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La Grande Storia dei Cavalieri Templari

Creati per difendere la Terrasanta a seguito della Prima Crociata i Cavalieri Templari destano ancora molto interesse: scopriamo insieme chi erano e come vivevano i Cavalieri del Tempio

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lunedì 3 aprile 2017

IL GONFALONE

Risultati immagini per rievocazione storicoIl Gonfalone, è un vessillo generalmente di forma rettangolare appeso per il lato minore ad un'asta orizzontale che consente al suo portatore (gonfaloniere) di portarlo in tutta comodità. I gonfaloni, oggi, vengono usati da tutti i comuni per rappresentare il proprio simbolo araldico: allo stesso modo durante il Medioevo, il gonfalone assunse un ruolo di immagine di grande importanza. L'Arcinconfraternita del Gonfalone, fondata nel 1274, fu la prima a utilizzare il vessillo anche grazie all'opera di San Bonaventura. La confraternita, che fu chiamata prima dei Raccomandati, utilizzava il proprio gonfalone in occasione della processione del giovedì. Oggi sono utilizzati nelle rievocazioni storiche e come supporto per il simbolo del comune.

Colui che portava il gonfalone era in gonfaloniere o vessillifero (dal latino vexilium che signifa vessillo). Durante il periodo medievale, il gonfaloniere era colui che aveva l'onore di proteggere e custodire il gonfalone del Comune. Il termine, successivamente, indicò determinati tipi di magistrature, come ad esempio a Firenze con il Gonfalone di Giustizia fondato nel 1293 che rappresentava la più alta carica della magistratura, presidiava il Collegio dei Priori della Repubblica Fiorentina. la carica fu abolita dai Medici nel 1530 insieme alla costituzione repubblicana. Nel 1400, infatti, la carica fu affidata sia ai membri della potente famiglia medicea sia ai propri alleati, dando luogo ad una signoria molto variegata in grado di esautorare le magistrature cittadine. Dopo la cacciata di Piero de' Medici nel 1494 e il seguente governo di Savonarola, le famiglie fiorentine nominarono Gonfaloniere a vita Pier Soderini nel 1502 (incarico che durò fino al 1512) tentando di riorganizzare il governo fiorentino secondo le vecchie magistrature comunali. 

Di seguito si elencano le famiglie che diedero più di cinque Gonfalonieri alla Repubblica di Firenze:

Acciaiuoli, Alberti, Albizzi, Aldobrandini, Antelli, Ardinghelli, Baroncelli, Bartoli, Bastari, Beccanugi, Biliotti, Bonciani, Bordoni, Bucelli, Canigiani, Capponi, Carducci, Carnesecchi, Castellani, Cocchi, Corbinelli, Corsi, Corsini, Covoni, Da Filicaia, Davanzati, Del Benino, Dietisalvi Neroni, Federighi, Gherardi, Gianfigliazzi, Giugni, Guadagni, Guasconi, Guicciardini, Machiavelli, Magalotti, Malegonnelle, Marignolli, Martelli, Medici, Minerbetti, Moregli, Nasi, Niccolini, Nobili, Pandolfini, Pecori, Peruzzi, Pitti, Pucci, Quaratesi, Ricci, Ridolfi, Rondinelli, Rucellai, Sacchetti, Salviati, Serragli, Serristori, Soderini, Spini, Strozzi, Stufi, Tornaquinci, Valori, Vettori.

Oggi, il mondo della Rievocazione Storica, e lo studio filologico dei simboli antichi medievali ha obbligato enti, associazioni e pro loco comunali a dotarsi degli antichi strumenti per creare una Rievocazione storica in linea con la propria tradizione. Per questo Sguardo Sul Medioevo vuole evidenziare l'attività di AP Bandiere, premiato con l'Attestato di Eccellenza Medievale, leader nel settore della creazione di bandiere per stati, per rievocazioni e per enti culturali. AP Bandiere produce labari e nastri per qualsiasi impiego, da quelli per gli enti amministrativi, a quelli delle associazioni.

Ap Bandiere è il partner ideale per rendere unica la tua rievocazione storica.

Franco Cardini, Firenze, la città delle torri, Milano, Fenice, 1995-2000.
I. Caliari, I protagonisti della civiltà, Edizioni Futuro, 1981.
Marcello Vannucci, Storia di Firenze, Roma, Newton & Compton, 1992.

APBandiere

venerdì 28 ottobre 2016

LE 10 ARMI MEDIEVALI PIÙ DISTRUTTIVE

Risultati immagini per Arbalesta medioevo

Gli amanti della storia, degli antichi armamenti e i collezionisti non avranno di che stupirsi di fronte alle dieci armi medievali più distruttive. Già perché per quanto la tecnologia abbia portato alla creazione di armi sempre più sofisticate, già nel Medioevo armi estremamente pericolose e dall'accuratezza ingegneristica, venivano impiegate in battaglia.

La top ten delle armi pericolose

Reperibili nei musei e facilmente accessibili in sofisticate riproduzioni in vendita nelle armerie online i non esperti del settore avranno difficoltà ad immaginare di cosa si parla quando si dice "armi medievali", perché questa categoria contiene un’enorme varietà di arnesi di differenti dimensioni e ordine di pericolosità. Di seguito si riportano quelle che potrebbero essere considerate le dieci armi più distruttive.

• Spada dentellata: la spada è sicuramente una delle tipologie di arma più antiche e diffuse presso tutti i popoli. Essa rientra nella categoria delle armi bianche ovvero tutte quelle armi che feriscono per mezzo di punta (pugnali e baionette), lama (spade e sciabole), forme contundenti (martelli e arieti); quelle che lanciano oggetti (catapulte) e difendono (scudi). Questa spada in particolare presentava una lama dentellata su entrambi i lati per permettere di arrestare le spade degli avversari e con un semplice colpo del polso si era grado di ferire brutalmente a morte l’avversario.

• Pugnale da duello con lama a seste: il pugnale è un’arma bianca usata nei duelli. Questo pugnale in particolare era dotato di due lame extra che scattavano non appena veniva premuto un pulsante;

• Il mazzafrusto: questa arma era formata da un bastone cui era legata una catena corta con una palla di ferro chiodata all'estremità. Catalogata come bianca, questa era un’arma dalle origini contadine, che poteva essere legata alla mano del cavaliere o alla sella del cavallo in modo che la cavalcata stessa la facesse roteare;

• Trabucco: questa era una macchina d’assedio di enormi dimensioni ed era in grado di lanciare oggetti oltre mezzo miglio, era una forma di catapulta estremamente potente;

• Arbalesta: Più grande di una balestra, questa arma era dotata di un corpo d’acciaio di forza maggiore. Le arbaleste più potenti presentavano una piccola carrucola per il caricamento sprigionando grande potenza ed arrivavano ad essere precise fino a 900 metri di distanza;

• Tribolo: detto anche piede di corvo, questa arma era costituita da una specie di chiodo metallico a tre o quattro punte, di cui una sempre rivolta verso l’alto e le altre a fare da basamento. Veniva usato per arrestare l’avanzata della cavalleria nemica;

• Colubrina: dispositivo bellico chiamato anche volgarmente cannone a mano che veniva usato dai cavalieri come una sorta di fucile;

• Arco lungo: spesso lungo fino a due metri, questo speciale arco richiedeva una straordinaria forza per tendere il filo, ma permetteva di lanciare più frecce in una sola volta;

• Spadone: questo particolare tipo di spada era usata dai cavalieri e dalla cavalleria e poteva senza sforzo tagliare via gli arti al nemico;

• Martello d’armi: antica arma bianca da botta sviluppata partendo dal modello del primitivo martello da guerra. Alla fine del XV secolo aveva manico lungo e rinforzato, testa di martello da un lato e "penna" a becco di corvo dall'altro. 

Armi potenti, terrificanti, alcune delle quali si fa fatica a pensare che siano stato partorite da una mente umana per via del loro potenziale distruttivo. E non erano le uniche, perché durante il medioevo fu vasta la produzione di armi di ogni tipo, con lo scopo di infliggere più danni possibili al nemico. Se siete alla ricerca di un modello in particolare, la suddivisione in  categorie, presente nel sito di un’armeria online, può essere di grande aiuto per trovarlo in maniera semplice e rapida. 

giovedì 28 gennaio 2016

LA SESSUALITA' NEL MEDIOEVO


Come era considerata sessualità nel Medioevo? Era "cortese" o profana? In realtà fu un passaggio graduale dalla sessualità romana, molto profana e molto esaltata, a quella medievale dove, a causa dello stretto controllo della chiesa, non era così palese. Il Cristianesimo, infatti, trasformò la sessualità in un coacerbo di regole con la condanna totale dell'aborto e dell'omosessualità.

Quante volte abbiamo sentito parlare di sveltine? Ebbene...non costituivano un peccato per la chiesa, la motivazione è molto semplice: un rapporto sessuale lungo e duraturo era considerato estremamente debilitante per l'uomo sia fisicamente sia mentalmente non consentendogli di raggiungere la salvezza. Questo diede un brutto colpo all'istituzione matrimoniale dato che sovente ci si limitava ad un rapporto molto veloce senza che questo costituisse piacere per il gentil sesso.

Lo sapevate che c'era un calendario dell'amore? La chiesa proibiva categoricamente il sesso in alcuni periodi dell'anno e nei fine settimana arrivando a circa 185 giorni in cui le coppie potevano sentirsi liberi senza contare il normale ciclo femminile. Significativo, in questo senso, fu un decreto di Burcardo di Worms “Con la tua sposa o con un’altra ti sei accoppiato da dietro, come fanno i cani? Devi fare penitenza per 10 giorni a pane e acqua. Ti sei unito a tua moglie mentre aveva le mestruazioni? Farai penitenza per altri 10 giorni con pane e acqua. [...] Hai peccato con lei in giorno di Quaresima? Devi fare penitenza 40 giorni con pane e acqua o dare 26 soldi di elemosina; ma se ti è capitato quando eri ubriaco, farai penitenza per solo 20 giorni"

L'adulterio era un crimine gravissimo solamene se perpetrato da una donna. In alcuni stati europei, addirittura, l'uomo poteva era considerato adultero solamente se aveva rapporti con una donna già sposata: se si intratteneva con una giovane "single" aveva commesso peccato anche se non grave. La donna invece era accusata di adulterio per rapporti al di fuori del matrimonio

In Europa non sono pochi i casi in cui, a causa di queste restrizioni, ci si ribellava sotto le coperte. In Germania la poligamia era pratica comune e diffusa, mentre la poliandria era totalmente sconosciuta in Occidente. Si parla di poliandria in riferimento al buddhismo tibetano dove una donna era sposata anche dai fratelli. 

Ma come ci si preparava alla prima notte d'amore? Le donne lasciavano la fronte libera dai capelli che venivano rialzati secondo i canoni di bellezza medievali e usava, dopo essersi recata in un bagno pubblico, usare profumi speziati. L'uomo si presentava il giorno dopo con il cosiddetto "dono del mattino" per ricompensare la sua compagna che aveva appena perso la verginità.

L'omosessualità era un crimine molto grave ma, nonostante la lotta della chiesa per combattere questa "piaga", i rapporti con persone dello stesso sesso furono tollerati fino al secolo XII anche perché era una pratica diffusa soprattutto in ambiente ecclesiastici. Non sembra essere vera l'omosessualità del grande Riccardo Cuor di Leone, così come per i templari nonostante ci fosse stato qualche caso di templari che usavano sollazzarsi tra di loro. 

giovedì 1 gennaio 2015

CAPODANNO

Petrus Christus, Sant'Eligio nella bottega di un orefice, New York, Metropolitan Museum of ArtLa nascita del Capodanno risale alla notte dei tempi e precisamente alla festa di Giano, dio romano. Nel secolo VII i seguaci dei druidi delle fiandre usavano festeggiare il primo giorno dell'anno, festeggiamento che fu contrastato aspramente da Sant'Eligio il quale li accusò dicendo: "A Capodanno nessuno faccia empie ridicolaggini quali l'andare mascherati da giovenche o da cervi, o fare scherzi e giochi, e non stia a tavola tutta la notte né segua l'usanza di doni augurali o di libagioni eccessive. Nessun cristiano creda in quelle donne che fanno i sortilegi con il fuoco, né sieda in un canto, perché è opera diabolica". Durante il periodo medievale, molti paesi usavano il calendario giuliano ma alcuni di essi invece usavano festeggiare il primo dell'anno in giorni diversi. In Inghilterra e in Irlanda ad esempio dal XII secolo all'anno 1752 il capodanno si festeggiava il 25 marzo e così anche a Pisa e Firenze mentre in Spagna dal fin dal seicento si festeggiava il 25 dicembre. Queste differenze continuarono fino al 1691 quando papa Innocenzo XII stabilì che l'anno doveva iniziare il 1 gennaio. Molti regimi dittatoriali nella storia hanno cercato di creare riforme dei calendari, basti pensare al Calendario Repubblicano della Prima Repubblica Francese oppure l'adozione del Calendario Fascista all'indomani della marcia su Roma fino al 27 ottobre del 1923 (Anno I E.F.). Il conteggio degli anni sulla base della dittatura fascista continuò fino alla Liberazione del 25 aprile del 1945.

giovedì 2 ottobre 2014

LA TAVOLA ED IL FOCOLARE

Nella casa medievale, un unico ambiente, dall’arredo essenziale, è deputato alla preparazione e cottura dei cibi e alla consumazione dei pasti. Fanno eccezione le abitazioni più ricche, che dispongono di una vera cucina, attrezzata di tutto punto. Per noi, oggi, è assolutamente normale parlare di cucina, per definire l’ambiente opportunamente attrezzato, che in un’abitazione è destinato alla preparazione e alla cottura delle vivande. Ma per i nostri antenati medievali non lo era altrettanto, o almeno non lo era per tutti. All’epoca, infatti, sono ancora una volta i ceti più abbienti a poter disporre, nelle loro ricche dimore, di un locale, talvolta separato dal resto dell’abitazione, nel quale venivano preparati i pasti. Di norma, infatti, per la maggior parte della popolazione, la cucina era costituita da un solo ambiente, che spesso coincideva con l’unico spazio abitativo, dove si provvedeva tanto alla preparazione quanto alla consumazione dei pasti. In ogni caso, comunque, tutto ruotava intorno al focolare e, solo verso la fine del Medioevo, al caminetto, più o meno grande a seconda delle dimensioni della stanza e delle possibilità economiche del padrone di casa. Qui si cuocevano tutti i cibi, all’infuori di quelli che richiedevano di essere infornati, secondo un metodo di cottura abbastanza popolare nel Medioevo. A questo proposito, va detto che di norma le case – all’infuori di quelle più ricche – non possedevano forni propri, che erano invece di proprietà dei fornai, quando non del signore locale, i quali cuocevano a pagamento il pane o le torte e i pasticci che venivano loro portati. Diffusa era, comunque, la pratica di cuocere questi cibi sotto le braci del focolare domestico e, più tardi, del caminetto, anche se quest’ultimo svolse a lungo solo una funzione di mero riscaldamento. Fermo restando il ruolo centrale del focolare, munito di corde e di ganci ai quali appendere i diversi recipienti per la cottura, l’arredamento della cucina era spartano. Non mancavano, tuttavia, anche nelle case più povere i treppiedi in ferro battuto, la cui funzione era quella di mantenere le pentole a una certa distanza dal fuoco, mentre i tegami di uso quotidiano venivano appesi a ganci fissati alle pareti o poggiati su rudimentali mensole. C’era poi una madia in legno, che veniva impiegata per impastare il pane e che era corredata, a sua volta, da un buratto, un grande setaccio usato per abburattare la farina, ovvero per separarla dalla crusca. Soprattutto nelle cucine di città, doveva poi esserci una tavola, montabile su cavalletti all’occorrenza – che funzionava tanto da piano di lavoro quanto per la consumazione dei pasti – e qualche sedia. Di più non sappiamo, ma è lecito supporre che l’arredamento della cucina si limitasse a quanto abbiamo appena descritto. Infatti, in questo ambiente dell’abitazione trovava posto solo quanto veniva usato quotidianamente, mentre il resto delle derrate veniva immagazzinato in cantina o nei granai. Ma il centro di tutto resta, giova ricordarlo, il focolare, che talvolta poteva anche trovarsi all’esterno dell’abitazione, forse per sventare il pericolo di incendi, dal momento che per lungo tempo il grosso delle strutture architettoniche fu in legno. A partire dal XIII secolo, però, di norma il focolare si trova all’interno della casa, dove occupa il centro della cucina o uno spazio addossato a una parete. A seconda delle possibilità economiche del proprietario, poteva essere composto da un fuoco centrale e da altri più piccoli, di supporto a quello maggiore. Il focolare, quasi sempre aperto, si trovava, nella maggioranza dei casi, sul pavimento in terra battuta del locale che lo ospitava, ma talvolta poteva anche essere in una posizione leggermente rialzata. In entrambi i casi, poteva essere circondato o lastricato con pietre o mattoni, che ne delimitavano l’area, in genere, comunque, piuttosto ridotta. A questo proposito va detto che gli scavi archeologici hanno rivelato come la disponibilità finanziaria del proprietario fosse direttamente proporzionale all’ampiezza del focolare, che poteva andare dal mezzo metro o poco più delle abitazioni più povere ai due metri e oltre di quelle signorili. Per cuocere gli alimenti – e in particolare, i legumi e le zuppe – si usavano recipienti in ceramica, di capacità diversa, a seconda delle esigenze. In terracotta erano, invece, i vasi destinati alla conservazione delle derrate di uso comune, come i cereali, i legumi e l’olio. E sempre di terracotta, ma muniti di beccucci, erano i recipienti usati per conservare i liquidi. Esisteva, poi, tutta una serie di contenitori anche in metallo, destinati alla cottura dei cibi, che potevano avere forma chiusa o aperta a seconda che servissero per cuocervi cibi liquidi o più consistenti. Al primo tipo appartenevano le olle, recipienti in pietra ollare usati per bollire gli alimenti, che con l’andare del tempo furono soppiantate quasi in toto dalle pentole ansate, che potevano essere a fondo piatto o convesso, per sfruttare meglio il calore del fuoco. A forma aperta erano, invece, le comuni padelle in ferro, i tegami, disponibili in diverse dimensioni, i paioli in rame o in bronzo, e i testi usati per cuocere, ad esempio, le focacce. In metallo erano spesso anche le tazze nelle quali abitualmente si servivano brodi e minestre. Paradossalmente gli scavi archeologici ci hanno restituito, in maggioranza, i resti di recipienti in terracotta o in ceramica, anche se pare fossero più usati quelli in metallo: ciò si spiega con il fatto che quest’ultimo materiale era spesso reimpiegato per realizzare oggetti di vario tipo. Gli inventari delle case più abbienti rivelano la presenza – e quindi l’uso – di spiedi, di girarrosti e di graticole, tutti oggetti comunemente impiegati per la cottura degli arrosti, senz’altro la vivanda preferita dalle classi agiate. Esisteva, poi, anche una vasta gamma di stampi metallici, nei quali venivano cotti torte e pasticci, sia salati che dolci. Dagli antichi trattati sappiamo dell’impiego di ferri da cialde e di grattugie per il formaggio, anche se per triturare i diversi ingredienti, che entravano nella composizione, ad esempio, di una salsa, lo strumento di più largo impiego resta il mortaio, immancabile nelle cucine del Medioevo. Si trattava di mortai generalmente in legno, ma ce n’erano anche di metallo, come quelli in bronzo che gli speziali usavano per macinare le spezie. Anche se gli inventari parlano in genere di strumenti metallici, perché di maggior valore, di sicuro in cucina trovava largo impiego il legno: per i recipienti destinati alla preparazione, o alla conservazione degli alimenti, come le acetiere e le saliere, ma anche per il vasellame da tavola, come le scodelle, o i mestoli e i grandi cucchiai usati per mescolare e servire le vivande. Questi ultimi potevano essere anche in metallo, rame soprattutto, così come i colini e le schiumarole. Di legno, spesso decorato, ma talvolta anche di osso, erano pure i manici dei coltelli, in metallo, che i commensali usavano comunemente insieme con i cucchiai e con le prime forchette, che proprio verso la fine del Medioevo incominciarono finalmente a conoscere una certa diffusione. Tutti questi strumenti venivano impiegati durante la cottura degli alimenti, procedimento al quale si annetteva una fondamentale importanza. Perché se la prima preoccupazione del cuoco doveva essere quella di rendere gradevoli al palato e alla vista i diversi piatti che preparava, non bisogna dimenticare che in epoca medievale a chi cucinava si richiedeva anche che fosse un po’ medico. Tutti gli chef del tempo, infatti, mostrano una grande attenzione ai principi della dietetica, sia nell’approvvigionarsi dei diversi ingredienti che nell’assemblarli in maniera adeguata e, soprattutto, nel cuocerli in modo tale che risultassero quanto più possibile di facile digestione. Ciò era tanto più vero per quanto riguardava le carni, l’alimento principe delle mense medievali. Così, ad esempio, la carne di maiale, poiché grassa, era ritenuta “umida” e, pertanto, veniva riservata alle cotture arrosto. Il principio, tuttavia, si applicava ai suini giovani e consumati freschi, mentre nel caso della carne salata, ritenuta “secca”, si preferiva bollirla, per restituirle in questo modo un po’ di umidità. La bollitura era anche il metodo riservato alla carne di manzo, considerata particolarmente “secca”. Il pollame, poiché “freddo”, veniva riscaldato tramite bollitura e servito con salse calde e riccamente speziate. Il pesce, invece, “freddo e umido” al pari dell’acqua, l’elemento nel quale vive, veniva disseccato ricorrendo alla frittura. La bollitura, in definitiva, era il metodo più diffuso, ma molto usate erano anche le cotture per così dire associate, in cui alla bollitura seguiva l’arrostitura e questo avveniva di certo per intenerire la carne, spesso coriacea, ma anche per dissalarla, dal momento che tutt’altro che infrequente era l’impiego di carne conservata, in genere sotto sale. Scegliendo un certo metodo di cottura, il cuoco doveva quindi privilegiare sempre quello che gli avrebbe consentito di adeguare gli umori naturali del cibo alle esigenze di salute di chi poi lo avrebbe consumato.

Articolo di Clara Tartaglione. Medioevo n.1 Gennaio 2014. Per gentile concessione

sabato 13 settembre 2014

PER CHI SUONA LA CAMPANA...

Qualche anno addietro era apparsa su molti quotidiani la notizia di una denuncia fatta a un parroco per il disturbo arrecato dal suono delle campane della sua chiesa. Si parla spesso di corsi e ricorsi storici ma in questo caso bisogna constatare come al riguardo siamo molto distanti dalla disposizione d’animo dell’uomo medievale, che nel familiare suono della campana sentiva echeggiare il suono di tromba della chiesa militante. Ma andiamo con ordine. Sebbene già esistente in epoche anteriori, risale all’alto medioevo l’idea di collocarla in cima ad una torre, inventando così il campanile, e se a lungo si è pensato che fosse la Lombardia la sua zona d’origine, in seguito sono state avanzate ragionevoli ipotesi che i primi campanili in occidente sorsero in Romagna, in particolare nella zona di Ravenna. Secondo un’altra ipotesi la campana dovrebbe il suo nome alla sua forma, che ricorda quello dei vasa campana, anfore prodotte nella zona del napoletano. A un santo, Paolino da Nola, la tradizione attribuisce invece l’invenzione del batacchio interno. Per tutto il Medioevo, ma anche oltre, alla campana è riservata una funzione particolare: comunicare con il suo rintocco delle informazioni. Se è ormai cosa nota ai più l’uso delle campane per scandire le ore, forse non tutti sanno che essa veniva suonata anche in occasione della morte di personaggi importanti e il numero di rintocchi informava le persone sul sesso e sul rango del deceduto: due rintocchi se era una donna, tre se era un uomo. In caso di morte di un uomo di chiesa i rintocchi erano tanti quanti erano stati gli ordini in vita. Oltre alle campane religiose esistevano le campane “laiche”, quelle cioè collocate sulle torri civiche che venivano suonate per avvisare i cittadini di un pericolo incombente come un incendio o l’entrata in città di un nemico, chiamando così a raccolta le persone, funzione questa che poteva però ritorcesi contro. Quando scoppiava infatti una lotta tra famiglie o fazioni rivali si poteva arrivare a demolire i campanili che potevano essere utilizzati dall’avversario, come avvenne per quello della Badia di Firenze nel 1307, in modo da impedirgli utilizzarne i rintocchi per radunare uomini. Quello della campana era per l’uomo medievale un suono familiare, tutt’altro che molesto, che anzi lo confortava nelle ore notturne. È Guglielmo Durante a spiegarne il perché: “Si suonano e si benedicono le campane affinché scaccino lontano gli eserciti ostili e tutte le insidie del nemico, per allontanare il fragore della grandine, il turbine delle procelle, l’impeto delle tempeste e dei fulmini, i tuoni minacciosi, perché siano sospesi i turbini del vento, siano debellati e vinti gli spiriti delle tempeste e le Potestà dell’aria”. Come si può ben intuire da queste parole l’uomo medievale mai e poi mai avrebbe considerato il suono della campana come un disturbo della sua quiete! Per poter essere ascoltate alla maggior distanza possibile venivano fuse campane di grandi dimensioni, molto pesanti. Non era quindi affatto facile suonarle, quella del campanaro era una vera e propria arte, e non di rado bisognava far venire gente da fuori città che si era specializzata in questa attività. Da quanto detto finora si può vedere come i tempi, purtroppo o per fortuna (al lettore l’ardua sentenza!) siano cambiati. Le campane ormai tacciono del tutto, o si limitano semplicemente a rimarcare un orario che ci è già stato fornito dal nostro orologio al polso. Eppure qualcosa oggigiorno della passata importanza della campana resta, di un tempo in cui il suo rintocco era così importante da ammonire il suo suonatore a non distrarsi, neppure durante le ore della notte: alzi la mano chi non conosce la canzone “Fra’ Martino, campanaro/ dormi tu?, dormi tu?/ Suona le campane, suona le campane/ Din don dan”.    

Articolo di Mario La Piano. Tutti i diritti riservati.

Immagine tratta da Wikipedia, Autore: Taty2007

giovedì 15 maggio 2014

DE QUINQUAGINTA CURIALITATIBUS AD MENSAM - LE 50 CORTESIE A TAVOLA

File:Bayeux Tapestry scene43 banquet.jpg

Fra Bonvesin da la Riva che sta in borgo Legnano,
delle cortesie da tavola qui vi parla senza indugio;
delle cinquanta cortesie che sono da osservarsi a tavola
fra Bonvesin da la Riva ve ne parla ora.

La prima è questa: quando vai a tavola,
pensa prima di tutto al povero bisognoso:
perché quando tu nutri un povero, tu nutri il tuo Pastore,
che ti nutrirà dopo la morte nell'eterna dolcezza.

La seconda cortesia: se tu porgi acqua alle mani
porgila elegantemente, procura di non essere maleducato.
Porgine a sufficienza, ma non troppa, quando è tempo d'estate;
d'inverno, per il freddo, diminuisci la quantità.

La terza cortesia: non affrettarti
a prendere posto a tavola senza averne il permesso;
se qualcuno t'invita a nozze, prima di sederti
non prenderti delle libertà per evitare di essere cacciato.

L'altra è: prima di assumere il cibo preparato, fa in modo
che esso venga benedetto da te o da qualcuno maggiore di te:
è troppo ingordo e maleducato e pecca contro Cristo
colui che non si cura degli altri né benedice il proprio piatto.

La quínta cortesía: siedi a tavola come si conviene,
cortese, educato, allegro e di buon umore;
quindi non devi essere né astioso né corrucciato né scomposto
e neppure tenere le gambe incrociate.

La sesta cortesia: se possibile
non ci si deve appoggiare alla tavola imbandita.
Perchè non è educato appoggiare
i gomiti o stendere le braccia.

La settima cortesia è per tutti:
non mangiare né troppo né poco, ma moderatamente.
Colui che mangia troppo o troppo poco,
non trae alcun vantaggio né per l'anima né per il corpo.

L'ottava cortesia è, che Dio ci aiuti,
a non riempire troppo la bocca e non mangiare troppo in fretta;
I'ingordo che mangia in fretta, e si riempie la bocca,
se venisse interpellato, farebbe fatica  a rispondere.

La nona cortesia è parlare poco
e badare a ciò che si sta facendo:
perchè se si parla troppo mangiando,
può accadere che escano briciole dalla bocca.
 
La decima cortesia è: quando hai sete,
prima inghiotti il cibo e pulisci la bocca e poi bevi.
L'ingordo che beve in fretta, prima di aver deglutito,
infastidisce l'altro che beve in compagnia.

E l'undicesima è questa: non porgere la coppa all'altro,
se può prenderla da solo, a meno che non te l'abbia chiesta.
Ciascuno prenda la coppa dalla tavola quando gli aggrada,
e dopo aver bevuto, la riappoggi dolcemente.

La dodicesima è questa: quando devi prendere la coppa,
usa le due mani e pulisci bene la bocca.
Con una sola mano non si può afferrarla bene:
usare sempre le due mani anche per bere per non rovesciare il vino.

La tredicesima è questa: anche se non vuoi bere,
se qualcuno ti porge la coppa, la devi sempre accettare;
una volta presa, puoi subito posarla,
o porgerla a qualcuno che è lì con te.

La successiva è questa: quando sei invitato
anche se in tavola c'è del vino buono, cerca di non ubriacarti.
Chi si ubriaca scioccamente, nuoce tre volte:
al corpo, all'anima e spreca il vino.

La quindicesima è questa: anche se arriva qualcuno,
non alzarti da tavola, se non per un motivo importante.
Finché mangi non devi muoverti
neppure per salutare quelli che sopraggiungono.

La sedicesima poi  è
non sorbire rumorosamente quando mangi col cucchiaio.
Altrimenti l'uomo e la donna che lo fanno,
si comportano veramente come la bestia che mangia il pastone.

La diciassettesima poi è: quando starnutisci
o quando ti coglie la tosse, attenzione a quello che fai.
Sii cortese, voltati dall'altra parte,
affinchè la saliva non cada sulla tavola.

La diciottesima è questa: quando l'uomo si sente bene,
non faccia, chiunque sia, pane del companatico.
Colui che è ghiotto di carne, di uova o di formaggio,
anche se ne avesse in abbondanza, non deve esagerare.

La diciannovesima cortesia è questa: non criticare i cibi
quando sei ospite ai banchetti, ma dì che sono tutti buoni.
Ho già trovato molti uomini con la brutta abitudine,
di dire: «Questo è mal cotto» o «Questo è insipido».

E la ventesima è questa: curati del  tuo piatto;
non guardare nel piatto degli altri se non per imparare.
Chi serve deve controllare che non manchi nulla,
ma se non lo facesse non sarebbe corretto.

La ventunesima è questa: non mescolare tutto insieme
carne o uova o cibo simile.
Chi rimescola cercando il meglio sul tagliere,
è ineducato e disturba il vicino di tavola.

L'altra che segue è questa: non comportarti villanamente,
se mangi il pane codividendolo con qualcuno;
taglia il pane ordinatamente, non in qualche modo,
non tagliarlo ai lati se non vuoi essere ineducato.

La ventitreesima: non mettere pane nel vino,
se nel tuo stesso bicchiere bevesse fra Bonvesino.
Se  qualcuno volesse inzuppare nel vino bevendo con me
da un unico bicchiere, io, da parte mia, potendo non berrei con lui.

L'altra è: non mettere accanto al tuo vicino
né piatto né scodella, se non per un motivo importante.
Se tu desideri scostare il piatto e la scodella,
fallo dalla tua parte.

L'altra è: chi stesse mangiando da un tagliere con donne,
deve tagliare la carne per sé e per loro.
L'uomo deve essere più premuroso, più sollecito e servizievole
della donna che per riservatezza non è in grado di esserlo.

La ventiseiesima: sii molto cortese
quando il tuo buon amico mangia alla tua tavola.
Tagliando carne pesce o altre buone pietanze,
scegli per lui la parte migliore.

L'altra che segue è questa: non devi essere insistente
con l'amico a casa tua perchè beva o mangi;
devi accoglierlo bene e fargli bella cera
e metterlo a suo agio in ogni senso..

La ventottesima: mangiando accanto un uomo importante,
astieniti dal mangiare mentre lui sta bevendo.
Mangiandi accanto a un vescovo, che sta bevendo dalla coppa,
fa in modo di non masticare con la bocca.

L'altra che viene è questa: se foste vicino a un uomo importante,
non dovete bere contemporaneamente a lui.
Chi fosse vicino ad un vescovo, fintanto che lui beve
non deve alzare il proprio bicchiere, per educazione.

E la trentesima è questa: chi serve, sia pulito,
e in presenza altrui non sputi nè insudici.
Perchè a un uomo mentre mangia, causerebbe fastidio:
non può essere troppo pulito chi serve ad un banchetto.

La trentunesima è questa: ogni giovane educato
che voglia soffiarsi il naso a tavola, si pulisca con i fazzoletti.
Chi mangia o chi serve, non deve pulirsi il naso con le dita;
si pulisca con teli e usi cortesia.

L'altra che víene è questa: le tue mani siano pulite,
non devi mettere né le dita nelle orecchie né le mani sulla testa.
L'uomo che mangia non deve
frugare con le dita in parti sporche.

La trentatreesima: non accarezzare con le mani
finché sei a tavola, né gatti né cani:
L'uomo educato non deve accarezzare gli animali
con le mani con le quali tocca i cibi.

L'altra è: mentre mangi con persone estranee,
non mettere le dita in bocca per pulire i denti.
Chi si mette le dita in bocca prima di aver finito di mangiare,
per quanto mi riguarda non mangerà con me sul tagliere.

La trentacínquesima: non devi leccarti le dita;
chi le mette in bocca le pulisce male.
L'uomo che si mette in bocca le dita impiastricciate
non le pulisce, anzi le sporca maggiormente.

La trentaseiesima cortesia:
se devi parlare, non parlare a bocca piena.
Chi parla e chi risponde prima d'aver vuotato la bocca,
difficilmente potrebbe articolare qualcosa.
 
Dopo questa viene quest'altra: finché il vicino di tavola
avrà il bicchiere alla bocca, non fargli domande;
se proprio lo vuoi interpellare, ti chiedo di farlo
solo dopo che avrà finito di bere.

La trentottesima è questa: non raccontare storie tristi
perchè coloro che sono con te possano mangiare serenamente.
Fin che gli altri mangiano non dire cose angoscianti,
ma taci oppure di' parole confortevoli.

L'altra che segue è questa: se mangi con persone,
non fare nè rumore nè litigi, pur se hai ragione.
Se qualcuno dei tuoi eccedesse, lascia correre fino ad un momento opportuno, in modo che coloro che sono con te non siano turbati.

L'altra è: se accusi dolore per qualche infermità,
nascondi più che puoi il tuo malessere.
Se ti senti male a tavola, non mostrare sofferenza,
e non procurare dispiacere a coloro che mangiano con te.

Dopo quella viene quest'altra: se vedessi nel cibo
qualcosa di sgradevole, non dirlo agli altri.
Vedendo nel cibo una mosca o altra porcheria,
taci, per non creare disgusto in coloro che stanno mangiando a tavola.

L'altra è: se porti scodelle a tavola per servire,
devi tenere il pollice sul bordo della scodella.
Se prendi la scodella con il pollice sul bordo,
potrai metterla poi al suo posto senza altro aiuto.

La quarantatreesima è: se porgi la coppa,
non toccare mai la sommità del bicchiere con il pollice.
Reggi il bicchiere da sotto e porgilo con una mano:
chi lo tiene diversamente può essere considerato villano.

La quarantaquattresima per chi vuol sentire è:
non devi riempire troppo piatti, scodelle e bicchieri.
In ogni cosa occorre misura e modo;
chi eccedesse non sarebbe cortese.

L'altra  che segue è questa: trattieni il cucchiaio,
se ti vien tolta la scodella per aggiungervi del cibo.
Se c'è il cucchiaio nella scodella, ciò intralcia chi serve;
In tutte le cortesie fa bene chi riflette.

L'altra che segue è questa: se mangi con il cucchiaio,
non mettere troppo pane nel cibo.
Chi farà "zuppetta" nella pietanza,
potrebbe dar fastidio a coloro che gli mangiano accanto.

L'altra che segue è questa: se hai vicino l'amico,
finché egli è a tavola, serviti contemporaneamente a lui.
Se tu dovessi smettere di mangiare e non fossi ancora sazio,
forse anch'egli smetterebbe per ritegno.

L'altra è: mangiando insieme ad altri invitati,
non mettere anzi tempo il tuo coltello nel fodero.
Non usare il coltello prima dei tuoi vicini di tavola:
può darsi che venga portata in tavola una vivanda diversa da quella pensata.

La cortesia seguente è: quando mangiato,
glorifica Gesù Cristo.
Colui che riceve un servizio da chi gli vuol bene,
se non lo ringrazia, è irriconoscente.

La cinquantesima poi (l'ultima) è:
lavare le mani, poi bere del buon vino di botte.
Le mani dopo il banchetto possono essere anche solo sciacquate;
dal grasso e dalla sporcizia possono essere pulite successivamente.

sabato 29 marzo 2014

LA CONCEZIONE DEL TEMPO NEL MEDIOEVO

File:Clock - Clock tower - Piazza San Marco.jpg
La prossima notte segnerà l'ingresso dell'ora legale: come sappiamo il giorno si suddivide in 24 ore ma qualche secolo fa un'ora estiva poteva durare anche 75 minuti contro i 35 minuti di una invernale. Nella Roma antica il giorno era diviso in due parti (12 horae): dies naturalis (dal sorgere del sole al tramonto) e nox (dal tramonto al sorgere del sole). Il nuovo giorno scoccava con la mezzanotte (media nox) e questo valeva solo per i romani dato che sia i greci sia i babilonesi usavano considerare l'inizio del giorno al sorgere del sole. Il primo a dare una regola alle ore fu Benedetto da Norcia che nel VI secolo stabilì otto momenti distinti di preghiera
- lodi (alba)
- prima
- terza 
- sesta
- nona
- vespri
-compieta
Le preghiere erano raccolte nei celeberrimi Libri delle Ore. Successivamente fu la Chiesa ad imporre nuove concezioni del tempo: la conclusione della preghiera del Vespro indicava la fine di un giorno nuovo così come le campane all'alba ne segnavano l'inizio di uno nuovo. Questo, però, comportava notevoli problemi in quanto era necessario spostare di continuo le lancette dell'orologio. E fu proprio l'invenzione degli orologi meccanici a risolvere il problema: essi funzionavano grazie a pesi che scendendo battevano ore e quarti d'oro permettendo così una suddivisione del tempo in tante unità tutte uguali tra di loro. Grazie a questa invenzione fu possibile suddividere il giorno in 24 ore di durante sempre uguale. Gli orologi furono dotate di tacche e si estesero in tutta Europa col nome di "Ora Italiana". Tutto fu modificato dai francesi che nel XV secolo decisero di far partire il nuovo giorno dalla mezzanotte, proprio come si faceva a Roma antica. In Italia, Firenze fu la prima città ad utilizzare il metodo francese a partire dal 1749 seguita da Parma e dalla Liguria. Dopo la discesa di Napoleone in Italia, tutta la penisola adottò il metodo "alla francese".

Immagine tratta da Wikipedia, Autore: M0tty (Questo file è licenziato in base ai termini della licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo 3.0 Unported)

venerdì 20 dicembre 2013

BREVE STORIA DEL CAPODANNO

La festa di Capodanno risale ai tempi dei romani e alla festa del Dio Giano. Nel secolo VII i pagani delle Fiandre usavano festeggiare il passaggio al nuovo anno nonostante l'ammonizione di Sant'Eligio (+659 o 660) deplorasse la festa:
"A Capodanno nessuno faccia empie ridicolaggini quali l'andare mascherati da giovenche o da cervi, o fare scherzi e giochi, e non stia a tavola tutta la notte né segua l'usanza di doni augurali o di libagioni eccessive. Nessun cristiano creda in quelle donne che fanno i sortilegi con il fuoco, nè sieda in un canto perchè è opera diabolica".
Durante l'Età di mezzo il calendario giuliano era molto usato dagli europei ma vi erano varie date che rappresentavano l'inizio del nuovo anno. Ad esempio sappiamo che fino al 1752 in Inghilterra e Irlanda il Capodanno era il 25 marzo, in Spagna fino al seicento si festeggiava il 25 dicembre, a Venezia (fino al 1797) il primo marzo, in Puglia, Calabria e Sardegna il 1 settembre tanto è vero che Capodanno in sardo viene tradotto con Caputanni, che deriva dal latinismo caput anni. Solo nel 1691 queste differenze furono annullate da Innocenzo XII che emanò il calendario con il 1 gennaio data dell'inizio dell'anno 

giovedì 19 dicembre 2013

IL CAVALIERI E LA SPADA - ACCENNI AD UNA VIA INIZIATICA CAVALLERESCA

Il Cavaliere è, in ogni tempo, colui che si distingue per onore, purezza d’animo, un cuore capace di compassione e la capacità di cogliere il giusto momento per agire negli atti e nella parola. Ciò che egli intimamente è, non è relegato in un tempo ed in un luogo ma connesso ad una Via che egli ha scelto e di cui ogni sua cellula porta memoria. Se ogni leggenda cavalleresca ha inizio con un cavaliere che ritrova la sua Spada è perché essa racchiude in sé tutto ciò per cui egli vive e combatte, tutto ciò ch’e egli è e per cui è disposto a morire. La lama ne rappresenta, nel non visibile, l’anima lucente e, su un piano di realtà più materico, la spina dorsale; si può in tal modo affermare che la spada è ciò che rende il cavaliere tanto retto in spirito quanto eretto nel suo essere presente al mondo. Il fodero è il suo corpo, è ciò che contiene e che protegge, è quella materia che si modella sulla forma dell’anima; per tale ragione, viene insegnato che un cavaliere sfodera la spada o per combattere o per pregare. Apprendere come divenire Uno con la propria spada, allenarsi a creare una reale connessione con essa, a sentirla vibrare come cosa viva e a maneggiarla con fluidità e decisione, significa per un cavaliere, uomo o donna che sia, scegliere di incarnare lo spirito di un vero guerriero, consapevole del proprio potere sia nell'essere che nel fare.  Ritrovare ed impugnare la propria spada è scegliere dunque di posizionarsi al centro del proprio “cerchio”, in un dinamico equilibrio tra stato contemplativo e azione consapevole, tra potere di espansione e di concentrazione. L'’alchemica formula del Solve et Coagula diviene, per un uomo o una donna che sceglie di intraprendere la Via della Spada, oggi come ieri, una concreta pratica quotidiana affinché la materia grezza del suo essere umano, possa trasformarsi in raffinato spirito lucente al pari della sua lama e, divenendo egli stesso la propria spada, poter agire nel mondo con onore, purezza, compassione e forza.

Articolo di Rosaria Cozzolino.

venerdì 11 ottobre 2013

IL CERTAMEN CORONARIO

Il Certame coronario fu una gara di poesia in lingua volgare ideata nel 1441 a Firenze da Leon Battista Alberti, con il patrocinio di Piero de' Medici. L'intenzione era quella di dimostrare come il volgare avesse piena dignità letteraria e potesse trattare anche gli argomenti più elevati, in un periodo che assisteva, col fiorire dell'Umanesimo, ad una forte ripresa dell'uso del latino. Alla gara, che aveva come premio una corona d'alloro in argento (da ciò il nome), parteciparono sia noti letterati dell'epoca sia rimatori popolari, che dovettero comporre testi sul tema "la vera amicizia". Si svolse il 22 ottobre 1441 nella cattedrale di Santa Maria del Fiore e vi assistette un pubblico numeroso, nonché un gruppo di autorità civili e religiose della città.
Il premio non venne assegnato a nessuno dei poeti dicitori perché le opere non vennero ritenute degne, ma fu consegnato dai dieci segretari apostolici di Eugenio IV, come si può desumere dal codice Palatino 215 della Biblioteca Nazionale di Firenze, alla chiesa dove si era svolta la gara. Il fatto che la corona non venisse assegnata ad alcuno dei poeti in gara testimonia come la riabilitazione del volgare non fosse ancora del tutto matura; tuttavia il Certame coronario è indizio di una tendenza ormai in atto e irreversibile. Secondo Parronchi, che riprese una conferenza di Lanyi (1940), nell'occasione potrebbe essere stata donata al mecenate Medici la statua del David di Donatello come ringraziamento. Nella seconda metà del secolo la ripresa letteraria del volgare avvenne in primo luogo a Firenze: e non c'è da meravigliarsi, poiché a Firenze la letteratura volgare aveva una tradizione illustre e prestigiosa, che poteva vantare veri e propri classici, come Dante, Petrarca e Boccaccio. Proprio a questa tradizione i poeti della cerchia medicea, Lorenzo il Magnifico in testa, si rifanno in cerca di modelli. Un documento prezioso di questa attenzione alla tradizione volgare è la cosiddetta Raccolta Aragonese, un'antologia dei primi secoli della poesia toscana inviata nel 1476 da Lorenzo de' Medici in dono a Federico d'Aragona. La lettera che funge da prefazione è firmata da Lorenzo, ma è quasi sicuramente di Angelo Poliziano. Oltre che a Firenze, però, il volgare riacquista dignità letteraria a Ferrara con Matteo Maria Boiardo e Pietro Bembo, a Napoli con Jacopo Sannazaro, Masuccio Salernitano e i poeti petrarchisti. La ripresa del volgare è accompagnata anche dal ritorno a generi letterari consolidati come la lirica amorosa di ascendenza petrarchista, la narrativa cavalleresca di origine romanza, la novella boccacciana. 

Fonte: Wikipedia

sabato 5 ottobre 2013

IL PONTE LEVATOIO

Il ponte levatoio è un tipo di ponte mobile utilizzato a partire dal Medioevo nei castelli e usato per superare il fossato che fungeva da sistema di difesa del castello stesso. Posizionato per evitare gli accessi indesiderati dei nemici era in genere costituito da un impalcato in legno, sostenuto da travi ed imperniato ad un'estremità soltanto. Veniva sollevato o abbassato mediante dei tiranti o catene azionati da argani a ruota lateralmente o per mezzo di un contrappeso. Quando era sollevato realizzava anche la funzione di chiusura dell'accesso. Il termine viene talvolta usato per descrivere due altre tipologie di ponti mobili, il ponte basculante (a una o due campate) ed il ponte sollevabile (o a sollevamento verticale).

Fonte: Wikipedia

PARS DOMINICA

La pars dominica o dominio o ancora riserva era una parte della curtis (derivante dall'antica villa romana). Questa porzione era quella che rimaneva di titolarità del padrone della curtis, il dominus, il quale a causa anche della mancanza di mano d'opera, per via del marcato calo demografico durante l'alto medioevo, era costretto a cedere in gestione parte del suo fondo. Questo era suddiviso in due componenti: la pars massaricia (massaricio) e la pars dominica. Quest'ultima restava sotto la titolarità esclusiva del padrone della curtis, che si formava proprio dall'unione della pars massaricia a quella dominica, comprendente anche il territorio circostante deputato al pascolo e alla raccolta del legname. È importante sottolineare come questo tipo di organizzazione agricola che costituì l'elemento portante nell'economia curtense, si sia sviluppata alla fine del secolo VIII in Europa, soprattutto in area franca, ma non si sia concretizzata nell'intero territorio del Regno dei Franchi, né tanto meno in altre regioni d'Europa. La pars dominica, posta sotto la coltivazione diretta del signore attraverso servi della gleba e massari (che prestavano le corvées, prestazioni gratuite, nella parte del signore, essendo tenuti a ripagare l'alloggio e il vitto attraverso il lavoro nella pars dominicia e per tale motivo erano anche chiamati praebendari), corrispondeva a circa un terzo dell'intera curtis e vi facevano parte le terre migliori, rispetto ai mansi, le terre date in gestione ai massari. Nella pars dominica avremmo trovato, solitamente, accanto ai laboratori artigianali utilizzati per la produzione e commercializzazione dei prodotti (quella curtense non era economia di sussistenza),[2] gli strumenti utilizzati per il lavoro nel feudo: il forno, il frantoio, i fienili, la casa del signore, le stalle, la chiesa, il pozzo, oltre agli elementi di difesa come terrapieni, palizzate di legno o in muratura, rampe di accesso e ponti levatoi.

venerdì 4 ottobre 2013

IL GOSSIP NEL MEDIOEVO

Forse non tutti sanno che anche durante il Medioevo il gossip trovava terreno ferile: giravano sovente storie sui potenti del tempo facendoli sentire molto più vicini alla gente comune. Secondo alcune cronache veniamo a sapere che papaGiovanni XII rifiuto l'estrema unziona perchè riteneva fosse posseduto dal diavolo. La morte lo colse nel 964 a causa di un infarto mentre si trovava deliziato dalle grazie di una donna sposata. A riferire la notizia è il celebre giornale Liutprando da Cremona un po' il Novella 2000, Chi, DiPiù, Gente dei tempi moderni. La rivista aveva il mirino sui comportamenti dei papi libertini e dei sovrani. Anche se a leggere e a scrivere erano in pochi a saperlo fare, la narrazione di questi eventi aveva attecchito presso un pubblico molto vasto grazie anche ai giullari e menestrelli che raccontavano episodi di vita privata dei potenti. Spesso il gossip poteva risultare estremamente pericoloso. Se vi era una donna che curava con le erbe poteva essere fatta passare come strega e quindi finire al rogo. Anche i mercanti che giravano campagne e città raccontavano ciò che accadeva e poi i pellegrini che andavano a Roma e in Terrasanta avevano sicuramente tanto da raccontare su ciò che avevano visto e sentito. 

lunedì 2 settembre 2013

MATRIMONIO CATTOLICO NEL MEDIOEVO

Tra il 1300 e il 1400 i matrimoni non erano svolti in un solo giorno, sposarsi implicava una sequenza di fatti dilatati nel tempo che poteva durare anni e coinvolgeva un numero sempre elevato di attori questo per permettere di trovare accordi economici e garantire una pubblicizzazione della formazione della nuova coppia. I primi attori erano i sensali che rappresentava un vero e proprio mestiere con il compito di sondare le offerte del mercato matrimoniale e far circolare informazioni tra chi era interessato a combinare una unione. Non esisteva più un prezzo per la donna ma c’era la dote che la famiglia doveva sborsare al futuro marito e che spesso era di importo gravoso. Dal XII secolo la dote divenne mezzo per costruire alleanze efficaci in una società all’epoca estremamente competitiva. La dote restava di proprietà della sposa e consentiva alla sua famiglia di essere costantemente presente nella vita di coppia. All’opera dei sensali seguiva la fase più delicata della trattativa in cui ci si provava a mettere in contatto con la famiglia prescelta senza scoprire troppo le carte.

Ci si affidava agli amici comuni o a persone autorevoli che potevano creare un clima di fiducia reciproca con funzione di mediatori chiamati mezzani. Raggiunto l’accordo i parenti più stretti degli sposi si incontravano e lo confermavano con una stretta di mano (impalmamento) oppure un bacio come succedeva a Roma (abboccamento). Spesso lo sposo era presente e riceveva la stretta di mano o il bacio della donna. Questo era un accordo che era considerato vincolante. Fermare il parentado termine usato per sancire l’alleanza e che dà l’idea di accordo matrimoniale ormai stabilito e che non si sarebbe potuto interrompere senza provocare problemi. Il matrimonio non era concluso, la cerimonia successiva lo trasformava in un atto solette (il giuramento) in cui lo sposo e il padre della sposa davano assenso alle nozze e un notaio redigeva un atto che fissava l’entità e le modalità di pagamento della dote incaricando arbitri a sorvegliare che le condizioni fossero rispettate. La sposa non partecipava e aspettava che il partner l’andasse a visitare. Il rito solenne avveniva in chiesa, territorio neutro, che metteva le famiglie in assoluta parità.

Al giuramento seguiva un banchetto pubblico. Impalmemento e giuramento erano simili alla promessa di diritto canonica in cui l’uomo e la donna (e non il padre di lei) si promettevano di prendersi per marito e moglie. Molto tempo passava dal giuramento all’anello quando finalmente appariva lo sposo: l’incontro avveniva in casa della sposa o dell’intermediario alla presenza di un notaio che avrebbe redatto il contratto davanti allo sposo che infilava l’anello alla sposa. Il rito dell’inanellamento era diventato il rito che dal XIII secolo divenne l’anello nuziale  vero e proprio (prima l’anello era simbolo della promessa). Il giorno dell’anello era una cerimonia privata celebrata in casa e senza l’intervento di un sacerdote. Era con la traductio (corteo nuziale) che veniva conferita una dimensione pubblica al matrimonio coinvolgendo l’intera comunità; successivamente la sposa trasferiva a casa del marito.

La donna andava a cavallo, vestita sontuosamente con servitori che portavano il corredo e i doni ricevuti dallo sposo. Dopo il giuramento l’uomo inviava uno scrigno (il forzierino) pieno di gioielli. Il marito forniva successivamente il guardaroba intero. Con questi gesti inizia la vestizione della sposa che sanciva l’ingresso della donna nel nuovo gruppo familiare mostrando la propria appartenenza al marito.Il rito era costosissimo ma tutto apparteneva sempre all’uomo il quale successivamente poteva rivendere tutto o riconsegnare ai legittimi proprietari oggetti presi solo in prestito. Entrando nella casa del marito, la sposa offriva regali ai parenti e riceveva dalle donne anelli della famiglia atto che rafforzava i legami familiari e la continuità dei ruoli femminili. Entro una settimana la sposa doveva rientrare a casa (la ritornata): la famiglia della sposa era pronta a riprendersi la figlia vedova e la dote da rigirare per un altro eventuale matrimonio.

La dote era della sposa ma era gestita dal marito e doveva servire al suo mantenimento in caso di vedovanza. Ma, se rimaneva vedova, difficilmente poteva restare in casa coi figli, spesso restava o con i parenti del marito o tornava a casa ma in questo caso perdeva i figli che dovevano rimanere nella casa della famiglia di origine per assicurarsi il proseguimento del lignaggio familiare. Il ritorno a casa era accompagnato da festeggiamenti, banchetti organizzati nelle case delle famiglie. Le spese erano considerevoli e le autorità promulgavano leggi (suntuarie) che ponevano un limite al numero degli invitati in riferimento alla quantità e qualità del cibo. Terminati i festeggiamenti il matrimonio era concluso e iniziava la vita coniugale.

Nei ceti popolari la situazione era complessa data la variabilità dei riti nuziali. Ci si poteva sposare ovunque, in casa della sposa, sui campi, in bottega o addirittura al letto se colti in flagrante o anche da soli o in presenza di amici e parenti suggellando l’accordo con un anello, con un bacio o con la rottura del bicchiere.  Ci si poteva sposare in pochi giorni o in anni per avere il tempo di sistemare tutte le questioni economiche o perché si doveva dare la precedenza al matrimonio di fratelli o sorelle oppure si doveva aspettare la morte del genitore non consenziente. Anche in questo caso il matrimonio poteva essere un processo lungo che iniziava con trattative affidate ad amici e parenti veri e propri intermediari di professione. Anche i ceti popolari dovevano accordarsi sulla dote e sul corredo della sposa da portare al marito e tutto poteva essere messo per iscritto non necessariamente da un notaio ma spesso gestivano loro lo scambio dei beni gli interessati stessi alla presenza di due testimoni. Talvolta a redigere la scritta di parentado era il prete che era anche notaio in quanto vi si affidavano, spesso, persone analfabete.

Il gesto del tocco della mano poteva essere ripetuto più volte ed era il rito più caratteristico della promessa in molti stati italiani del tardo Medioevo. Gli sposi potevano toccarsi la mano in segreto prima di coinvolgere le famiglie e rifarlo in pubblico con parenti ed amici. Il tocco era seguito dal bacio e dalla bevuta nello stesso bicchiere. Il bacio più che un gesto affettuoso altro non era che un segno che sanciva un accordo libero e volontario ed anticipava anche i rapporti sessuali che avrebbero reso irrevocabile il patto. Il bacio violento (fatto davanti a tutti senza il consenso della sposa) era equivalente ad un ratto e metteva la famiglia della donna dinanzi al fatto compiuto perdendo anche il controllo parentale e spesso portava a liti. Anche gli uomini del ceto medio basso facevano doni, non era oro o prodotti pregiati ma scarponi (simbolo del lavoro e che non tutti potevano permettersi) e cibo.

Raramente erano regalati gioielli. famiSenza dubbio questi doni avevano un valore simbolico molto più importante; la donna regalava un fazzoletto di pregiato lino bianco simbolo della disponibilità per una donna di unirsi in matrimonio. A offrire il dono era lo sposo e la donna poteva unirsi in matrimonio anche solo accettando un regalo oppure rifiutarlo se non voleva accettare l’uomo proposto. La celebrazione del matrimonio era accompagnata dal tocco della mano e dal bacio (in Veneto e Friuli) e in Toscana, Emilia, Bologna e Italia Meridionale era l’anello e l’anello permetteva di testimoniare l’esistenza di un vincolo matrimoniale contratto e la presenza o meno di un anello era ciò su cui si basavano i giudici ecclesiastici fiorentini per stabilire al validità o meno di un legame. L’anello però era associato sia al matrimonio ma anche al fidanzamento e su questo si distinguono due terminologia 
  • per verba de futuro (io ti prenderò in sposa) 
  • per verba de presenti (ti prendo in sposa)
Se per la chiesa il consenso del presente attribuiva validità al matrimonio, per i fedeli importava che il rito sancisse lo scambio del consenso rendendolo visibile ad altri. Anche il consenso segreto era vincolante ma non lo era dinanzi al mondo e quindi era necessario ripetere in pubblico il rito affinché la nuova unione fosse riconosciuta dalla comunità e fossero conosciuti anche gli effetti del vincolo. Il corteo aveva il compito di informare tutta la comunità della nascita di una coppia.

Le relazioni tra uomini e donne erano asimmetriche infatti ruoli maschili e ruoli femminili erano segnati da profonde differenze e ciò è visibile anche a livello linguistico: era l’uomo che conduceva in matrimonio una donna che veniva “data” dallo sposo. La donna cambia la sua condizione, il matrimonio diventava un vero e proprio di passaggio che contraddistingueva lo status di moglie e madre. Per l’uomo invece era l’inizio di una serie di rituali che accompagnavano le varie fasi della sua maturazioni. Il destino di una donna era diventare sposa o sposa di un marito o sposa di Cristo entrando in convento. Il mestiere per la donna non rappresentava un principio di identificazione. Anche entrare in convento voleva dire sottoporsi alla vestizione in cui si dava importanza all’abbandono delle vesti più che del cambio di abito in quanto tale. Anche qui troviamo l’uso simbolico della cerimonia nuziale anello e corona. Per molte ragazze la monacazione era un ripiego che spesso era vissuta drammaticamente. Dal momento che le doti per entrare in convento erano inferiori a quelle necessarie per sposarsi, spesso si tendevano a limitare i matrimoni e mandare le figlie in convento. Per molte la monacazione era una scelta consapevole vissuta talvolta contro la volontà dei genitori.

Non era necessario sposarsi in chiesa, la coppia poteva assistere alla messa nuziale, la messa era una funziona religiosa che non coincideva con il momento del matrimonio. Dal XI secolo il matrimonio venne considerato il simbolo dell’unione di Cristo con la Chiesa e da allora fu sottoposto alla giurisdizione della chiesa cui spettava di dettare le regole. La chiesa mirò a togliere alla giurisdizione delle famiglie, clan e signori feudali (come era dal V secolo) per puntare sulla liberà volontà degli individui. Il matrimonio era valido solo se presente il libero consenso degli sposi. Ma era difficile capire qualche fosse il momento preciso in cui si formava il vincolo matrimoniale: si trovano due posizioni








  1. bastava il consenso
  2. serviva il consenso e la consumazione
Prevale la teoria del consenso anche grazie all’opera di Pietro Lombardo il quale affermò che se il consenso per “futuro” esso creava una promessa, in caso di “presente” esso rendeva il matrimonio indissolubile. Non era richiesta forma solenne o presenza di sacerdoti o testimoni, un uomo e una donna maggiorenni potevano unirsi in qualsiasi momento da soli e in qualsiasi luogo a patto che il consenso (e non era prevista l’obbligatorietà della consumazione) era “presente”. Ciò rimase immutato fino al Concilio di Trento momento in cui si decise per la forma pubblica e solenne del vincolo con l’eccezione dell’Inghilterra dove il libero consenso rimase in vigore fino al settecento.

Da ciò si capisce come il matrimonio fino al Concilio di Trento non destava l’interesse degli ambienti ecclesiastici, era evidente che i matrimoni contratti senza alcuna formalità potevano turbare la pace sociale provocando inimicizie. Il Concilio Lateranense IV nel 1215 stabilì che le coppie dovessero annunciare pubblicamente in chiesa la loro intenzione di sposarsi in modo che il prete potesse essere informato dai fedeli di eventuali impedimenti. La pubblicazione dei bandi aveva proprio lo scopo di evitare le unioni tra consanguinei non di rendere pubblica la cerimonia anche se era un modo per far partecipare tutta la comunità. In FRA, ING, GER per assicurarsi maggiore pubblicità la celebrazione avveniva dinanzi la chiesa alla presenza del prete; in Italia del nord era il notaio che presidiava la cerimonia; tra i ceti popolari che non ricorrevano al notaio era il prete che interveniva con le medesime funzioni del notaio con la redazione di atti pubblici o privati, comprese le scritture matrimoniali in cui si stabiliva la dote.

Nel XII secolo in Sicilia Ruggiero II inserì l’obbligo della celebrazione solenne di fronte alla chiesa e alla presenza di un sacerdote nelle sue Costituzioni del Regno di Sicilia promulgate nel 1231. A Gaeta, ad esempio, era previsto che dopo la cerimonia in casa della sposa in cui lo sposo le metteva l’anello al dito, la sposa si recava in chiesa e lì sulla soglia si ripeteva il rito dell’anello alla presenza di un sacerdote che benediceva l’anello e interrogava gli sposi sulla loro volontà effettiva di unirsi. Subito dopo entravano in chiesa per ascoltare la messa. La Chiesa era riuscita ancora prima del Concilio di Trento a diffondere una forma religiosa e pubblica di celebrazione. La funzione del prete era assistere allo svolgimento di una cerimonia che era sacramentale anche senza la sua presenza, e anche il ricorso al prete per benedire l’anello, il letto, la camera prima della consumazione del matrimonio serviva per scongiurare interventi “diabolici” che impedivano alla coppia di procreare.

In ogni caso il matrimonio era un evento religioso, se gli sposi erano da soli al momento di scambiarsi il consenso invocavano Dio, la Vergine o i santi come testimoni in questo modo il vincolo era illegale agli occhi del mondo ma perfettamente valido dinanzi a Dio. Ma l’assenza di una codificata cerimonia religiosa non deve indurre a ritenere che il matrimonio fosse laico dato che nonostante l’enorme confusione era certa una cosa, ossia che il consenso era l’essenza del matrimonio ed erano proprio gli sposi ad essere ministrei del loro sacramento. La copula carnale mantenne un ruolo importante nella dottrina della chiesa e costituiva la prova incontrovertibile del consenso al presente e quindi trasformava la promessa in matrimonio. Anche la promessa ebbe un ruolo molto importante. Nonostante il diritto canonico se ne distaccava in quanto obbligava direttamente al matrimonio, e quindi il rapporto tra promessa e matrimonio diventava vincolante anche a causa degli influssi germanici che li consideravano due tappe dello stesso processo. In caso di rottura della promessa il partner abbandonato poteva ricorrere al tribunale per ottenere l’adempimento della promessa ma spesso il giudice non obbligava il matrimonio perché veniva meno il principio di libera scelta.

Questa complessità favoriva i matrimoni clandestini. Dal momento che il consenso era sufficiente, i matrimoni privati senza alcuna forma di pubblicità erano validi a tutti gli effetti: in assenza di testimoni e di altre forme pubbliche era difficile anche in sede giudiziari giudicare la validità o la nullità in caso di contestazione da parte di uno degli sposi. Se uno dei partner cambiava idea ed abbandonava il tetto coniugale l’altro poteva ricorrere al giudice ecclesiastico pur correndo il rischio di non dimostrare l’esistenza del vincolo. La testimonianza di amici, parenti e vicini era necessaria se si voleva dimostrare di aver intrattenuto un rapporto matrimoniale col proprio partner. Se era positivo il giudice ordinava la coppia di rendere il vincolo solenne con pubblica cerimonia e ripresa della convivenza, altrimenti dichiarava il vincolo nullo.

I matrimoni clandestini quindi mettevano in dubbio i principi di indissolubilità della chiesa e rendeva semplice la bigamia. L’abbandono era il modo più semplice per interrompere una unione senza bisogno di tribunali; ma anche chi non aveva contratto vincoli poteva rivolgersi al giudice per ottenere il riconoscimento sfruttando il fatto che non fosse obbligatoria alcuna forma di pubblicità. Rendeva la cosa ancora più complicata la difficoltà di distinguere promessa e matrimonio, differenza basata sui verbi al presente e al futuro. In caso di matrimonio riparatore (Cittadella 1560) si poteva celebrare anche durante la flagranza…addirittura un fabbro ad interrogare gli sposi alla presenza di testimoni i quali fornirono agli sposi in prestito un anello per rendere la cerimonia perfetta.

Potevano gli sposi anche usare altre parole, difatti non vi era ancora una codifica ufficiale questo perchè bastava anche un semplice senso di accenno del capo, gesto che in caso di processo poteva non essere sufficiente per arrivare alla sentenza. In assenza di atti scritti si parla di presunzioni. Conseguentemente è facile intuire come i matrimoni clandestini non rappresentavano che elementi di grave incertezza dato che c’era di mezzo anche l’asse ereditario e la legittimità della prole. I matrimoni clandestini creavano ostilità dei laici soprattutto dei ceti sociali elevati che volevano vedere il proprio patrimonio al sicuro. La legge della carità imponeva ai cristiani di stringere alleanze matrimoniali con chi non era legato a loro da vincoli di parentela per poter entrare allargare rapporti con altre famiglie. La chiesa instaurò, quindi, degli impedimenti che riguardava il divieto di matrimonio con consanguinei ed affini, limiti contro cui si scaglierà Lutero.

Anche i poteri secolari intervennero per bloccare il fenomeno dei matrimoni clandestini. Nel settentrione furono create altre forme di pubblicità: la presnenza di testimoni e di un notaio (che redigeva l’atto pubblico), e la consegna dell’anello da parte dello sposo in pubblico. Ma al centro dell’attenzione era sempre il tema del consenso paterno. Molti statuti comminarono pene dure a chi si sposava senza l’approvazione del padre, la madre aveva voce in capitolo solo in assenza del padre e in assenza di una lunga linea maschile consanguinea. Erano i matrimoni delle figlie ad essere sottoposte ad un rigido controllo familiare e chi le sposava clandestinamente erano puniti con pene pecuniarie e le ragazze perdevano il diritto alla dote. A Bologna nel 1454 si puniva con la morte lo sposo clandestino a meno che la sposa non avesse acconsentito in quel caso la pena era pecuniaria - reato di ratto – lo sposo clandestino era un rapitore che sottraeva la fanciulla alla casa paterna la quale accettando offendeva il padre e rimaneva senza dote. Esso era un reato contro l’ordine perché suscitava scandali ed inimicizie. Ma è anche vero che in alcuni stati il consenso era richiesto solo in caso di minore età (15-25 anni in media).

Pene più severe in Spagna e Francia: in Spagna la regina Giovanna promulgò nel 1505 una legge sui matrimoni clandestini che prevedevano la diseredazione; in Francia Enrico II nel 1556 proibì agli uomini minori di 30 anni e alle femmine sotto i 25 di sposarsi senza l’approvazione paterna pena diseredazione. Ma queste pene NON dichiaravano NULLO il vincolo la quale rimase competenza della chiesa. Le questioni patrimoniali era appannaggio del potere secolare, per regolare le spese nuziali, la dote e stabilire alimenti per moglie e figli in caso di separazioni. Sul controllo dei comportamenti matrimoniali i tribunali secolari entravano in conflitto con quelli ecclesiastici che esercitavano una giurisdizione criminale => reati di “misto foro”. In Francia dal XVI secolo le competenza ecclesiastiche si erodono in virtù del principio che solo al Capo dello Stato e ai suoi ministri spettava punire il colpevole con sanzioni affettive, lasciato alla chiesa solo le pene di natura spirituale.

La promessa non era un semplice progetto per il futuro ma rappresentava l’atto costitutivo del vincolo e da quel momento la donna non poteva frequentare altri uomini (e non viceversa). Tutte le tappe successive altro non erano che delle conferme alla promessa di conseguenza è difficile stabilire una differenza tra promessa e matrimonio vero e proprio. Anche Graziano se ne occupò scindendo il matrimonium initiatum (scambio del consenso) e matrimonium ratum (con la consumazione) concezione che rimase valida anche dopo il Concilio di Trento in cui si stabilì il matrimonio dinanzi ad un parroco e celebrato solennemente. La sessualità quindi era ampiamente tollerata in quanto la promessa legittimava la frequenza della donna, poteva bere, mangiare e conversare insieme e poteva anche dormirci insieme SENZA necessariamente finire con un rapporto sessuale anche perché era spesso difficile avere intimità a meno che non si pagava per servirsi di un letto (che magari era di uno o piu fratelli della donna) per rapporti più intimi. In alcune zone della Francia, Germania, Svizzera, Olanda i rapporti sessuali altro non erano che valvole di sfogo per ragazzi che si sposavano anche a trent’anni. Ma perché tutto questo tempo? Perché spesso gli uomini si spostavano per lavoro o per guerre ad esempio oppure condannati al bando o per sfuggire dai creditori, anche le donne si spostavano ma per tratti molto brevi; il fatto era che la promessa anche se vincolante non bastava, serviva anche l’anello e la coabitazione. Erano i pretendenti che potevano avviare le trattative col padre della ragazza: per prendere tempo, vincere le resistenze familiari o addirittura attendere che si concludesse il matrimonio della sorella perché in assenza del padre il fratello non poteva sposarsi se prima non dava la dote alla sorella.

Ovviamente le lunghe attese non favorivano in contenimento dei desideri sessuali; fino al Concilio di Trento l’istituto del matrimonio trasformava la promessa seguita dalla copula carnalis in matrimonio. Il partner abbandonato ricorreva ad un tribunale per var riconoscere la validità del vincolo costringendo l’altro ad una coabitazione, pertanto era meglio che l’intimità non travalicasse certi limiti. Ma i limiti venivano oltrepassati spesso. Spesso si finiva in tribunale perché l’uomo aveva interrotto l’iter matrimoniale senza arrivare alla traductio (trasferimento in casa del marito) e spesso il responsabile era il maschio in quanto si presumeva che la donna si fosse concessa solo se aveva la certezza di arrivare al matrimonio e nel momento in cui donava il suo corpo stipulava un contratto con  cui si garantiva il matrimonio e l’atto poteva avvenire nei luoghi e nei momenti più disparati. La scritta di parentado era determinante nel favorire il passaggio all’atto sessuale completo. Se la promessa era l’atto costitutivo del vincolo è evidente che il rapporto sessuale era un evento che poteva capitare tra i due innamorati e davanti ai giudici ecclesiastici spesso si scendeva neo particolari più intimi; una certa libertà sessuale era consentita anche alle ragazze a patto di arrivare alle nozze.

Cosa succedeva se uno dei due non formalizzava il legame e convivere insieme?

Parenti amici e vicini esercitavano un controllo affinché si arrivasse in tempi ragionevoli ad una conclusione. Il vicinato stesso controllava il percorso matrimoniale tanto più se si sospettavano rapporti sessuali. I mediatori erano i parroci, frati, notai, procuratori o signorotti e se i tentativi erano vani la ragazza poteva denunciare il seduttore. La seduzione di  una vergine o vedova casta era uno STUPRO (non come lo intendiamo oggi), in quanto la violenza era solo una aggravante che comportava la pena di morte dopo il giudizio del foro secolare che aveva il compito di comminare pene di sangue.

Cosa otteneva una donna che ricorreva al foro ecclesiastico?

Se c’era stata una promessa, il seduttore doveva mantenerla altrimenti o la sposava o la dotava. L’obiettivo era comunque quello di favorire il matrimonio o col seduttore o con un altro grazie alla dote ricevuta dal primo.

Nei tribunali secolari del tardo Medioevo le pene per lo stupratore erano pecuniarie e spesso era cancellata se poi l’uomo decideva di sposare la donna. Lo STUPRO preceduto da promessa di matrimonio fu definito “stupro qualificato”. Perché le nozze si potessero celebrare si richiedeva la parità di condizione sociale tra i partner. Il processo serviva a togliere gli ostacoli che impedivano la conclusione del matrimonio. Il giudice ecclesiastico doveva mediare i conflitti, offrire una soluzione senza giungere ad una punizione anche se si trattava di casi di stupro e aveva anche il compito di mediare i conflitti, trovare una soluzione arrivando ad usare anche metodi coercitivi, quale la minaccia del carcere la cui sola parola convinceva il seduttore a convolare a nozze che potevano essere celebrate anche all’istante. I processi per stupro fanno capire come ai giovani era consentito sperimentare rapporti sessuali durante l’iter matrimoniale perché la promessa stessa era considerata come atto vincolante.

La sessualità era consentita al di fuori del percorso matrimoniale, ciò che era definito dalla chiesa concubinato non era un legame fondato sul rifiuto del sacramento del matrimonio ma un vincolo di solidarietà tra uomo e donna spesso provvisorio (per salute o per bisogno), altre volte invece stabile che non era possibile legalizzare per mancanza di dote, per eventuali differenze di status sociale o perché uno dei due era già sposato e spesso erano le donne che ad un certo punto non avevano più il sostegno del marito e quindi erano “giustificate” in quanto era costretta a cercare un altro partner. Raro era giustificare il concubinato senza ricorrere a pratiche lesive dell’onore maschile.

Metter su una famiglia voleva dire romperne due. Il matrimonio rappresentava un rischio di impoverimento per le famiglie di origine. Chi e quando sposarsi non era una scelta individuale ma doveva dipendere dagli ingenti patrimoni che andavano trasmessi. Per tutti il matrimonio era possibile solo quando sia l’uomo che la donna erano in grado di apportare risorse economiche senza impoverire le famiglie di origine. In Europa vi erano due modelli di matrimonio:
-          Europa Nord Occidentale -> ci si sposava tardi perché prima del matrimonio i giovani di entrambi i sessi andavano a lavorare in altre famiglie in modo da poter mettere su casa per proprio conto.
-          Europa Orientale e Sud (Italia) -> in Italia i giovani si potevano sposare presto evitando di andare a servizio perché le nuove coppie si stabilivano in casa dei genitori degli sposi.

Nella formazione della famiglia non vi erano esempi unici: l’età del matrimonio, il tipo di residenza, la dimensione della famiglia variavano a seconda del ceto sociale di appartenenza, del contesto geografico ecc…Tra i salariati ci si sposava presto e si andava a vivere per conto proprio perché non si era legati ad aziende a conduzione familiare, in questo caso era tutto molto più complicato e si doveva aspettare il momento giusto per non incrinare l’equilibrio tra braccia e bocche da sfamare, in questi casi la coppia veniva accolta nella famiglia del marito creando una serie di famiglie multiple tipicamente contadine. Anche gli artigiani si sposavano tardi solo dopo l’apprendistato. Metter su bottega e famiglia erano eventi collegati anche perché il lavoro e la dote della moglie potevano essere decisivi per dare avvio ad una attività autonoma.
Nelle elite a determinare l’accesso al matrimonio era la forma di trasmissione della proprietà: se il patrimonio veniva diviso tra tutti i figli maschi era più facile che tutti mettessero su famiglia per conto proprio. Se doveva restare indiviso per privilegiare un unico figlio solo allora l’erede convolava a nozze restando nella casa paterna insieme ai fratelli e alle sorelle destinati al celibato. Il modello successorio fu applicato raramente sia perché nonostante i principi ugualitari del diritto romano fin dal XII secolo le figlie dovettero rinunciare all’eredità in cambio di una dote, ma anche perché la necessità di mantenere unito il patrimonio spingeva i fratelli a non dividere l’eredità e a convivere sotto lo stesso tetto. Questo si accentuò dal XVI secolo dove per evitare la dispersione dei patrimoni le famiglie dovettero drasticamente limitare i matrimoni dei figli. Celibato e nubilato erano fenomeni, dunque, diffusi non sempre per scelta individuale ma per garantire la conservazione del casato, evitare la polverizzazione della proprietà terriere o per mancanza di risorse considerando che per una donna la dote era essenziale. Se il numero delle figlie era elevato anche le famiglie aristocratiche dovevano fare una scelta che portava a conflitti. Era un miracolo avere una figlia che avesse la dote minima per entrare in convento, spesso erano costrette ad invecchiare nella casa paterna rendendosi utili nei servizi domestici una volta passata al fratello. Anche i cadetti erano in difficoltà, dovevano rinunciare al matrimonio entrando in convento o dandosi all’avventura delle armi. La Chiesa medievale aveva imposto limiti pesanti alla libera scelta creando una serie di impedimenti di parentela non limitandosi ai consanguinei ma anche agli affini e i parenti spirituali. Il Lateranense IV nel 1215 ridusse i gradi di consanguineità da 7 a 4 con la motivazione che gli ultimi tre non venivano rispettati ma non si otteneva il rispetto neanche del quarto grado e nei piccoli villaggi si chiedeva la dispensa a causa della scarsità del mercato matrimoniale. I matrimoni tra parenti permetteva ai beni di non essere sperperati rafforzando i legami di parentela. Regola dell’ “omogamia” -> ci si sposava con chi apparteneva allo stesso ceto sociale. Era obbligatorio evitare mescolanze, matrimoni male assortiti che valeva per tutte le classi sociali. Per tutti sposarsi onorevolmente significava conservare il proprio status e impedire la caduta verso un gradino più basso della scala sociale. In questa strategia la dote era uno strumento importante, solo se era adeguata al ceto sociale della giovane consentiva di trovare un marito di pari rango. I giuristi e teologi stessi tuonavano contro i matrimoni misti.

E’ possibile parlare di libertà di scelta?

Abbiamo detto che a decidere il matrimonio era l’accordo amorevole tra le famiglie non l’amore tra gli sposi che era visto come elemento di scandalo contrapponendo la passione giovanile alla ragione degli adulti. Libertà di scelta significava libertà dalla passione e perciò era necessario che i giovani si sottomettessero al giudizio saggio dei genitori che non esercitavano il loro ruolo con tirannia ma, come scrisse Leon Battista Alberti, talune volte era facile che i genitori consigliassero i figli (come fu per lui) secondo le proprie attitudini e passioni, pur rimanendo il fatto che se le esigenze personali cozzavano con quelle familiari, queste erano le uniche a prevalere. Così con la morte del primogenito che doveva sposarsi poteva costringere il figlio cadetto ad abbandonare la carriera intrapresa per perpetuare il casato, oppure se le figlie erano numerose potevano essere loro a decidere di prendere il velo lasciando la più bella libera di sposarsi con un uomo. Genitori e figli condividevano la concezione del matrimonio come alleanza: la scelta del partner era un affare che coinvolgeva l’intera famiglia, amici, parenti e vicini che si davano da fare per mettere insieme giovani e ragazze in età da matrimonio. Le donne svolgevano un ruolo importante nell’individuazione di possibili pretendenti grazie alla loro capacità di diffondere la voce. Nelle elite le madri venivano incaricate di accertare le caratteristiche della futura sposa. Il luogo privilegiato per gli incontri era la chiesa e qui ad esempio due figure eminenti come Alessandra Macinghi Strozzi e Tornabuoni dei Medici che in chiesa sottoposero le future nuore ad un esame molto accurato soffermandosi sul collo e sulle mani.
Alla distinzione di genere dobbiamo aggiungere quelle di ceto: le figlie delle elite erano segregate in casa e avevano pochissime opportunità di incontrare coetanei. Le ragazze di ceto medio basso invece erano abituate a rimanere fuori dalle mura domestiche essenzialmente per lavoro ma anche per veglie e feste. A loro era permesso “amoreggiare” nel senso avere i primi approcci, conversare, prima che le famiglie vengano coinvolte per lo scambio della promessa e la definizione di accordi; non in luoghi segreti senza dimenticare che questa frequentazione non doveva superare i limiti consentiti. E più che i rapporti, erano temute le promesse segrete che i giovani potevano volgere a loro favore in tribunale.

Avviati i primi approcci cosa accadeva?

Gli uomini potevano prendere l’iniziativa di andare a parlare col padre della donna o con lo zio o fratello se orfano e proporre una trattativa. Normalmente si preoccupavano di avere prima il consenso dei propri parenti. Se i giovani sapevano che il consenso non ci sarebbe stato avrebbero mantenuto segreto il consenso e talvolta era necessario aspettare la morte del genitore non consenziente. Anche se i figli maschi avevano un certo margine di iniziativa, erano soggetti all’autorità parentale al pari delle sorelle e spesso i genitori facevano valere la minaccia della diseredazione per piegare ribellioni in famiglia. Il matrimonio implicava un accordo sereno tra padri e figli vera e propria base su cui improntare il matrimonio; la condizione della ragazze era diversa da quella dei fratelli. La promessa e tutta la trattativa era condotta esclusivamente dagli uomini (fratelli, zii, padre) che avevano il compito di “interrogare” il pretendente.
Alle ragazze rimaneva la possibilità di ribellione, quindi non accettazione del partner imposto che si esprimeva secondo un rituale: il pianto, tristezza e malinconia, ritrarsi dal tocco della mano o volgere il capo per non essere baciata. Era anche possibile non accettare i doni.
Molti parroci e confessori condividevano gli stili di vita dei loro fedeli e che spesso non osavano mettere in discussione l’autorità paterna pertanto le donne che volevano un appoggio dovevano recarsi dai giudici vicari dei tribunali che avevano una preparazione teologica migliore. La chiesa aveva tutto l’interesse a limitare i poteri del padre e dei signori nei confronti delle figlie offrendo protezione alle stesse mettendo in mezzo anche altre questioni senza dimenticare che l’accento del diritto canonico sulla libertà di scelta mirava a salvaguardare le vocazioni religiose date che queste non erano particolarmente gradite dalle famiglie in quanto la dote concessa doveva servire per stringere alleanze vantaggiose. Il diritto canonico specificava che se si sospettava la coercizione della famiglia, la donna poteva essere condotta in un luogo sicuro ed essere interrogata sulle sue effettive volontà: su iniziative del giudice le ragazze venivano allontanate dalla famiglia e ospitate in un monastero in cui dopo alcuni giorni di riflessione e interrogatori prendevano la decisione. In questo modo la chiesa offriva la possibilità di decidere autonomamente. Alcune ragazze non avevano il coraggio di ribellarsi alle richieste della famiglia.

Anche la comunità aveva un controllo fondamentale sulle decisioni matrimoniali, intervenendo per ripristinare l’ordine, riaggiustare equilibri rotti e denunciare comportamenti trasgressivi. E spesso erano bande giovanili create secondo strutture gerarchiche a mantenere l’ordine con rituali di disapprovazione collettivi spesso anche violenti che alla fine sancivano la reintegrazione nella comunità. Meno aggressivi erano i serragli, barriere e barricate al corteo della sposa.

Tratto da "La Storia del Matrimonio", Daniela Lombardi

mercoledì 21 agosto 2013

MOTTE AND BAILEY

Motte-and-bailey è un tipo di castello che si diffuse in Francia, Sicilia e Gran Bretagna nell'XI e XII secolo. In Sicilia conosce il suo sviluppo a partire dal 1061 con la conquista dei territori islamici, mentre in Inghilterra si diffuse in dopo la conquista normanna del 1066. La motta (dal francese motte) è un monticello rialzato di terra, come una piccola collina, solitamente artificiale, ed è sormontato da una struttura di legno o di pietra. La terra per il monticello viene presa da una fossato, scavato intorno alla motte o intorno all'intero castello. La superficie esterna del monticello può essere ricoperta di argilla o rinforzata con supporti di legno. Il bailey è un cortile chiuso, circondato da una recinzione di legno e sormontato dalla motte. È probabile che un castello avesse più di un bailey, a volte uno interno e uno esterno. La rapidità e la facilità con cui era possibile costruire queste strutture, le rese tipiche del periodo della conquista normanna in Sicilia, in Inghilterra e negli insediamenti anglonormanni nel Galles, in Irlanda e nelle pianure scozzesi. In seguito, un muro difensivo in pietra sostituì le palizzate di legno, come nei castelli di Berkeley, Alnwick, Warwick e Windsor (ancora esistenti). In numerosi casi, tuttavia, le difese in legno e terra non furono mai sostituite con la pietra. Molti resti di questo tipo di strutture si trovano in diverse zone della Gran Bretagna. Le motte sono tra le prime opere di architettura militare relativamente stabili. Tali motte altro non erano che dei terrapieni di altezza variabile per meglio controllare e difendere il territorio circostante. Sulla sommità tali costruzioni potevano avere una torre, solitamente in legno o comunque in materiale deperibile. Un'ulteriore difesa poteva essere rappresentata da palizzate sempre in legno. Sono giunte a noi pochi casi di motte, in quanto proprio a causa della loro deperibilità non sono spesso giunte sino a noi se non in maniera molto frammentaria. Un chiaro esempio di motta lo si può vedere dal celebre Arazzo di Bayeux, che commemora la conquista normanna dell'Inghilterra del 1066. L'arazzo raffigura un gruppo di armati "arroccati" sulla sommità di questo terrapieno, protetto da una primitiva torre, gli uomini scagliano lance e frecce su chi li sta assediando. Un esempio di motta ancora visibile è presente nel Salento, che fu territorio normanno, resti di questo tipo di fortificazione li troviamo ad esempio presso "Specchia Torricella" nel territorio di Supersano (in realtà una motta e non una Specchia), in tale località è presente un terrapieno con sulla sommità resti di una torre di forma circolare, da cui si poteva agevolmente controllare tutto il territorio circostante. In Sicilia le motte superstiti caratterizzano perlopiù località costiere, come ad esempio il Castello di Aci, sebbene non manchino esempi di motte erette nell'entroterra, come le motte di Adrano o di Paternò o nel caso di Motta Camastra testimoniata nella toponomastica. Anche il castello di Arechi di Salerno, a seguito della conquista normanna della città nel 1077, assunse alcune caratteristiche tipiche delle motte, andando così a modificare l'antico impianto del castrum romano, bizantino e, in seguito, longobardo che, nel corso dei successivi secoli e dominazioni, vedrà modificare ancora il suo assetto architettonico.

Fonte: Wikipedia

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