Non fu facile per Federico di Hohenstaufen, duca di Svevia, in quel lontano 1152, convincere i grandi elettori tedeschi che la sua candidatura al trono di Germania, e dunque a quello imperiale, sarebbe stata la migliore e, soprattutto, l’unica in grado di riportare stabilità nei territori germanici, in preda da decenni alle scorrerie dei nobili perennemente in rivolta. Nelle sue vene scorreva il sangue delle due piú grandi casate del regno di Germania: quella dei Welfen (da cui «Guelfo»), duchi di Sassonia e di Baviera, e quella degli Hohenstaufen, proprietari del castello di Waiblingen (da cui «Ghibellino»), duchi di Svevia; e ciò gli procurava un vantaggio significativo. In ogni caso, la morte inaspettata del re Corrado III, zio di Federico, e la giovane età del figlio Enrico, accelerarono il ritmo degli eventi. Si doveva far presto e muoversi con grande prudenza. L’arcivescovo di Magonza, Enrico I, al quale spettava la reggenza nei momenti di vacanza del trono, era notoriamente avverso alla casa di Svevia: fedele al papa, non vedeva con favore l’ipotesi di un sovrano capace di regnare con mano ferma, e che avrebbe finito per condizionare tutta la politica ecclesiastica in Germania. Insomma, la situazione di instabilità favoriva i disegni del prelato e dei suoi alleati, in grado di fungere fino a quel momento da ago della bilancia nel complicato scacchiere politico tedesco.
La dieta elettorale del regno si aprí il 4 marzo 1152, a Francoforte, città soggetta all’autorità dell’arcivescovo di Magonza. Il quale propose la nomina di una commissione composta dai grandi principi allo scopo di eleggere il nuovo re, ma, contemporaneamente, dagli accampamenti militari si levò imperioso il grido «Fridericus rex!». Che risuonò dovunque. Fu cosí che il duca di Svevia divenne re di Germania e re dei Romani, titolo che gli conferiva il diritto di cingere a Roma la corona imperiale. Inoltre, dal X-XI secolo, il re di Germania godeva altresí del privilegio di ottenere le corone reali d’Italia e di Borgogna. Le proteste dell’arcivescovo di Magonza vennero prontamente tacitate e, dopo appena cinque giorni, Federico fu incoronato re di Germania ad Aquisgrana. Tra il 1152 e il 1154 il nuovo sovrano si dedicò agli affari tedeschi. Aveva intuito che solo costruendosi una base territoriale ed economica sufficientemente forte avrebbe potuto esercitare il potere, che nessuna delle corone conferitegli avrebbe di fatto potuto assicurargli. La politica di pacificazione della Germania seguiva due linee direttrici: la rifeudalizzazione del regno, imposta a Federico dal potere dei principi ai quali doveva la sua elezione – attuata però con il superamento della struttura dei ducati etnici che l’avevano caratterizzato –, e il rafforzamento del principio della superiore unità territoriale, garantita dal sovrano stesso. Il re svevo si prodigò quindi nel creare una nuova aristocrazia, i ministeriales, fedelissimi alla corona, ai quali affidava i territori confiscati ai vassalli ostili alla sua linea politica. In tal modo si proponeva di controllare i suoi riottosi sudditi, e, al contempo, creare una classe dirigente che desse nuovo impulso all’amministrazione regia. Costoro, sebbene in gran parte di origine servile, venivano insigniti della dignità cavalleresca e presto imparavano a vivere e a comportarsi da gran signori. Nello stesso periodo Federico emanò una costituzione di pace da applicarsi in tutto il regno germanico: il Landfrieden (da Land, «terra», e Frieden, «pace»), che aveva lo scopo di riaffermare il potere regale contro ogni forma di anarchia e in cui si stabilivano le diverse pene per chi si fosse macchiato di reati quali l’omicidio, l’usurpazione dei poteri pubblici, la speculazione sui prezzi dei cereali, il furto e l’abuso nella riscossione dei pedaggi. Con il Landfrieden Federico intendeva colpire i fattori di disordine e di instabilità che attraversavano il regno, e riportare cosí pace e stabilità sociale all’ombra di un potere regio efficiente e attivo.
Nel 1154 Federico scese in Italia per cingere la corona del regno e quella imperiale. I rapporti con il papa non erano certo idilliaci. Non bisogna dimenticare che la sua elezione era avvenuta contro il volere della maggior parte del clero tedesco e nella lettera in cui si comunicava a papa Eugenio III l’avvenuta elezione a re di Germania, Federico aveva volutamente omesso qualunque accenno all’approvazione pontificia, cosa che era avvenuta puntualmente fino ad allora, e che il pontefice non mancò di rilevare nella sua, formalmente cortese, risposta. Tuttavia, la situazione politica spingeva verso un accordo tra Federico e il successore di Pietro. Normanni e Bizantini minacciavano l’integrità territoriale dei dominii ecclesiastici e a Roma, inoltre, era scoppiata una rivolta contro il papa, guidata dal monaco Arnaldo da Brescia, tanto che Adriano IV aveva dovuto abbandonare temporaneamente la città per ritirarsi a Orvieto. Nel 1153, alla vigilia della discesa in Italia di Federico, era stato stipulato presso Costanza un trattato fra il re tedesco e i legati del papa. Nel trattato si stabiliva che Federico, in quanto defensor ecclesiae, avrebbe tutelato il Seggio di Pietro dai rivoltosi romani, non avrebbe fatto pace con il re normanno di Sicilia, Ruggero II, e avrebbe rintuzzato qualunque attacco da parte del basileus di Bisanzio. In cambio, il re otteneva mano libera sulla Chiesa tedesca, in particolare riguardo alle nomine vescovili e abbaziali, lo scioglimento del suo matrimonio con Adela di Vohburg, che non gli aveva dato eredi, e il «via libera» all’incoronazione imperiale. Varcate le Alpi, Federico, come prima mossa, attaccò i Comuni di Asti e Chieri, a lui ostili, e li consegnò al marchese di Monferrato, suo fedele vassallo. Nel 1155 il Barbarossa entrò in Roma, represse il libero Comune che si era nel frattempo formato e ne consegnò al pontefice Adriano IV l’animatore, Arnaldo da Brescia, che, dal 1143, aveva iniziato a fomentare il popolo romano contro il potere temporale dei papi. Arnaldo fu arso sul rogo, ma le cronache dicono che Federico non fosse «contento» di tale soluzione. Il 18 giugno lo Svevo venne solennemente insignito della corona imperiale in S. Pietro. La cerimonia fu piuttosto frettolosa, perché la popolazione minacciava disordini e la guardia regia faticò per tenere a bada i rivoltosi.
Il disegno imperiale di Federico consisteva nel creare tra Italia, Germania e Borgogna, unitamente alle amate terre sveve, un nucleo territoriale forte e compatto, che, tra l’altro, avrebbe fatto da base di partenza per intervenire in ogni parte dell’impero. Vedremo in seguito come questo sogno fosse destinato a restare tale.
Prima di raggiungere Roma, Federico aveva fatto tappa a Bologna, dove fu accolto dai professori della giovane Università, nella quale si andavano riscoprendo i fondamenti del diritto romano. A tale incontro si fa risalire il privilegio concesso dal Barbarossa, conosciuto come Constitutio Habita, con il quale egli prendeva sotto la propria ala protettrice professori e studenti bolognesi. Proprio dalla riscoperta del diritto giustinianeo, mutuato dalla tradizione classica, Federico traeva spunto per riaffermare le proprie prerogative in Italia, contro l’usurpazione messa in atto dai Comuni, per ribadire la propria autonomia rispetto al potere della Chiesa. Il contatto coi giuristi bolognesi mostrava in nuce l’idea, cara a Federico, della Traslatio Imperii, già presente nella corte carolingia, secondo cui la sovranità del mondo sarebbe passata dai Greci ai Romani, da questi ai Franchi e dunque ai Tedeschi. L’impero romano-germanico non apparteneva quindi al capo della Chiesa poiché, sulla scorta dei dottori di Bologna, l’impero romano «precedeva» il sacerdozio e quindi non poteva essergli subordinato. Anche in virtú di tale convincimento, l’imperatore decise di mettere ordine nelle questioni italiane (dell’Italia centro-settentrionale), dove si era sviluppata una fiorente civiltà comunale. Pare che proprio in questo periodo a Federico sia stato dato il soprannome di Barbarossa. Il termine proveniva dal latino rubeus e secondo alcuni, tra cui Guglielmo arcivescovo di Tiro, gli uomini rossi sarebbero stati infidi e tirannici. Probabilmente per questa ragione i Milanesi e i loro alleati cominciarono a chiamarlo Barbarossa, con esplicito intento dispregiativo.
Milano era la città che aveva catalizzato le forze comunali che si contrapponevano all’imperatore. Per questo, nel 1157, Federico decise di scendere per la seconda volta in Italia, anticipato da due suoi legati: Rainaldo di Dassel e Ottone di Wittelsbach, i quali ricevettero il giuramento di fedeltà da parte di Verona, Mantova, Cremona e Pavia, nemiche dei Milanesi. Dopo aver messo ordine in Romagna e in Toscana, il 10 luglio le truppe imperiali, ricongiuntesi sul Mincio, posero l’assedio a Brescia, la piú fedele alleata di Milano. Poi Federico pose sotto assedio il capoluogo lombardo che, stremato, cedette ai primi di settembre. Le condizioni poste da Federico ai Milanesi furono durissime. L’imperatore convocò quindi due successive diete, presso Roncaglia, vicino a Piacenza; nel corso della seconda, nel 1158, emanò la Constitutio de regalibus, nella quale si elencavano i diritti regi usurpati dai Comuni, e che l’imperatore, in quanto re d’Italia, intendeva recuperare. Federico, insomma, si presentava come un sovrano assoluto, slegato da ogni legge in quanto egli stesso fonte di diritto. A elaborare la lunga lista dei regalia furono i giuristi bolognesi, che l’avevano desunta in parte dal Corpus Iuris di Giustiniano e in parte dal diritto consuetudinario.
Fu una politica, però, che procurò al sovrano svevo molti nemici. In primo luogo numerosi Comuni, i quali, dalla morte di Enrico V in poi, si erano appropriati dei diritti spettanti al sovrano; poi del nuovo papa, il Senese Rolando Bandinelli, asceso al soglio pontificio col nome di Alessandro III, che intendeva proseguire la politica ierocratica di Gregorio VII; e, infine, del basileus di Costantinopoli, Manuele Comneno, il quale considerava Federico un pericolo per il suo prestigio imperiale e un serio ostacolo alla politica di affermazione della sua autorità in Occidente. Papa e basileus si unirono dunque con i Comuni italiani in un fronte unico, la cui pericolosità non sfuggí al Barbarossa. Solo nel 1162, dopo un assedio estenuante, e, soprattutto, dopo aver ottenuto l’appoggio di alcuni principi tedeschi e delle città italo-settentrionali ostili a Milano, riuscí a sconfiggere definitivamente la città lombarda, che fu rasa al suolo. Per quanto riguarda il versante dei rapporti col papa, il sovrano svevo aveva cercato di scongiurare in tutti i modi l’elezione di Rolando Bandinelli, e i cardinali a lui fedeli avevano addirittura eletto un antipapa, Vittore IV, provocando cosí uno scisma. Nel 1167 si era costituita la Societas Lombardiae – che siamo soliti chiamare Lega Lombarda –, formata da sedici città, tra cui anche Lodi e Cremona, un tempo fedeli all’imperatore. Per prima cosa la Lega fece ricostruire Milano – distrutta cinque anni prima dal Barbarossa – e fondò una nuova città: Alessandria, in onore del papa Alessandro III. Nel frattempo, anche la situazione tedesca era andata complicandosi. Il perdurare dello scisma aveva alienato all’imperatore l’appoggio dei principi ecclesiastici, e il rapporto con suo cugino, Enrico il Leone (che, mentre Federico era in Italia, aveva tenuto al suo posto le redini della Germania), si era fortemente deteriorato. Quando Federico scese di nuovo in Italia nel 1174 per domare la rivolta dei Comuni, le truppe al suo seguito erano esigue, Milano aveva recuperato la leadership delle città lombarde e Alessandro III si era rafforzato, al punto da far apparire illusorio lo scisma. Solo il marchesato del Monferrato e la contea di Briadante erano rimaste fedeli all’imperatore, ma il loro potere andava declinando di fronte a un organismo forte come la Lega.
Tuttavia, la discesa di Federico fu inizialmente coronata da alcune vittorie: Susa e Asti furono sconfitte e Alessandria posta sotto duro assedio. Comunque sia, le forze della Lega erano largamente preponderanti, soprattutto grazie alla fanteria, che pare ammontasse a 4000 soldati. Cosí, nel maggio del 1176, Federico dovette subire la cocente sconfitta di Legnano, dove le sue truppe furono sbaragliate e lui stesso fu creduto morto. Lo scudo, il vessillo, la croce e la lancia dell’imperatore caddero nelle mani dei Milanesi. Quei superbi trofei di guerra vennero mostrati sul campo e in città. La situazione era grave, e l’imperatore, salvo per miracolo, capí che la prima mossa da fare sarebbe stata quella di incrinare il troppo vasto fronte avversario. Avviò dunque un intenso lavorio diplomatico, allo scopo di riconciliarsi con Alessandro III. Il Bandinelli, dal canto suo, desiderava porre fine allo scisma che lacerava la cristianità, e sapeva bene che ciò sarebbe stato possibile solo con l’approvazione dell’imperatore. I due raggiunsero un accordo a Venezia, nel 1177, in seguito al quale i Comuni abbandonati dal pontefice (che nel frattempo aveva ritirato la scomunica al Barbarossa), e la cui alleanza cominciava a mostrare vistose crepe, preferirono percorrere la strada dell’accordo con l’imperatore, il quale, nello stesso periodo, venne a patti anche con il re di Sicilia tramite il matrimonio di suo figlio Enrico con Costanza d’Altavilla, erede al trono siculo-normanno. Si trattava ora di regolare i conti con Enrico il Leone, al quale l’imperatore non aveva perdonato d’averlo abbandonato nel momento del bisogno e al quale attribuiva la colpa della sconfitta patita a Legnano. Il 25 luglio del 1180 Federico aprí la campagna contro il cugino; da Werla, in Sassonia, il sovrano emanò un’ordinanza con la quale scioglieva tutti i vassalli dell’ex duca Enrico dal giuramento di fedeltà. Dopo una breve resistenza in Turingia, il Leone dovette piegarsi; sconfitto, si presentò alla dieta di Erfurt in abito da penitente, supplicando il perdono dell’imperatore: gli vennero tolti tutti i diritti feudali e inoltre venne bandito per tre anni.
L’imperatore iniziò ora a guardare a Oriente, dove i Bizantini erano stati costretti a ridimensionare i loro sogni espansionistici verso i Balcani e l’Italia adriatica in seguito alla sconfitta subita presso Myriokephalon, in Turchia, per mano del sultano di Iconio (oggi Konya), Kilidji Arslan. Il quadro politico era dunque repentinamente mutato in favore di Federico. Ma, nel 1187, Saladino aveva riconquistato Gerusalemme, scatenando cosí una nuova crociata alla quale presero parte Riccardo Cuor di Leone, re d’Inghilterra, Filippo Augusto, re di Francia, e lo stesso Barbarossa. Durante l’attraversamento delle terre d’Oriente Federico incontrò il suo destino finale. In una calda giornata del giugno 1190, durante l’attraversamento dell’Anatolia, Federico I detto il Barbarossa trovò la morte nel fiume Salef, tra le gole del Tauro, mentre prendeva un bagno. Forse un attacco cardiaco dovuto alla temperatura troppo fredda delle acque – sembra che avesse consumato il pasto poco prima di tuffarsi – ne causarono l’annegamento, gettando nella prostrazione piú profonda i crociati tedeschi e nell’incredulo sconforto la crisitianità occidentale. Lo storico bizantino Niceta Coniate, a lui duramente avverso, scrisse: «Lo zelo di quest’uomo fu degno degli apostoli; la sua intenzione religiosa non inferiore in niente alla santità […] per questo la sua morte fu felice».
Articolo, di Alessandro Bedini, per gentile concessione di Medioevo, rivista numero 157 Febbraio 2010
Bibliografia Consigliata
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