presto e muoversi con grande prudenza. L’arcivescovo di Magonza, Enrico I, al quale spettava la reggenza nei momenti di vacanza del trono, era notoriamente avverso alla casa di Svevia: fedele al papa, non vedeva con favore l’ipotesi di un sovrano capace di regnare con mano ferma, e che avrebbe finito per condizionare tutta la politica ecclesiastica in Germania. Insomma, la situazione di instabilità favoriva i disegni del prelato e dei suoi alleati, in grado di fungere fino a quel momento da ago della bilancia nel complicato scacchiere politico tedesco.

La dieta elettorale del regno si aprí il 4 marzo 1152, a Francoforte, città soggetta all’autorità dell’arcivescovo di Magonza. Il quale propose la nomina di una commissione composta dai grandi principi allo scopo di eleggere il nuovo re, ma, contemporaneamente, dagli accampamenti militari si levò imperioso il grido «Fridericus rex!». Che risuonò dovunque. Fu cosí che il duca di Svevia divenne re di Germania e re dei Romani, titolo che gli conferiva il diritto di cingere a Roma la corona imperiale. Inoltre, dal X-XI secolo, il re di Germania godeva altresí del privilegio di ottenere le corone reali d’Italia e di Borgogna. Le proteste dell’arcivescovo di Magonza vennero prontamente tacitate e, dopo appena cinque giorni, Federico fu incoronato re di Germania ad Aquisgrana. Tra il 1152 e il 1154 il nuovo sovrano si dedicò agli affari tedeschi. Aveva intuito che solo costruendosi una base territoriale ed economica sufficientemente forte avrebbe potuto esercitare il potere, che nessuna delle corone conferitegli avrebbe di fatto potuto assicurargli. La politica di pacificazione della Germania seguiva due linee direttrici: la rifeudalizzazione del regno, imposta a Federico dal potere dei principi ai quali doveva la sua elezione – attuata però con il superamento della struttura dei ducati etnici che l’avevano caratterizzato –, e il rafforzamento del principio della superiore unità territoriale, garantita dal sovrano stesso. Il re svevo si prodigò quindi nel creare una nuova aristocrazia, i ministeriales, fedelissimi alla corona, ai quali affidava i territori confiscati ai vassalli ostili alla sua linea politica. In tal modo si proponeva di controllare i suoi riottosi sudditi, e, al contempo, creare una classe dirigente che desse nuovo impulso all’amministrazione regia. Costoro, sebbene in gran parte di origine servile, venivano insigniti della dignità cavalleresca e presto imparavano a vivere e a comportarsi da gran signori. Nello stesso periodo Federico emanò una costituzione di pace da applicarsi in tutto il regno germanico: il Landfrieden (da Land, «terra», e Frieden, «pace»), che aveva lo scopo di riaffermare il potere regale contro ogni forma di anarchia e in cui si stabilivano le diverse pene per chi si fosse macchiato di reati quali l’omicidio, l’usurpazione dei poteri pubblici, la speculazione sui prezzi dei cereali, il furto e l’abuso nella riscossione dei pedaggi. Con il Landfrieden Federico intendeva colpire i fattori di disordine e di instabilità che attraversavano il regno, e riportare cosí pace e stabilità sociale all’ombra di un potere regio efficiente e attivo. 


Nel 1154 Federico scese in Italia per cingere la corona del regno e quella imperiale. I rapporti con il papa non erano certo idilliaci. Non bisogna dimenticare che la sua elezione era avvenuta contro il volere della maggior parte del clero tedesco e nella lettera in cui si comunicava a papa Eugenio III l’avvenuta elezione a re di Germania, Federico aveva volutamente omesso qualunque accenno all’approvazione pontificia, cosa che era avvenuta puntualmente fino ad allora, e che il pontefice non mancò di rilevare nella sua, formalmente cortese, risposta. Tuttavia, la situazione politica spingeva verso un accordo tra Federico e il successore di Pietro. Normanni e Bizantini minacciavano l’integrità territoriale dei dominii ecclesiastici e a Roma, inoltre, era scoppiata una rivolta contro il papa, guidata dal monaco Arnaldo da Brescia, tanto che Adriano IV aveva dovuto abbandonare temporaneamente la città per ritirarsi a Orvieto. Nel 1153, alla vigilia della discesa in Italia di Federico, era stato stipulato presso Costanza un trattato fra il re tedesco e i legati del papa. Nel trattato si stabiliva che Federico, in quanto defensor ecclesiae, avrebbe tutelato il Seggio di Pietro dai rivoltosi romani, non avrebbe fatto pace con il re normanno di Sicilia, Ruggero II, e avrebbe rintuzzato qualunque attacco da parte del basileus di Bisanzio. In cambio, il re otteneva mano libera sulla Chiesa tedesca, in particolare riguardo alle nomine vescovili e abbaziali, lo scioglimento del suo matrimonio con Adela di Vohburg, che non gli aveva dato eredi, e il «via libera» all’incoronazione imperiale. Varcate le Alpi, Federico, come prima mossa, attaccò i Comuni di Asti e Chieri, a lui ostili, e li consegnò al marchese di Monferrato, suo fedele vassallo. Nel 1155 il Barbarossa entrò in Roma, represse il libero Comune che si era nel frattempo formato e ne consegnò al pontefice Adriano IV l’animatore, Arnaldo da Brescia, che, dal 1143, aveva iniziato a fomentare il popolo romano contro il potere temporale dei papi. Arnaldo fu arso sul rogo, ma le cronache dicono che Federico non fosse «contento» di tale soluzione. Il 18 giugno lo Svevo venne solennemente insignito della corona imperiale in S. Pietro. La cerimonia fu piuttosto frettolosa, perché la popolazione minacciava disordini e la guardia regia faticò per tenere a bada i rivoltosi.

Il disegno imperiale di Federico consisteva nel creare tra Italia, Germania e Borgogna, unitamente alle amate terre sveve, un nucleo territoriale forte e compatto, che, tra l’altro, avrebbe fatto da base di partenza per intervenire in ogni parte dell’impero. Vedremo in seguito come questo sogno fosse destinato a restare tale.
Prima di raggiungere Roma, Federico aveva fatto tappa a Bologna, dove fu accolto dai professori della giovane Università, nella quale si andavano riscoprendo i fondamenti del diritto romano. A tale incontro si fa risalire il privilegio concesso dal Barbarossa, conosciuto come Constitutio Habita, con il quale egli prendeva sotto la propria ala protettrice professori e studenti bolognesi. Proprio dalla riscoperta del diritto giustinianeo, mutuato dalla tradizione classica, Federico traeva spunto per riaffermare le proprie prerogative in Italia, contro l’usurpazione messa in atto dai Comuni, per ribadire la propria autonomia rispetto al potere della Chiesa. Il contatto coi giuristi bolognesi mostrava in nuce l’idea, cara a Federico, della Traslatio Imperii, già presente nella corte carolingia, secondo cui la sovranità del mondo sarebbe passata dai Greci ai Romani, da questi ai Franchi e dunque ai Tedeschi. L’impero romano-germanico non apparteneva quindi al capo della Chiesa poiché, sulla scorta dei dottori di Bologna, l’impero romano «precedeva» il sacerdozio e quindi non poteva essergli subordinato. Anche in virtú di tale convincimento, l’imperatore decise di mettere ordine nelle questioni italiane (dell’Italia centro-settentrionale), dove si era sviluppata una fiorente civiltà comunale. Pare che proprio in questo periodo a Federico sia stato dato il soprannome di Barbarossa. Il termine proveniva dal latino rubeus e secondo alcuni, tra cui Guglielmo arcivescovo di Tiro, gli uomini rossi sarebbero stati infidi e tirannici. Probabilmente per questa ragione i Milanesi e i loro alleati cominciarono a chiamarlo Barbarossa, con esplicito intento dispregiativo.

Milano era la città che aveva catalizzato le forze comunali che si contrapponevano all’imperatore. Per questo, nel 1157, Federico decise di scendere per la seconda volta in Italia, anticipato da due suoi legati: Rainaldo di Dassel e Ottone di Wittelsbach, i quali ricevettero il giuramento di fedeltà da parte di Verona, Mantova, Cremona e Pavia, nemiche dei Milanesi. Dopo aver messo ordine in Romagna e in Toscana, il 10 luglio le truppe imperiali, ricongiuntesi sul Mincio, posero l’assedio a Brescia, la piú fedele alleata di Milano. Poi Federico pose sotto assedio il capoluogo lombardo che, stremato, cedette ai primi di settembre. Le condizioni poste da Federico ai Milanesi furono durissime. L’imperatore convocò quindi due successive diete, presso Roncaglia, vicino a Piacenza; nel corso della seconda, nel 1158, emanò la Constitutio de regalibus, nella quale si elencavano i diritti regi usurpati dai Comuni, e che l’imperatore, in quanto re d’Italia, intendeva recuperare. Federico, insomma, si presentava come un sovrano assoluto, slegato da ogni legge in quanto egli stesso fonte di diritto. A elaborare la lunga lista dei regalia furono i giuristi bolognesi, che l’avevano desunta in parte dal Corpus Iuris di Giustiniano e in parte dal diritto consuetudinario.

Fu una politica, però, che procurò al sovrano svevo molti nemici. In primo luogo numerosi Comuni, i quali, dalla morte di Enrico V in poi, si erano appropriati dei diritti spettanti al sovrano; poi del nuovo papa, il Senese Rolando Bandinelli, asceso al soglio pontificio col nome di Alessandro III, che intendeva proseguire la politica ierocratica di Gregorio VII; e, infine, del basileus di Costantinopoli, Manuele Comneno, il quale considerava Federico un pericolo per il suo prestigio imperiale e un serio ostacolo alla politica di affermazione della sua autorità in Occidente. Papa e basileus si unirono dunque con i Comuni italiani in un fronte unico, la cui pericolosità non sfuggí al Barbarossa. Solo nel 1162, dopo un assedio estenuante, e, soprattutto, dopo aver ottenuto l’appoggio di alcuni principi tedeschi e delle città italo-settentrionali ostili a Milano, riuscí a sconfiggere definitivamente la città lombarda, che fu rasa al suolo. Per quanto riguarda il versante dei rapporti col papa, il sovrano svevo aveva cercato di scongiurare in tutti i modi l’elezione di Rolando Bandinelli, e i cardinali a lui fedeli avevano addirittura eletto un antipapa, Vittore IV, provocando cosí uno scisma. Nel 1167 si era costituita la Societas Lombardiae – che siamo soliti chiamare Lega Lombarda –, formata da sedici città, tra cui anche Lodi e Cremona, un tempo fedeli all’imperatore. Per prima cosa la Lega fece ricostruire Milano – distrutta cinque anni prima dal Barbarossa – e fondò una nuova città: Alessandria, in onore del papa Alessandro III. Nel frattempo, anche la situazione tedesca era andata complicandosi. Il perdurare dello scisma aveva alienato all’imperatore l’appoggio dei principi ecclesiastici, e il rapporto con suo cugino, Enrico il Leone (che, mentre Federico era in Italia, aveva tenuto al suo posto le redini della Germania), si era fortemente deteriorato. Quando Federico scese di nuovo in Italia nel 1174 per domare la rivolta dei Comuni, le truppe al suo seguito erano esigue, Milano aveva recuperato la leadership delle città lombarde e Alessandro III si era rafforzato, al punto da far apparire illusorio lo scisma. Solo il marchesato del Monferrato e la contea di Briadante erano rimaste fedeli all’imperatore, ma il loro potere andava declinando di fronte a un organismo forte come la Lega.

Tuttavia, la discesa di Federico fu inizialmente coronata da alcune vittorie: Susa e Asti furono sconfitte e Alessandria posta sotto duro assedio. Comunque sia, le forze della Lega erano largamente preponderanti, soprattutto grazie alla fanteria, che pare ammontasse a 4000 soldati. Cosí, nel maggio del 1176, Federico dovette subire la cocente sconfitta di Legnano, dove le sue truppe furono sbaragliate e lui stesso fu creduto morto. Lo scudo, il vessillo, la croce e la lancia dell’imperatore caddero nelle mani dei Milanesi. Quei superbi trofei di guerra vennero mostrati sul campo e in città. La situazione era grave, e l’imperatore, salvo per miracolo, capí che la prima mossa da fare sarebbe stata quella di incrinare il troppo vasto fronte avversario. Avviò dunque un intenso lavorio diplomatico, allo scopo di riconciliarsi con Alessandro III. Il Bandinelli, dal canto suo, desiderava porre fine allo scisma che lacerava la cristianità, e sapeva bene che ciò sarebbe stato possibile solo con l’approvazione dell’imperatore. I due raggiunsero un accordo a Venezia, nel 1177, in seguito al quale i Comuni abbandonati dal pontefice (che nel frattempo aveva ritirato la scomunica al Barbarossa), e la cui alleanza cominciava a mostrare vistose crepe,  preferirono percorrere la strada dell’accordo con l’imperatore, il quale, nello stesso periodo, venne a patti anche con il re di Sicilia tramite il matrimonio di suo figlio Enrico con Costanza d’Altavilla, erede al trono siculo-normanno. Si trattava ora di regolare i conti con Enrico il Leone, al quale l’imperatore non aveva perdonato d’averlo abbandonato nel momento del bisogno e al quale attribuiva la colpa della sconfitta patita a Legnano. Il 25 luglio del 1180 Federico aprí la campagna contro il cugino; da Werla, in Sassonia, il sovrano emanò un’ordinanza con la quale scioglieva tutti i vassalli dell’ex duca Enrico dal giuramento di fedeltà. Dopo una breve resistenza in Turingia, il Leone dovette piegarsi; sconfitto, si presentò alla dieta di Erfurt in abito da penitente, supplicando il perdono dell’imperatore: gli vennero tolti tutti i diritti feudali e inoltre venne bandito per tre anni.

L’imperatore iniziò ora a guardare a Oriente, dove i Bizantini erano stati costretti a ridimensionare i loro sogni espansionistici verso i Balcani e l’Italia adriatica in seguito alla sconfitta subita presso Myriokephalon, in Turchia, per mano del sultano di Iconio (oggi Konya), Kilidji Arslan. Il quadro politico era dunque repentinamente mutato in favore di Federico. Ma, nel 1187, Saladino aveva riconquistato Gerusalemme, scatenando cosí una nuova crociata alla quale presero parte Riccardo Cuor di Leone, re d’Inghilterra, Filippo Augusto, re di Francia, e lo stesso Barbarossa. Durante l’attraversamento delle terre d’Oriente Federico incontrò il suo destino finale. In una calda giornata del giugno 1190, durante l’attraversamento dell’Anatolia, Federico I detto il Barbarossa trovò la morte nel fiume Salef, tra le gole del Tauro, mentre prendeva un bagno. Forse un attacco cardiaco dovuto alla temperatura troppo fredda delle acque – sembra che avesse consumato il pasto poco prima di tuffarsi – ne causarono l’annegamento, gettando nella prostrazione piú profonda i crociati tedeschi e nell’incredulo sconforto la crisitianità occidentale. Lo storico bizantino Niceta Coniate, a lui duramente avverso, scrisse: «Lo zelo di quest’uomo fu degno degli apostoli; la sua intenzione religiosa non inferiore in niente alla santità […] per questo la sua morte fu felice». 

Articolo, di Alessandro Bedini, per gentile concessione di Medioevo, rivista numero 157 Febbraio 2010

Bibliografia Consigliata

  • Ruggiero Rizzi, Federico I e Federico II Hohenstaufen – Genesi di due personalità alla luce della storia, della medicina e della psicologia, Manduria, Barbieri Editore s.r.l., 2009. ISBN 978-88-7533-045-3
  • Federico A. Rossi di Marignano, Federico Barbarossa e Beatrice di Borgogna. Re e regina d'Italia, Mondadori, Milano 2009.
  • Elena Percivaldi, I Lombardi che fecero l'impresa. La Lega Lombarda e il Barbarossa tra storia e leggenda, Milano, 2009, Ancora Editrice. ISBN 88-514-0647-2
  • Manrico Punzo, Storia minima della fondazione di Alessandria - Papa Alessandro III / Federico Barbarossa - I due grandi rivali, in "Nuova Alexandria", Anno III, n° 10, Ugo Boccassi Editore, Alessandria, 1997
  • J.M. Hussey, "Gli ultimi macedoni, i Comneni e gli Angeli, 1025-1204", cap. VI, vol. III (L'impero bizantino) della Storia del Mondo Medievale, 1999, pp. 230-290.
  • F. Taeschner, "I turchi e l'impero bizantino alla fine del XII secolo", cap. XVII, vol. III (L'impero bizantino) della Storia del Mondo Medievale, 1999, pp. 659-676.
  • Ferdinand Chalandon, "La conquista normanna dell'Italia meridionale e della Sicilia", cap. XIV, vol. IV (La riforma della chiesa e la lotta fra papi e imperatori) della Storia del Mondo Medievale, 1999, pp. 483-529.
  • GY. Moravcsik, "L'Ungheria e Bisanzio nel Medioevo", cap. XVIII, vol. IV (La riforma della chiesa e la lotta fra papi e imperatori) della Storia del Mondo Medievale, 1999, pp. 644-670.
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  • Louis Alphen, "La Francia: Luigi VI e Luigi VII (1108-1180)", cap. XVII, vol. V (Il trionfo del papato e lo sviluppo comunale) della Storia del mondo medievale, 1999, pp. 705-739
  • Frederick Maurice Powicke, "I regni di Filippo Augusto e Luigi VIII di Francia", cap. XIX, vol. V (Il trionfo del papato e lo sviluppo comunale) della Storia del mondo medievale, 1999, pp. 776-828
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  • Kamil Krofta, "La Boemia fino all'estinzione dei Přemyslidi", cap. II, vol. VII (L'autunno del Medioevo e la nascita del mondo moderno) della Storia del Mondo Medievale, 1999, pp. 57-82.
  • Paul Fournier, "Il regno di Borgogna o d'Arles dal XI al XV secolo", cap. XI, vol. VII (L'autunno del Medioevo e la nascita del mondo moderno) della Storia del Mondo Medievale, 1999, pp. 383-410.
  • Federico Rossi Di Marignano: "Federico Barbarossa e Beatrice di Borgogna. Re e regina d'Italia", Mondadori, 2009, ISBN 88-04-58676-1 ISBN 978-88-04-58676-0

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