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mercoledì 30 aprile 2014

FOTOGRAFIA DI UNA CROCIFISSIONE

Se i cristiani che venivano dal giudaismo potevano nutrire disgusto e anche paura verso un oggetto come la sindone, spingendo senz’altro i suoi custodi a nasconderla, per i cristiani che venivano dal paganesimo, cioè dalla cultura greco-romana, la situazione non era molto migliore. I greci e i romani non erano prevenuti verso ciò che era stato a contatto con un cadavere, fatte salve le normali cautele di tipo sanitario; ma nella cultura cristiana dei primi tempi si era diffusa per diversi motivi un’avversione molto netta nei confronti delle immagini. E la sindone di Torino, se era nota e conservata in quei tempi, poteva essere guardata con estrema avversione proprio per via dell’immagine che porta: si tratta infatti di un’immagine inconfondibile. La caratteristica più singolare della sindone è che su una faccia del tessuto esiste una doppia impronta e una doppia imagine, l’una sovrapposta all’altra: insieme restituiscono la sagoma di un uomo che vi fu avvolto dentro. Alla fine dell’Ottocento l’avvocato torinese Secondo Pia, che praticava la fotografia per passione, chiese ed ottenne il permesso di sottoporre la sindone a questo nuovo procedimento. Lo sviluppo delle lastre mostrò un fatto che cambiò il modo in cui la sindone veniva guardata: l’immagine infatti si comporta esattamente come un negativo fotografico, sicché il negativo delle foto della sindone mostra l’immagine di un uomo con un realismo a dir poco impressionante. Non è propriamente una fotografia perché le foto sono bidimensionali, invece l’immagine sindonica ha caratteri tridimensionali; ma se per comodità di discorso può essere paragonata a una foto, bisogna dire che si tratta della fotografia di una crocefissione. 

Articolo per gentile concessione della dott.ssa Barbara Frale

CON I PRIMI CRISTIANI IN FUGA

Un’ipotesi diversa da quella che vuole la sindone nascosta in una giara, ma ugualmente interessante, è che il telo funebre, oggetto sommamente impuro e inoltre macchiato di sangue, venisse infilato dentro il pertugio di un muro, piegato nel modo che ha lasciato un segno grazie alle gore d'acqua: questa condizione, se provata, indicherebbe senza dubbio che la sindone per un certo tempo venne volontariamente occultata. Chiunque aprisse quella giara, non vedeva certo la sindone nella sua realtà ma solo un semplice involto di tela; e lo stesso succedeva se qualcuno avesse raggiunto l’ipotetico nascondiglio in una nicchia del muro. Gérard Lucotte dell’Institut d’Anthropologie Genetique Moleculaire di Parigi ha notato sulla sindone l’esistenza di globuli rossi appartenenti a sangue non umano: si tratta di tracce infinitesimali che non hanno niente a che vedere con quelle, enormi, di sangue umano uscito a fiotti dalle tante ferite del cadavere umano che ha impregnato il lino. Sembra trattarsi piuttosto di sangue proveniente da carni crude di maiale appoggiate sul telo, certamente pulite però ancora in grado di rilasciare microscopiche tracce organiche: se le cose stanno così, si può pensare che la sindone venne occultata dentro un recipente coprendola proprio con carni suine, che in tanti luoghi del Medio Oriente erano proibite e producevano sulle persone un effetto di rifiuto. Tutto questo, naturalmente, per scoraggiare un esame più accurato. La situazione fa pensare al passaggio di una qualche dogana dove avvenivano controlli, o comunque al bisogno di evitare che si venisse a scoprire l’esistenza di questo oggetto. I motivi di questa scelta per ora non sono noti; ma conoscendo la mentalità diffusa nei primi secoli della nostra èra, vengono in mente ipotesi piuttosto plausibili. La stessa società ebraica cui appartenevano Gesù e i suoi discepoli guardava con orrore a tutto ciò che fosse entrato in contatto con un cadavere: era una cosa sommamente impura che poteva contaminare le persone, gli oggetti e persino i luoghi, perciò doveva essere distrutta. Sappiamo che la prima comunità cristiana di Gerusalemme fu costretta ad emigrare in ondate diverse a causa delle persecuzioni: Pietro verso l’anno 40 dovette fuggire e si rifugiò ad Antiochia, poi più tardi a Roma; gli altri cristiani rimasti a Gerusalemme dovettero scappare a Pella. A seguito della lunga guerra romano-giudaica, Gerusalemme fu rasa al suolo nell’anno 70 e la popolazione, compresa quella cristiana rimasta in loco, venne deportata. I cristiani potevano aver conservato la sindone come atto d’amore e di devozione verso il loro Maestro, ma certo quella scelta non sarebbe stata condivisa né approvata da altri ebrei che magari decidevano di ospitarli per amore di Dio e solidarietà.

Articolo per gentile concessione della dott.ssa Barbara Frale

LA SINDONE NASCOSTA

Nell’aprile 2008 Aldo Guerreschi e Michele Salcito hanno pubblicato sulla rivista specialistica Archeo i risultati di una loro ricerca svolta sulle gore, cioè gli aloni lasciati dall’acqua sulla sindone. Queste gore documentano una piegatura completamente diversa, del tipo detto a soffietto, ma soprattutto imprecisa: i lembi non combaciano l’uno sull’altro e la piegatura centrale non cade nel mezzo del telo. É un modo molto diverso di conservarla rispetto ad altri che pure sono documentati per le epoche successive, quando il telo era già oggetto di venerazione e veniva piegato con somma cura dopo averlo disteso su un lungo tavolo e piegato a metà facendo attenzione a che i bordi combaciassero perfettamente. In questa traccia di piegatura più antica, invece, il telo era piegato in modo impreciso e quasi frettoloso, con i lembi che non combaciano. Chiuso sommariamente a metà, veniva avvoltolato a soffietto e poi di nuovo come arrotolato: in questo modo non stava teso, ma aveva la parte anteriore afflosciata su se stessa sotto il proprio peso. Dal modo in cui era sistemato si può ricavare anche la forma del contenitore dov’era stato messo: un oggetto di forma cilindrica, non molto grande, stretto e lungo. Guerreschi e Salcito mettono a confronto la forma di questo ipotetico contenitore con le giare di terracotta trovate a Qumran, quelle che ospitavano gli oltre 800 manoscritti della biblioteca degli esseni: in effetti erano contenitori molto versatili dove si metteva di tutto, dall’olio al grano fino appunto ai libri. Sul fondo di quel recipiente c’era del liquido, una quantità modesta ma comunque in grado di bagnare la parte sottostante del telo. Un’ipotesi diversa ma ugualmente interessante è che il telo venisse infilato in questo modo dentro il pertugio di un muro: questa condizione, se provata, indicherebbe senza dubbio che la sindone per un certo tempo venne volontariamente occultata.

Articolo per gentile concessione della dott.ssa Barbara Frale

lunedì 28 aprile 2014

CRIMEN SOLLICITATIONIS: ANCORA CONVINTI CHE GIOVANNI XXIII E GIOVANNI PAOLO II FOSSERO SANTI?

Rompo momentaneamente il silenzio-protesta solo per condividere con voi il celeberrimo CRIMEN SOLLICITATIONIS firmato da San Giovanni XXIII e documento cardine dell'insabbiamento dei preti pedofili di Giovanni Paolo II

PRELIMINARI

1.Il reato di molestia si ha quando un sacerdote o nell’atto del sacramento della confessione; o prima o immediatamente dopo la confessione; o in occasione o con il pretesto della confessione; o anche al di fuori dell’occasione della confessione nel confessionale o in altro luogo destinato ad ascoltare le confessioni o scelto con il pretesto di ascoltare la confessione proprio in quel luogo, abbia, tentato di incitare o invitare un penitente - qualsiasi persona sia - a comportamenti disonesti e vergognosi sia con parole, sia con segni, sia con cenni, sia con contatto fisico o attraverso la scrittura da leggere al momento o in seguito o abbia tenuto con lui discorsi o pratiche illecite e disoneste con audacia sconsiderata (Const. Sacramentum Poenitentiae, §1).

2. Informarsi su questo orribile reato spetta in prima istanza agli Ordinari dei luoghi nel territorio dei quali l’accusato ha la residenza (V. più avanti nn. 30 e 31), e ciò non solo per proprio diritto, ma anche per speciale delega della Sede Apostolica; e si ordina assolutamente a loro, essendo gravemente obbligata la loro coscienza, che da ora innanzi curino di introdurre, discutere e concludere quanto prima le cause di questo tipo davanti al proprio tribunale. Tuttavia, per particolari e gravi ragioni anche queste cause, a norma Can. 247, §2, possono essere direttamente deferite alla S. Congregazione del S. Uffizio o possono essere avocate a se stessa dalla stessa S. Congregazione. Anzi, anche agli stessi accusati convenuti in giudizio spetta integro il diritto di ricorrere al S. Uffizio; ma il ricorso così intervenuto non sospende, escluso il caso di appello, l’esercizio di giurisdizione nel giudice che comincia già a conoscere la causa; ed egli perciò potrà proseguire il giudizio fino alla sentenza definitiva, se non avrà constatato che la Sede Apostolica ha avocato a sé la causa (cfr. Can. 1589).

3. Con il nome di Ordinari dei luoghi qui si intendono, ciascuno in rapporto al proprio territorio, il Vescovo residenziale, l’Abate o il prelato nullius (cioè con territorio e popolo separati ed esenti) l’Amministratore, il Vicario e il Prefetto Apostolico e coloro che, mancando i predetti, hanno la successione nel frattempo secondo quanto prescritto nel diritto o secondo decreti approvati (Can. 1589); non tuttavia il Vicario Generale, se non per speciale delega.

4. L’Ordinario dei luoghi in queste cause è giudice al posto dei “Regolari” sebbene esentati; infatti ai loro Superiori è rigorosamente vietato intromettersi nelle cause spettanti al Santo Uffizio (Can. 198 §1). Salvo tuttavia il diritto dell’Ordinario, ciò non impedisce che i Superiori stessi, se siano venuti a conoscenza per caso che un loro sottoposto abbia mancato nell’amministrazione del Sacramento della Penitenza, possano e debbano vegliare su di lui, adoperando anche salutari penitenze e ammonirlo e correggerlo e, se sia il caso, rimuoverlo da qualsiasi mansione; potranno anche trasferirlo altrove, se l’Ordinario del luogo non abbia vietato ciò a causa della denuncia ricevuta e a causa dell’inchiesta iniziata.

5. L’Ordinario del luogo può o presiedere di persona a cause di questo tipo, o affidarne l’investigazione ad un altro, vale a dire ad un ecclesiastico autorevole e di età matura, certamente non abitualmente per la totalità di queste cause, ma delegando un documento per ogni singola causa, salvo la disposizione Can. 1613, §1.

6. Sebbene di regola, a causa del segreto, sia prescritto un giudice unico in cause di questo tipo, non è vietato tuttavia che l’Ordinario nei casi più difficili si associ con uno o due assessori consulenti da scegliere fra i sinodali (Can. 1575); o anche che affidi la causa da trattare a tre giudici, ugualmente da scegliere fra i sinodali, con il mandato di procedere collegialmente secondo il Can. 1577.

7. Il promotore di giustizia, il difensore dell’accusato e il notaio, che è necessario che siano sacerdoti autorevoli, di età matura, di integra fama, dottori in diritto canonico o peraltro esperti e conosciuti per ardore di giustizia (Can. 1589), e che non devono trovarsi nei confronti dell’accusato nelle condizioni, sulle quali Can. 1613, sono nominati con nomina scritta dall’Ordinario, promotore di giustizia (che può essere diverso dal Promotore di giustizia della Curia) per tutte quante le cause di questo genere; difensore dell’accusato e notaio (sono nominati) altrettante volte nei singoli casi. Per ultimo non è proibito che l’accusato proponga un difensore benvisto da lui (Can. 1655), che tuttavia sia sacerdote e che deve essere approvato dall’Ordinario.

8. Ogniqualvolta (cosa che è detta negli articoli che lo riguardano) viene richiesto il suo intervento, senza che il promotore di giustizia sia citato, a meno che, anche se non citato non sia in realtà presente, gli atti dovranno essere considerati non validi; se invece, legalmente citato non sarà presente in alcuni atti, gli atti saranno certamente validi, ma in seguito dovranno essere sottoposti al suo esame affinché possa, sia a voce sia per scritto, osservare e proporre tutte quelle cose che abbia giudicato necessarie e opportune (Can. 1587).

9. Al contrario è necessario che il notaio sia presente assolutamente in tutti gli atti, sotto pena di nullità e che li scriva di propria mano o almeno li sottoscriva (Can. 1585 §1). Per la speciale natura di questi processi tuttavia è lecito all’Ordinario dispensare, per cause ragionevoli, dall’intervento del notaio nell’accogliere, come verrà annotato a suo tempo, le denunce e anche nel trattare quelle che definiscono “diligenze” (= accurate investigazioni) e nell’esaminare i testimoni introdotti.

10. Non siano adoperati come aiutanti dei minorenni, se non quelli assolutamente necessari; e questi si scelgano, per quanto si potrà fare, dall’ordine sacerdotale; sempre però siano di provata fedeltà e superiori ad ogni obiezione. Si deve tuttavia osservare che, quando lo richieda la necessità, possono essere nominati per ricoprire alcuni incarichi anche non sottoposti che vivono in territorio lontano o l’Ordinario di quel territorio (Can. 1570, §2): fatte salve sempre le cautele di cui sopra e il Can. 1613.

11. Infatti quello che nel trattare queste cause deve essere curato e osservato in misura più grande è che le medesime si svolgano segretissimamente e che, dopo che siano state determinate e ormai affidate ad esecuzione siano vincolate da un perpetuo silenzio (Instr. del Santo Uffizio, 20 febbraio 1867, n.14); tutti anche presi singolarmente, in qualsiasi modo appartenenti al tribunale, o ammessi a causa del loro incarico alla conoscenza degli avvenimenti sono tenuti a conservare inviolabilmente il segreto strettissimo, che è comunemente definito segreto del Santo Uffizio, sotto pena di incorrere nella scomunica latae sententiae, immediatamente e senza altra dichiarazione, e riservata alla sola persona del Sommo Pontefice, ad esclusione della Sacra Penitenziaria. Gli Ordinari sono vincolati da questa legge ipso iure o dall’importanza del proprio incarico; gli altri aiutanti ex iuramento che sempre debbono prestare prima di cominciare il proprio compito; e sono vincolati anche coloro che sono delegati, interpellati informati in contumacia, ex praecepto nelle lettere di delega, di citazione, di istruzione imponendolo loro con l’espressa menzione del segreto del Santo uffizio.

12. Il premesso giuramento, la formula del quale si trova in Appendice di questa Disposizione (form. A), deve essere prestato (da quelli naturalmente che lo prestano abitualmente, una volta per sempre; da quelli invece che sono assegnati soltanto per un qualche determinato incarico o causa, ogni volta) davanti all’Ordinario o al suo Delegato sopra i Santi Vangeli di Dio (anche dai sacerdoti) e non altrimenti, aggiungendo la promessa di adempiere fedelmente l’incarico, promessa alla quale non si estende la scomunica di cui sopra. Bisogna fare attenzione, da parte di coloro che presiedono queste cause, che nessuno anche fra gli aiutanti sia ammesso alla conoscenza dei fatti, se non nella misura in cui la parte o il compito che egli deve ricoprire lo richieda necessariamente.

13. Debbono prestare sempre il giuramento di conservare il segreto anche gli accusatori, sia i denuncianti che i testimoni; essi però, non sono sottoposti a nessuna censura, a meno che per caso non ne sia stata inflitta loro qualcuna durante l’accusa, la deposizione o l’escussione. L’accusato sia però ammonito pesantemente a mantenere anche lui il segreto con tutti tranne che con il suo difensore, sotto pena di sospensione immediata a divinis in caso di trasgressione.

14. Per quanto attiene la redazione, la lingua, la conferma, la custodia e la eventuale nullità degli atti, si deve osservare quanto è prescritto nei Canoni 1642-43, 379-80-81-82 rispettivamente.


TITOLO PRIMO
RIGUARDO ALLA PRIMA NOTIZIA DEL DELITTO

15. Poiché il delitto di molestie si suole compiere lontano da testimoni, perché non rimanesse nascosto e impunito con inestimabile danno delle anime, è stato necessario costringere il penitente davvero molestato, unico consapevole di quel fatto, a rivelarlo attraverso una denuncia imposta da una legge stabilita. Dunque:

16. «A norma delle Costituzioni Apostoliche e particolarmente della Costituzione di Benedetto XIV Sacramentum Poenitentiae 1 giugno 1741, il penitente deve denunciare entro un mese il sacerdote colpevole del delitto di molestie in confessione, al Vescovo del luogo o alla Sacra Congregazione del Santo Uffizio; e il confessore deve, essendo gravemente impegnata la sua coscienza, ammonire il penitente riguardo a questa responsabilità» (Can. 904).

17. Del resto, secondo il proposito Can. 1935, chiunque fra i fedeli può denunciare il delitto di molestie di cui abbia avuto sicura notizia; anzi l’obbligo della denuncia preme ogniqualvolta che qualcuno sia spinto a ciò dalla stessa legge naturale a causa del pericolo della fede o della religione o a causa di qualche altro male pubblico imminente.

18.” Il fedele invero che abbia tralasciato scientemente di denunciare colui dal quale sia stato molestato contro quanto prescritto dal (citato sopra) Canone 904, incorre in scomunica latae sententiae che non è risparmiata a nessuno, e non deve essere assolto se non dopo che abbia soddisfatto l’obbligo o abbia promesso che lo soddisferà più tardi” (Can. 2368, §2).

19. L’onere della denuncia è personale e deve essere adempiuto regolarmente dalla stessa persona molestata. Ma se venga impedito da gravissime difficoltà che di persona possa portare a termine ciò, allora o per lettera o attraverso un’altra persona benvista da lui, raggiunga il suo Vescovo o la Congregazione del Santo Uffizio o la S. Penitenziaria, dopo aver esposto tutte le circostanze (Instr. Sancti Officii, 20 febbraio 1867, n.7).

20. Le denunce anonime generalmente devono essere trascurate; potranno tuttavia avere un valore di sostegno o offrire occasione ad ulteriori investigazioni, se le specifiche cose aggiunte rendano credibile l’accusa (cfr. Can 1942, §2).

21. L’obbligo di denuncia da parte del penitente molestato non viene meno per la spontanea confessione eventualmente fatta dal confessore autore delle molestie, né per il suo trasferimento, promozione, condanna, presunta correzione e altri motivi di questo genere; viene meno tuttavia per la sua morte.

22. Ogniqualvolta accada che un confessore o un altro ecclesiastico sia deputato a ricevere una qualche denuncia, insieme con l’istruzione riguardante l’acquisizione degli atti in base alla procedura giudiziaria, sia invitato espressamente a trasmettere subito tutto all’ Ordinario o alla persona che lo ha incaricato, senza lasciarne assolutamente in suo possesso modello o traccia.

23. Nel ricevere le denunce si osserverà regolarmente questo ordine: Per prima cosa sia sottoposto al denunciante il giuramento di dire la verità toccando i Ss. Vangeli; sia poi interrogato secondo la formula (Form. E), con l’avvertenza che racconti tutti i fatti e le singole cose riguardanti le molestie che ha subito brevemente e convenientemente, ma chiaramente e distintamente; in nessun modo tuttavia si chieda se sia stato consenziente alla molestia, anzi sia ammonito che non è tenuto a manifestare il consenso eventualmente offerto; le risposte, non solo per quanto attiene alla sostanza, ma anche alle parole del testimone (Can. 1778) siano senza indugio riportate per scritto; sia riletto allora al denunciante il documento con voce chiara e distinta, dopo avergli dato la facoltà di aggiungere, sopprimere, correggere e fare variazioni; si esiga infine la sua firma o, se non sappia o non possa scrivere, il segno di croce; e mentre egli è ancora presente venga aggiunta la firma sottoscritta di colui che riceve (la denuncia) e, se è presente, quella del notaio; e prima che sia congedato, si riferisca, come sopra, il giuramento di conservare il segreto, minacciando, se fosse necessario, la scomunica riservata all’Ordinario del luogo o alla S. Sede (cf. n. 13).

24. E se talvolta, impedendolo gravi ragion sempre da riprodurre negli atti, questa prassi ordinaria non possa essere mantenuta, si permetta che venga omessa una o l’altra delle formule prescritte, fatta salva tuttavia la sostanza. Così se non possa essere prestato il giuramento sopra i SS. Vangeli, potrà essere prestato in altro modo e anche solamente con le parole; se il documento della denuncia non possa essere redatto per scritto senza indugio, potrà essere registrato in tempo e luogo più opportuno da chi lo riceve o da chi fa la denuncia e in seguito essere confermato e firmato dallo stesso denunciante con un giuramento, in presenza di chi lo riceve; se non si possa rileggere il documento stesso al denunciante, si potrà darglielo da leggere.

25. Nei casi più difficili inoltre è permesso anche che la denuncia (previa concessione del denunciante, affinché non sembri che sia violato il sigillo sacramentale) sia ricevuta dal confessore nella stessa sede confessionale. In questo caso, se non possa essere fatto immediatamente, sia scritta a casa dal confessore o dallo stesso denunciante, e in un altro giorno conveniente ad ambedue nella sede confessionale, sia riletta o data da rileggere e sia confermata dal denunciante con un giuramento e la propria firma o il segno di croce (se sia impossibile del tutto apporre queste). Di tutte queste cose tuttavia, come è già stato detto nel paragrafo superiore, deve sempre essere fatta espressa menzione negli atti.

26. Infine, se si imponesse una causa veramente grave e straordinaria, la denuncia potrà essere fatta anche attraverso una relazione scritta dal denunciante, purché tuttavia sia confermata e sottoscritta in seguito con un giuramento davanti all’Ordinario del luogo o al suo delegato e al notaio, se è presente; cosa che deve essere detta ugualmente di una denuncia rozza, per lettera, per esempio, o fatta a voce al di fuori del processo.

27. Una volta ricevuta una denuncia qualsiasi, l’Ordinario è tenuto a sub gravi a comunicarla quanto prima al promotore di giustizia che per scritto deve dichiarare se nel caso specifico ci si trovi davanti a uno specifico delitto di molestia nel senso n.1 oppure no e, se l’Ordinario dissentisse da lui, deve presentarla al Santo Uffizio.

28. Se al contrario l’Ordinario e il promotore di giustizia concordassero, o comunque il promotore di giustizia non facesse ricorso al Santo Uffizio, allora l’Ordinario, se avrà decretato che non è presente lo specifico delitto di molestia, ordini di riporre gli atti nell’archivio segreto o si serva del suo diritto e incarico in rapporto alla natura e alla gravità delle denunce; se però abbia deliberato che è presente (il delitto di molestia), proceda immediatamente all’indagine (cf. Can. 1942, §1).


TITOLO SECONDO
IL PROCESSO

Cap. I - L’Inchiesta

29. Avuta attraverso le denunce la prima notizia del reato di molestia, si deve compiere una speciale inchiesta “per constatare se e su quale fondamento si appoggi l’imputazione” (Can. 1939, §1); e ciò tanto più per il fatto che un delitto di questo tipo, come è stato già detto sopra, è solito essere commesso di nascosto, e testimonianze dirette di questo si possono avere solo raramente, tranne dalla parte lesa.

Aperta l’inchiesta, se il sacerdote denunciato è un Religioso, l’Ordinario potrà impedire che sia trasferito altrove prima della conclusione del processo.

Tre sono i punti ai quali soprattutto tale inchiesta deve tendere, cioè:

a) ai precedenti del denunciato;

b) alla consistenza della denuncia;

c) ad altre persone molestate dallo stesso confessore o comunque al corrente del crimine se alcune, come avviene non di rado, sono citate dal denunciante.

30. Per quanto attiene il primo punto (a), l’Ordinario non appena abbia ricevuto qualche denuncia riguardante il delitto di molestia, se il denunciato, sia che appartenga al clero secolare sia a quello regolare (cf. n.4), abbia la residenza nel suo territorio, indaghi se esistano in archivio altre denunce contro di lui anche riguardanti materia diversa e le riprenda; e se eventualmente avrà soggiornato in altri territori, chieda ai rispettivi Ordinari e, se un religioso, ai superiori regolari, se abbiano qualcosa che lo possa incriminare in qualche modo. E se riceverà questi documenti, li riporti negli atti da accumulare insieme, sia per presentarli insieme al processo, in ragione dell’estensione o della connessione delle cause (cf. Can. 1567), sia per stabilire e valutare la circostanza di recidività, nel senso del Can. 2208.

31. Se invece si tratti della denuncia di qualcuno che non abbia la residenza nel suo territorio, l’Ordinario trasmetta gli atti all’Ordinario dello stesso denunciato o, non essendo conosciuto costui, alla Suprema Congregazione del Santo Uffizio, fatto salvo il diritto di negare al sacerdote denunciato la facoltà di esercitare le mansioni ecclesiastiche nella propria diocesi o quella eventualmente concessa di revocarla, qualora si sia avvicinato o sia tornato ad essa.

32. Per quanto riguarda il secondo punto (b), il peso di ciascuna denuncia, le caratteristiche e le circostanze devono essere valutate accuratamente perché sia chiaro se e quale fede le stesse meritino. Né è sufficiente che ciò sia noto in qualche modo, ma che lo sia in forma certa e giudiziaria; cosa che è solita essere indicata nel foro del Santo Uffizio con la formula “diligentias peragere”.

33. A questo fine non appena l’Ordinario avrà ricevuto una qualche denuncia riguardante il crimine di molestia, o attraverso lui stesso o attraverso il sacerdote specialmente delegato convocherà due testimoni (ben inteso separatamente e con la circospezione conveniente), per quanto si potrà fare, provenienti dal ceto ecclesiastico, ma comunque superiori ad ogni obiezione, che conoscano bene sia il denunciato che il denunciante e li interrogherà, in presenza del notaio (cf, n. 9) che riporti per scritto le domanda e le risposte, con il vincolo della santità del giuramento sul dire la verità sul mantenere il segreto con la minaccia, qualora sembri necessario, di scomunica riservata all’Ordinario del luogo o alla S. Sede (cf. n. 13), sulla vita le abitudini e la pubblica fama sia del denunciato sia del denunciante; se giudichino il denunciante degno di fede; o al contrario capace di mentire, calunniare, spergiurare; e se conoscano una qualche causa di odio, rivalità o inimicizie tra lo stesso denunciante e denunciato.

34. Se le denunce fossero numerose, nulla impedisce che gli stessi testimoni siano adoperati a favore di tutti o all’opposto a favore dei singoli, sempre tuttavia con l’avvertenza che ciascun denunciato e denunciante abbia un testimone.

35. Se non possono essere trovati due testimoni che conoscano ciascuno sia dei denunciati che dei denuncianti o se non possano senza pericolo di scandalo o danno della reputazione essere interrogati su questo e su queste cose, si applichino, come dicono, le diligentiae dimidiatae (Form. H), interrogati evidentemente due testi riguardanti il solo denunciato e altri due riguardanti i soli denuncianti. Tuttavia in questo caso si dovrà prudentemente indagare in altro luogo se i denuncianti abbiano motivi di odio, inimicizia o altro sentimento umano contro il denunciato.

36. Se non possono essere applicate neppure le diligentiae dimidiatae (investigazioni dimezzate?) o perché non si possono trovare testimoni adatti o perché si ha ragione di temere uno scandalo o un danno della reputazione, si potrà supplire, con cautela e prudenza tuttavia, per mezzo di informazioni extragiudiziali riguardanti il denunciato e il denunciante e le loro mutue personali relazioni che devono essere verbalizzate; o anche attraverso prove sussidiarie che rafforzino o infirmino l’accusa.

37. Per quanto riguarda infine il terzo punto (c), se nelle denunce, cosa che avviene non di rado, vengano eventualmente introdotte persone ugualmente molestate o che possano in qualche modo portare testimonianza di questo delitto, anche tutte queste devono essere esaminate e particolarmente con procedura giudiziaria (Form. 1): e per prima cosa devono essere interrogate in senso generale (per generalia), poi per gradi, finché così suggerisca la situazione, arrivando ai fatti particolari (ad particularia), se e come anche esse siano state molestate, o se siano a conoscenza o abbiano sentito dire che altre persone siano state molestate (Instr. del Santo Uffizio, 20 febbraio 1867, n. 9).

38. Bisogna tuttavia usare grandissima circospezione nell’invitare queste persone; infatti non sempre sarà opportuno che esse si radunino nel luogo pubblico della cancelleria, in particolare se debbano essere sottoposte ad esame o ragazze o ammogliate o addette alla servitù; allora sarà più saggio convocarle, in base alla prudente valutazione dell’Ordinario o del giudice, con prudenza o nelle cappelle o altrove (per esempio in sede confessionale) per esaminarle. Se quelle che devono essere esaminate si trovassero o nei monasteri o negli ospedali o nelle pie case delle fanciulle, allora si dovranno chiamare con grande attenzione e in diversi giorni secondo le particolari circostanze (Istr. del Santo Uffizio, 20 luglio 1890).

39. Le cose dette più sopra sul modo di ricevere le denunce, si applichino anche, cambiate le cose da cambiare, all’esame delle persone che sono state indotte.

40. Gli esami di queste persone che hanno ottenuto risultato positivo, dai quali cioè il sacerdote inquisito o un altro risulterà responsabile, si considerino vere e propriamente dette denunce, e su di esse vengano portate a termine tutte le procedure che sono prescritte sulla specificazione del crimine, il recupero dei precedenti e le accurate indagini .

41. Completate tutte queste pratiche, l’Ordinario si metta in comunicazione con il promotore di giustizia affinché veda se tutto si sia svolto secondo le regole oppure no. E se egli al contrario giudicasse che non c’è nulla da obiettare, dichiari chiuso il processo inquisitorio.


Cap. II - Le Ordinazioni canoniche e l’ammonizione del colpevole

42. Chiuso il processo inquisitorio, l’Ordinario, sentito naturalmente il promotore di giustizia, proceda come segue:

a) se constatasse che la denuncia è veramente destituita di ogni fondamento, ordini che ciò sia dichiarato negli atti, e vengano distrutti tutti i documenti dell’accusa;

b) se gli indizi di reato venissero ritenuti vaghi e indeterminati o incerti, ordini che vengano riposti nell’archivio, da riprendere se in seguito si aggiungerà qualche altra cosa;

c) se però gli indizi di reato venissero ritenuti abbastanza gravi ma non ancora sufficienti ad istituire un’azione accusatoria, come in particolare se si abbiano una sola o solo due denunce con regolari investigazioni, ma non rafforzate da alcuna prova sussidiaria (cf. n.36), o anche più denunce, ma con investigazioni incerte o incomplete, si ordini che l’accusato secondo i diversi casi (Form. M) la prima o la seconda volta, sia ammonito paternamente, severamente o molto severamente a norma Can. 2307, dopo avere aggiunto, quando fosse necessario, una esplicita minaccia di processo, sia gravato da qualche altra nuova accusa; e gli atti, come sopra, siano conservati nell’archivio e nel frattempo si vigili sui costumi degli imputati (Can. 1946, §2, n. 2);

d) se infine siano a disposizione argomenti sicuri o almeno probabili per istituire l’accusa, si ordini che l’accusato sia citato e sia assoggettato alle disposizioni.

43. L’ammonizione di cui al numero precedente (c) deve sempre essere fatta segretamente; tuttavia potrà essere fatta anche per lettera o per interposta persona, ma in qualsiasi caso deve risultare prova di essa da qualche documento che deve essere conservato nell’archivio segreto della Curia (cf. Can. 2309, §§ 1 e 5), registrando come il denunciato la abbia accolta.

44. Se dopo la prima ammonizione si aggiungeranno contro lo stesso imputato altre accuse di molestie precedenti la stessa ammonizione, l’Ordinario veda se, secondo il suo parere e la sua coscienza, quella ammonizione si debba ritenere sufficiente o se piuttosto si debba procedere ad una nuova ammonizione o anche ad ulteriori provvedimenti (Ibidem, §6).

45. Contro disposizioni canoniche di questo tipo esiste per l’imputato il diritto di appellarsi al promotore di giustizia e di fare ricorso alla Santa Congregazione del Santo Uffizio entro dieci giorni dalla loro emanazione o notifica. In questo caso si dovranno trasmettere alla medesima S. Congregazione gli atti della causa secondo quanto prescritto nel Can. 1890.

46. Tuttavia le stesse, anche se arrivate a compimento, non estinguono l’azione penale: e perciò, aggiungendosi eventualmente in seguito altre accuse, bisognerà procedere anche riguardo a quei fatti che hanno causato le dette disposizioni canoniche.


Cap. III - Le Disposizioni per gli Accusati

47. Una volta che si abbiano a disposizione argomenti sufficienti per stabilire l’accusa, come è stato detto sopra al n. 42 (d), l’Ordinario, sentito il promotore di giustizia e salvati tutti i provvedimenti, per quanto il tipo particolare di queste cause lo permette, che sono stabiliti nel libro IV, tit. VI, Cap. II del Codice, porti il decreto (Form. O) riguardante l’accusato davanti a sé o al giudice da lui delegato (cf. n.5), citando per i reati a lui contestati quanto si dice comunemente nel foro del S. Uffizio “Reum constitutis subiicere”; curerà solamente che quel provvedimento sia portato a conoscenza dello stesso Accusato secondo la legge prescritta.

48. Il giudice paternamente e dolcemente esorti alla confessione, dopo averlo citato, l’Accusato che compare in giudizio, e se questo accondiscende a queste esortazioni, il giudice, fatto venire il notaio o anche, se lo riterrà più opportuno (cf. n.9), senza l’intervento di questo, riceva la confessione.

49. In questo caso, se la confessione confrontata con gli atti sostanzialmente venga trovata completa, avuto prima il voto del promotore di giustizia da registrare nel verbale, la causa, omessi gli altri atti (vedi cap. IV), potrà essere conclusa con una sentenza definitiva, concessa tuttavia all’Accusato l’opzione di accettare la sentenza stessa o di chiedere lo svolgimento di un regolare processo.

50. Se invece, al contrario, l’Accusato negherà il reato, o farà una confessione sostanzialmente incompleta, o rifiuterà sommariamente, anche in considerazione della confessione, la sentenza emessa, il giudice, in presenza del notaio, gli legga il decreto, di cui al precedente n. 47, e dichiari aperto il procedimento.

51. Aperto il procedimento, il giudice può secondo la disposizione del Canone 1956, dopo avere ascoltato il promotore di giustizia, sospendere completamente dall’esercizio del sacro ministero l’Accusato convenuto o soltanto dall’ascolto delle confessioni sacramentali dei fedeli fino alla conclusione del giudizio. Se però stabilisse eventualmente che egli può incutere timore nei testimoni o subornarli o in altro modo impedire il corso della giustizia, può anche, sentito ugualmente il promotore di giustizia, ordinare che si ritiri in un luogo determinato e lì rimanga sotto una particolare vigilanza (Can. 1957). E contro ambedue i decreti di questo tipo non è concesso ricorso legale (Can. 1958).

52. Dopo questi preliminari, si proceda all’esame dell’Accusato secondo la formula P, con la precauzione più attenta da parte del giudice che non siano svelate le persone degli accusati e soprattutto degli accusanti, e che da parte dell’Accusato non sia violato il sigillo sacramentale in qualunque modo. Anzi se all’Accusato nella foga del discorso sfuggirà qualcosa che sembri sapere di violazione sia diretta che indiretta del medesimo sigillo, il giudice non permetta che ciò sia verbalizzato dal notaio; e se eventualmente è stato sconsideratamente verbalizzato, ordini, non appena se ne accorgerà, di cancellalo completamente. Ma il giudice ricorderà senza dubbio che non è mai lecito obbligare l’Accusato al giuramento di dire la verità (cf. Can. 1744).

53. Completato in ogni parte l’esame dell’accusato e visti e approvati gli atti dal promotore di giustizia, il giudice emetta la sentenza conclusiva nella causa (Can. 1860) e, se per caso sia giudice delegato trasmetta tutti gli atti all’Ordinario.

54. Se eventualmente l’Accusato è contumace, o per motivi veramente gravi le disposizioni non possono essere eseguite nella Curia diocesana, l’Ordinario, riservatosi il diritto di sospendere a divinis l’Accusato, trasferisca tutta la causa al S. Uffizio.


Cap. IV - La discussione della causa, la sentenza definitiva e l’appello

55. L’Ordinario, ricevuti gli atti, a meno che non voglia lui stesso procedere alla sentenza definitiva, sceglierà, per quanto potrà essere fatto, un giudice diverso (cf. n. 5) da quello che ha portato a termine l’indagine o le disposizioni (cf. Can. 1941, §3). Il giudice poi, chiunque egli sia o l’Ordinario o il suo delegato, metta a disposizione del difensore, a suo prudente arbitrio, un periodo di tempo congruo per preparare la difesa e per presentarla in duplice esemplare, uno allo stesso giudice l’altro al promotore di giustizia (cf. Can. 1862-63-64). Il promotore di giustizia, in un tempo che deve essere ugualmente predefinito dal giudice, presenti in forma scritta quella che ora chiamano requisitoria (form. Q) .

56. Infine, frapposto un congruo intervallo di tempo (Can. 1870), in base alla coscienza che si è formata dagli atti e dalle prove (Can. 1869), pronuncerà la sentenza, di condanna definitiva, se certo del reato; o assolutoria, se certo dell’innocenza; o di condono se dubbioso per mancanza di prove.

57. La sentenza scritta secondo le formule annesse a questa Istruzione, munita di decreto di esecuzione (Can. 1918) e in precedenza notificata al promotore di giustizia, dovrà essere solennemente resa nota all’Accusato citato per questo dal giudice nella sessione del tribunale in presenza del notaio. Se però l’Accusato opponendosi alla citazione non comparisse, l’intimazione della sentenza avvenga tramite lettera, raccomandata con ricevuta di ritorno.

58. Sia l’Accusato, se si senta oppresso da questa, sia il promotore di giustizia hanno il diritto di appellarsi contro questa sentenza presso il Supremo Tribunale del Santo Uffizio, secondo quanto prescritto nel Can. 1879 e sgg. entro dieci giorni dalla solenne notifica della stessa; e l’appello di questo tipo è in sospeso, pur rimanendo stabile, se è stata emessa (cf. n. 51) la sospensione dell’Accusato dall’ascolto delle confessioni sacramentali o dall’esercizio del sacro ministero.

59. Una volta sia stato interposto appello con successo, il giudice deve trasmettere un esemplare autentico di tutti gli atti della causa o gli stessi prototipi al Santo Uffizio, quanto più velocemente possibile, dopo avere aggiunto le informazioni che giudicherà necessarie e opportune (Can. 1890).

60. Per quanto attiene al ricorso di nullità, se si presentasse il caso, si osservino esattamente le disposizioni dei Canoni 1892-97; per quanto riguarda l’esecuzione della sentenza, si osservino, in rapporto alla natura di queste cause, le disposizioni dei Canoni 1920-24.


TITOLO TERZO
LE PENE

61. “Colui che abbia commesso … il reato di molestie, sia sospeso dalla celebrazione della Messa e dall’ascolto delle confessioni sacramentali o anche, in ragione della gravità dei reati, sia dichiarato incapace a ricevere le stesse, sia privato di tutti i benefici, le dignità, della voce attiva e passiva, e sia dichiarato inabile a tutte queste cose, e nei casi più gravi sia assoggettato anche alla degradazione”. Così nel Can. 2368 §1 del Codice.

62. Per una giusta applicazione operativa nel decretare le pene in giusta proporzione secondo il Can. 2218, §1, riguardo al reato di molestia, si abbiano davanti agli occhi nello stimare la gravità del reato queste cose, cioè: il numero delle persone molestate e la loro condizione, come se siano minorenni o in particolare consacrate a Dio con voti religiosi; la forma di molestia, soprattutto se unita ad una falsa dottrina o ad un falso misticismo; l’immoralità non solo formale ma anche materiale degli atti commessi e particolarmente la connessione della molestia con altri reati; la continuità della pratica disonesta; la ripetizione del reato; la recidività dopo l’ammonizione; la confermata malizia del molestatore.

63. Si arrivi alla pena massima della degradazione, che per gli accusati Religiosi potrà essere mutata alla riduzione allo stato di converso soltanto quando, esaminati tutti i punti, appaia evidente che il colpevole, immerso nell’abisso della malizia, nell’abuso del sacro ministero, con grande scandalo dei fedeli e rovina delle anime, sia arrivato a tale avventatezza e consuetudine che, parlando da uomini, non rifulga più addirittura quasi nessuna speranza di una sua correzione.

64. Comminate convenientemente le pene, per ottenere un effetto di queste più completo e più sicuro, si dovranno aggiungere nelle cause di questo tipo queste sanzioni supplementari, cioè:

a) A tutti gli accusati riconosciuti colpevoli si aggiungano delle congrue, a misura della colpa, e salutari penitenze, non in sostituzione delle pene propriamente dette nel senso del Canone 2312, §1, ma per loro complemento, e tra queste (cf. Can. 2313) soprattutto gli esercizi spirituali, che devono essere fatti per alcuni giorni in qualche casa religiosa con sospensione dalla celebrazione della Messa, per tutta la loro durata.

b) Ai rei convinti e confessi si imponga inoltre l’abiura, secondo i diversi casi, dal sospetto leggero o forte di eresia, nel quale incorrono i sacerdoti che compiono molestie, o anche dalla eresia formale, se eventualmente il reato di molestia sia unito ad una falsa dottrina.

c) Coloro che sono in pericolo di ricadere, e perciò tanto più i recidivi siano sottomessi a una particolare sorveglianza (Can. 2311).

d) Ogniqualvolta, a prudente giudizio dell’Ordinario, sembri necessario, per correzione del colpevole, per rimuovere la più vicina occasione, o per prevenire lo scandalo, si aggiunga la proibizione o la prescrizione di fermarsi in un luogo fissato. (Can. 2302).

e) Infine, poiché, per quanto ciò sia delineato nella Cost. Sacramentum Poenitentiae, non si può avere mai nessuna regola nel foro esterno, dunque di sigillo sacramentale, alla fine della sentenza di condanna si dia al Colpevole il consiglio che, se per caso avesse assolto il complice, provveda alla sua coscienza attraverso il ricorso alla Sacra Penitenziaria.

65. A norma Can. 2236, §3 tutte queste pene, una volta che siano state applicate per obbligo dal giudice, non possono essere condonate se non dalla Santa Sede attraverso la Sacra Congregazione del Santo Uffizio.


TITOLO QUARTO
LE COMUNICAZIONI UFFICIALI

66. Qualsiasi Ordinario, non appena abbia ricevuto una qualche denuncia riguardante il reato di molestia, non tralasci mai di notificarla al Santo Uffizio. E se per caso si tratti di un sacerdote sia secolare che Religioso, che abbia la residenza in un altro territorio, trasmetta contemporaneamente (come già sopra n. 31 è stato detto) all’Ordinario del luogo, dove il denunciato in atto risiede, o, non essendo conosciuto questo, al S. Uffizio, copia autentica della denuncia, con le investigazioni, nel miglior modo si sia potuto farle, e le opportune dichiarazioni e informazioni.

67. Qualsiasi Ordinario che abbia proceduto secondo legge contro qualche sacerdote molestatore, non tralasci di informare sull’esito della causa la Sacra Congregazione del Santo Uffizio e, se la cosa riguardi un religioso, il suo Superiore Generale.

68. Se un sacerdote condannato per il reato di molestia o anche solamente ammonito trasferisse la sua residenza in un altro territorio, l’Ordinario del luogo da cui proviene informi al più presto l’Ordinario del luogo dove si trasferisce dei suoi precedenti e del suo stato giuridico.

69. In una causa di molestia, se un sacerdote sospeso dall’ascolto delle confessioni sacramentali, ma non dalla sacra predicazione si recasse in un altro territorio per predicare, l’Ordinario di questo territorio sia avvertito dal Prelato di costui, sia secolare che religioso, che non può essere adibito per ricevere le confessioni sacramentali.

70. Tutte queste comunicazioni ufficiali dovranno sempre essere fatte sotto vincolo del segreto del Santo Uffizio; e poiché partecipano soprattutto al comune bene della Chiesa, il precetto di compierle obbliga sub gravi.


TITOLO QUINTO
IL DELITTO PEGGIORE

71. Con il nome di “peggiore dei delitti” si intende qui qualsiasi atto osceno esterno, gravemente peccaminoso, compiuto o tentato in qualsiasi modo da un membro del clero con una persona del proprio sesso.

72. Quanto è stato stabilito fin qui sul reato di molestia, valga anche, cambiate necessariamente le cose che devono essere cambiate in rapporto alla natura dell’accaduto, per il peggiore delitto, se per caso avvenga che un membro del clero sia accusato di ciò (che Dio non voglia), essendo stato imposto l’obbligo di denuncia secondo la legge imposta della Chiesa, a meno che la cosa non vada congiunta anche con il delitto di molestia durante la confessione sacramentale. Nelle pene da decretare contro colpevoli di questa fatta, oltre alle cose che si trovano dette sopra, si tenga davanti agli occhi il Canone 2359, §2.

73. Al peggiore delitto va equiparato, per gli effetti penali, qualsiasi azione oscena esterna, gravemente peccaminosa, compiuta da un membro del clero in qualsiasi modo, o tentata, con ragazzi di ciascun sesso o con animali bruti (s). bestialitas.

74. Contro membri del clero accusati di questi reati, se siano Religiosi exempti e se non coincida insieme il reato di molestie, possono procedere, secondo i ss. Canoni e le proprie Costituzioni anche i Superiori Regolari, in maniera sia amministrativa che giudiziaria; essi tuttavia devono sempre comunicare la sentenza emessa e la decisione amministrativa nei casi più gravi alla Suprema Congregazione del Santo Uffizio. I Superiori Religiosi non exempti però possono procedere soltanto con misura amministrativa. In caso di espulsione dell’accusato dalla religione, l’espulsione sarà priva di effetto fino a che non sarà approvata dal S. Uffizio.


DALL’UDIENZA DEL SANTISSIMO DEL 16 MARZO 1962

Il nostro Sommo Signore Giovanni Papa XXIII nell’udienza concessa all’Eminentissimo Cardinale Segretario del S. Uffizio il giorno 16 marzo 1962, si è degnato di approvare e confermare questa Disposizione, affidando a quelli ai quali spetta che la mantengano e la facciano mantenere.

Roma, 16 marzo 1962, ex Aed. S. C.

Loco X Sigilli

A. Card. Ottaviani



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martedì 22 aprile 2014

LA SINDONE NEL SEPOLCRO VUOTO


L’uso di seppellire i morti dentro un telo di lino era comune nel Medio Oriente e nella società in cui visse Gesù. Le fonti che ci permettono di conoscere gli usi ebraici durante il tempo della dominazione romana, specie i due trattati chiamati Mishna e Tosefta, descrivono vari tipi di lenzuola funebri. Anche il rito di sepoltura di un condannato a morte, come lo fu Gesù, aveva le sue particolarità: il corpo del condannato doveva essere avvolto nel lenzuolo funebre nudo, come un atto di oltraggio per punire chi non aveva rispettato la Legge. Nel caso di Gesù Nazareno, i lini della sepoltura avevano rivestito un ruolo molto più importante e anormale del solito: infatti secondo i discepoli erano tutto ciò che restava di quel corpo, quando la madre di Gesù con altre donne si erano recate presso la tomba per completare il rito della sepoltura. Dei quattro vangeli, quello di Giovanni è il più ricco di dettagli materiali sullo spettacolo apparso a chi va a vedere quella tomba misteriosamente vuota: il motivo di questa speciale attenzione ai lini funerari di Gesù per ora non si conosce, ma deriva senz’altro da una ragione precisa che sarebbe interessante capire. Secondo il quarto vangelo:
Partì dunque Pietro e anche l’altro discepolo e si avviarono verso il sepolcro. Correvano ambedue insieme, ma l’altro discepolo precedette Pietro nella corsa e arrivò primo al sepolcro. Chinatosi, vide le bende che giacevano distese; tuttavia non entrò. Arrivò poi anche Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro: vide le bende che giacevano distese e il sudario che era sopra il capo; esso non stava assieme alle bende, ma a parte, ripiegato in un angolo. Allora entrò anche l’altro discepolo che era arrivato per primo al sepolcro, vide e credette. Non avevano infatti ancora capito la Scrittura: che egli doveva resuscitare dai morti. I discepoli poi ritornarono a casa.
Il vangelo di Giovanni usa una parola generica e al plurale (othònia), per indicare i lini funebri, mentre gli altri tre vangeli hanno il termine anch’esso generico sindòn, che indicava un lino pregiato di pezzatura variabile; ma la cosa più notevole del quarto vangelo è il modo in cui questi lini funebri furono ritrovati, cioè ancora avvolti come sopra il corpo però afflosciati: il verbo greco che lui usa, entulìsso, indicava nella lingua del tempo anche un viluppo di coperte rimasto svuotato sul letto dopo che l’occupante si era alzato. Nessuno dei vangeli parla di immagini rimaste impresse sui lini sepolcrali di Gesù, e non ci sono prove che il misterioso telo di Anablatha fosse proprio la sindone oggi custodita a Torino; nondimento, questa testimonianza è ugualmente interessante: infatti l’oggetto sembrerebbe proprio una copia della sindone, o almeno una ricostruzione di come si supponeva essere il telo funebre di Gesù ritrovato dalle donne dentro il sepolcro vuoto. Una ricostruzione che ne portava sopra l’immagine. Più tardi il vescovo Arculfo, sceso pellegrino in Terrasanta nell’anno 670, vide a Gerusalemme una ricostruzione del sudario di Cristo che era stata decorata a ricamo. Della sindone di Gesù del resto si parlava anche in vari vangeli apocrifi, scritti che non avevano un valore sacro ma venivano comunque apprezzati dai cristiani perchè rappresentavano leggende religiose, dove verità e fantasia si mischiavano insieme un po’ come sarebbe in un romanzo storico. Secondo il testo detto Vangelo degli Ebrei, scritto in Palestina verso l’anno 150, Gesù risorto aveva affidato la sindone a un servo del sommo sacerdote; un altro scritto risalente nel suo nucleo antico al IV secolo, la Vita di santa Nino, indica la prima custode della sindone in Claudia Procula, la moglie di Ponzio Pilato che era rimasta molto toccata dalla morte di Gesù.

Articolo a cura della dott. Barbara Frale

LA SINDONE E GERUSALEMME


Oltre alle fibre di cotone il telo di Torino contiene pure una gran quantità di materiali diversi, tracce di oggetti con cui entrò in contatto nel corso della sua lunga storia: pollini di varie specie vegetali, come già detto, spore di funghi, resti di corpi d’insetti rimasti impigliati nella trama durante l’esposizione all’aperto, cera, frammenti di aloe e mirra, particelle di materie coloranti, fibre di seta rossa e blu proveniente da drappi preziosi che furono usati in passato per avvolgerla, tracce d’inchiostro, di polveri, persino cellule di pelle umana, la pelle strappata via all’uomo crocifisso durante le torture che precedettero la morte. Le tracce di pigmenti trovate sono di ocra, rosso veneziano, vermiglione insieme a proteine un tempo usate come leganti per stemperare e fissare le polveri dei colori; sono presenti sul telo in una quantità minima, dovuta forse al fatto che in passato le copie della sindone dipinte a colori venvano appoggiate sull’originale per consacrarle attraverso il contatto. Nel 1973 uno studio condotto dal criminologo Max Frei con le tecniche in uso presso la squadra scientifica della Polizia svizzera identificò tracce di pollini appartenuti a 58 specie vegetali diverse originarie del Medio Oriente, di cui alcune diffuse a Cipro, nei dintorni del Mar Morto e a Gerusalemme. Il lavoro di Frei fu completato da altri studiosi come Silvano Scannerini, Paul Maloney, Aharon Horowitz, Avinoam Danin e Giulio Fanti, giungendo a una conclusione: il telo è stato esposto a venti che portavano pollini di piante esistenti solo in Medio Oriente, con una maggior probabilità concentrate in un’area che si aggira intorno alla zona di Gerusalemme (per un raggio di 20 miglia). Alcuni di questi sono pollini fossili, ovvero di specie che non esistono più dall’apoca antica. Lo spettro pollinico (cioè l’insieme delle varietà vegetali attestate) coincide con quello dell’ambiente israeliano ma non con quello del Nord Africa; infine, grazie ai pollini si prova che la sindone venne trasportata dalla Palestina attraverso il Negev fino alle alte terre del Libano.

Articolo a cura della dott.ssa Barbara Frale

OSTIA ANTICA ERA PIU' GRANDE DI POMPEI

File:Ostia Theatre.jpg

Gli archeologi Paola Germoni, Angelo Pellegrino entrambi della Soprintendenza speciale ai Beni Archeologici di Roma, Simon Keay della Southampton University e Martin Millett della University of Cambridge hanno scoperto che Ostia era molto più grande di quanto si potesse immaginare e la Roma dell'Impero aveva una capacità mercantile ancora più spiccata. Grazie ad un meticoloso lavoro  iniziato nel 2007 a pochi chilometri da Fiumicino e grazie alla magnetometria sono state scoperte altre strutture presenti nel sottosuolo identificabili con strade, magazzini e mura. Sulle mura sono presenti torri alte 6/8 metri e tra il Tevere ed le mura vi sono edifici molto grandi tra cui uno di dimensioni 84X75. Per la prima volta si capisce che nel I secolo a.C. Ostia non era chiusa dal Tevere ma era divisa in due parti proprio come roma; molta importanza era data all'immagazzinamento delle merci che venivano portate al porto di Ripetta a Roma. 
Gli archeologi sono arrivati a dire che con ogni probabilità il sito archeologico di Ostia era più grande addirittura di Pompei .

venerdì 18 aprile 2014

LA SEPOLTURA DI UN RE

File:Shroud of Turin 001.jpg

La tecnica particolarissima e molto complessa con cui è stata tessuta la sindone corrisponde a queste descrizioni di “lino ritorto ad arte” o “sindone di bisso”, ma esiste il problema che tessuti di questo genere speciale erano usati nel giudaismo antico solo per fabbricare il corredo dei sacerdoti oppure le tende sacre del Velario del Tempio: erano oggetti di pregio riservati ad una casta speciale d’Israele, quella degli uomini consacrati a Dio. Sono tessuti d’eccezione, che in un certo senso possono essere paragonati ai paramenti liturgici usati dai sacerdoti cattolici durante la messa. Secondo la studiosa Maria-Luisa Rigato, si cercò e si volle usare una stoffa di quel genere per dare al Maestro di Nazareth una sepoltura simile a quella di un re, il più possibile al di fuori della norma per quanto permettesse il suo status di condannato a morte. La grande quantità di pollini trovati sulla sindone, di fiori che fioriscono fra marzo e aprile, attesta che questo cadavere venne deposto con onori assolutamente non permessi per i condannati a morte, che secondo la norma dovevano restare per dodici mesi nello spazio infamante di un sepolcreto pubblico prima che i loro resti potessero essere resi ai parenti. Organizzare per Gesù Nazareno una sepoltura regale, consentita del resto dal governatore Pilato che aveva dato il corpo ai seguaci, era una forma di rivendicazione contro i membri del Sinedrio e il clan del sommo sacerdote che l’avevano fatto crocifiggere. In effetti secondo i vangeli fra i discepoli di Gesù c’erano persone di altissimo livello sociale, che avevano sia le risorse economiche, sia il potere concreto per procurarsi un tessuto di quel tipo: Nicodemo apparteneva alla potentissima cerchia dei farisei, i colti dottori della Legge che avevano un enorme ascendente sul popolo, mentre Giuseppe di Arimatea era un aristocratico che prendeva parte alle riunioni del Sinedrio. Di recente alcuni scienziati francesi esperti di fisica ottica hanno rilevato che sul lino della sindone esistono tracce di scrittura in greco, latino e aramaico, tre lingue parlate nella Palestina del I secolo dove viveva una società multietnica, di madrelingua aramaica, che usava il greco per tutte le attività della pubblica amministrazione ed era dominata dai romani che parlavano il latino. Le scritte, confrontate con tanti esempi di papiri e altre iscrizioni di epoca romana, sembrano risalire al tempo di Tiberio (14-37 d.C.) e hanno i caratteri di un certificato prodotto per la sepoltura di un condannato a morte chiamato Gesù Nazareno.  

Articolo per gentile concessione della dott.ssa Barbara Frale

UN TESSUTO PER IL TEMPIO

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La tecnica speciale con cui fu filato e poi tessuto il lino della sindone rimanda alle considerazioni di un’altra studiosa, Maria-Luisa Rigato, la quale ha notato un’importante coincidenza: negli usi liturgici dell’ebraismo antico c’era un tessuto di lino molto particolare e assai pregiato, sopratutto riservato agli usi del Tempio di Gerusalemme e del sommo sacerdote.  Era detto sadîn shel buz, un telo ritualmente puro con cui venivano confezionati i velari del santuario e usato dal sommo sacerdote per avvolgersi dopo aver compiuto per cinque volte il bagno rituale obbligatorio nel giorno in cui si celebrava il rito dell’Espiazione (lo Yom Kippur), la festa più sacra: allora si sarebbe presentato al cospetto di Dio per chiedere che i peccati di tutto Israele fossero lavati via con il sangue delle vittime perfette immolate in sacrificio. Tecnicamente la parola vuole dire “telo di bisso”, un tessuto di puro lino ritorto in maniera speciale, diversa da quella comune. La seconda veste liturgica usata dal sommo sacerdote durante il rito dello Yom Kippur è anch’essa dello stesso materiale, pregiato lino tessuto con una speciale tecnica di torcitura, e altri paramenti sacri come l’efod e il pettorale, anch’essi appannaggio esclusivo del sommo sacerdote, avevano alla loro base un tessuto di lino fine (bisso) ritorto in maniera diversa, artistica e non comune. La fibra del lino può essere attorcigliata solo in due modi: quello ordinario (torcitura a S), il più usato perché segue la posizione che le fibre tendono a prendere da sole quando si seccano; e poi un secondo (torcitura a Z), nel quale le fibre vengono condizionate a torcersi nel verso contrario rispetto a quello che prenderebbero spontaneamente. Quando le fonti ebraiche antiche parlano di “lino ritorto ad arte” vogliono indicare senza dubbio questo secondo tipo di torcitura, detta appunto “a Z”: è molto raro nei manufatti archeologici giunti fino a noi, e questo non sorprende visto che era raro anche nell’antichità. Ne sono stati però ritrovati esempi in area siro-palestinese, lini provenienti da Palmyra in Siria, Al-Tar (Iraq) e nel deserto della Giudea.

Articolo per gentile concessione della dott.ssa Barbara Frale

giovedì 17 aprile 2014

TUTTI I PROSSIMI EVENTI AL CASTELLO DI MALPAGA

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Il Castello di Malpaga, gioiello del tardo Medioevo, è un luogo unico nel territorio lombardo: qui natura, arte e storia si intrecciano a formare un’atmosfera magica. In occasione del periodo primaverile il Castello di Malpaga si animerà con una serie di interessanti appuntamenti e iniziative adatti alle famiglie e agli adulti di ogni età. Per la prima volta il Castello sarà aperto al pubblico durante il giorno di Pasqua e Pasquetta (20 e 21 Aprile), entrambi i giorni con visite guidate alle ore 15.00, 16.00 e 17.00. 

Durante il ponte del 25 Aprile il pubblico potrà assistere ad una rievocazione storica con gli arcieri. Venerdì 25, Sabato 26 e Domenica 27 Aprile, dalle ore 10.00 alle 18.00, i visitatori potranno catapultarsi nel 1400 grazie ad esposizioni dell’accampamento medievale con racconto della vita da campo, esibizioni di tiro con l’arco e di scene di combattimento della fanteria, prove pratiche di tiro con l’arco per grandi e piccini.

Il 1° Maggio alle ore 15.00, 16.00 e 17.00, in occasione della festa dei lavoratori, il Castello di Malpaga sarà aperto al pubblico con visite guidate nei Saloni ricchi di preziosi affreschi  e arredati con mobili d’epoca. 

E quest’estate? Dal 23 Giugno fino al 25 Luglio i bambini dai 5 agli 11 anni avranno l’opportunità di vivere un campus estivo da veri cavalieri e principesse all’interno del Castello di Malpaga, all’insegna della cultura, natura, storia e tanto divertimento! Escursioni, giochi, cacce al tesoro, laboratorio, spazio compiti e pranzi con prodotti genuini a km zero: tutto questo e molto altro!

Per informazioni e dettagli: info@castellomalpaga.it o tel: 035.840003.

Roberta Breno
Account Assistant - New Target Group

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NARNI - CORSA ALL'ANELLO 2014....ULTIMI PREPARATIVI PER LA FESTA DELL'ANNO!


Nessuna festa a Narni superava per fasto e durata quella che si svolgeva in onore del Santo Giovenale, Primo Vescovo della città. Nel culto locale la festa si colloca tradizionalmente al 3 maggio. Gli statuti cittadini rinnovati nel 1371, codificarono quelli che erano gli antichi riti e i ludi che si svolgevano a Narni in onore di Giovenale defensor civitatis. Sin dal primo maggio il Banditore rendeva pubblico l'evento festivo. La sera del 2, dopo compieta, si svolgeva una imponente processione: la luminaria si recava sotto Io sventolio dei gonfaloni, accompagnata dai cori religiosi e dal suono degli strumenti musicali, nella Cattedrale dove Castelli e Corporazioni venivano vocati ad effettuare la propria offerta di cera. Il 3 maggio, giorno dedicato al Santo Giovenale, dopo una solenne cerimonia religiosa in Cattedrale, la festa assumeva il proprio carattere ludico, lasciando spazio ai tradizionali giochi equestri; la corsa del Palio e la corsa all'Anello. La prima era una competizione di pura velocità che si effettuava lungo il percorso che da S. Andrea in Lagia raggiungeva il petronum nella Piazza dei Priori alla quale i milites e gli equites, potevano iscrivere un loro cavallo guidato da un giovane cavaliere. Il premio era un Palio di seta della lunghezza di circa sei metri del valore di tre libbre d'oro. La Corsa all'Anello era invece riservata ai cavalieri narnesi. II Dominus Vicarius invitava coloro che intendevano correre l'anello a schierarsi all'angolo della chiesa di S. Salvato nella Piazza dei Priori per poi scagliarsi con la proprio asta ad infilare il bersaglio del valore di 100 Soldi Cortonesi. L'ordine di partenza era stabilito secondo l'appartenenza alle Brigate militari dei Terzieri: Mezule, Fraporta, Santa Maria. L'acquisto del Palio e dell'Anello era effettuato con l'esborso di 4 Fiorini d'oro spettante alla comunità ebraica. Durante il cinquecento, si aggiunsero ai tradizionali giochi, il combattimento tra il bufalo e il toro, la lotta, la quintana, le commedie allestite dai giovani narnesi, la colazione offerta alle donne. Campo de li Giochi, ricreata con successo nel 1968, la Corsa all'Anello si distingue nel panorama delle Feste Storiche nazionali ed europee come una delle manifestazioni che più di altre ha ricercato collegamenti con la propria tradizione storica, attivando le forze del volontariato per uno sviluppo turistico e culturale della città. Valorizzare le bellezze architettoniche del luogo attraverso spettacoli e manifestazioni di qualità, ricostruire luoghi e momenti della storia e della tradizione locale, coinvolgere il pubblico in un ritrovato senso della festa, approfondire e divulgare le particolarità di un periodo come il trecento, sono alcuni degli obiettivi che l'Ente Corsa all'Anello si prefigge, La festa quale ricostruzione degli eventi che si svolgevano in onore del Beato Giovenale nell'anno 1371, è caratterizzata da numerose manifestazioni durante le due settimane di festeggiamenti che culminano la seconda domenica di maggio. L’antica corsa all’anello aveva luogo nella Platea Major – oggi Piazza dei Priori ( o forse, più correttamente, Piazza Priora) dove si trovano anche i due Palazzi della politica cittadina, perfettamente contrapposti: il Palazzo dei Priori (attribuito al Gattapone) e quello del Podestà, o Comunale, le cui finestre sono invece attribuite al Sangallo. Proprio il Palazzo dei Priori nel corso del XIII° secolo prende il posto delle Chiese cittadine, antichi arenghi in cui si decideva la politica: il consiglio dei Priori (Domini sex electi) si riuniva, infatti, all’interno delle chiese di S.Salvato, S.Severino, S.Maria Impensole e nella Cattedrale. A partire dal 1275 però abbiamo testimonianza scritta della riunione dei sei Priori sotto una Loggia, un ambiente composto di due piani sovrastanti con sale ed affreschi, stemmi ( di cui in parte sono ancora visibili le tracce) ed iscrizioni. L’importanza della Platea Major è d’altronde testimoniata dalla presenza di alcune strutture ad esso affiancate: la loggia del banditore, la gogna e - soprattutto - la grande torre campanaria. La Loggia del Banditore, o dell’Arengo, è invece il luogo deputato per avvisare la popolazione circa eventi speciali o decreti di ordine pubblico, luogo da cui uno dei tre banditori cittadini si affacciano a scadenza regolare per rammentare ai cittadini le leggi più importanti presenti negli statuti. Ed infine la Gogna, elemento appena visibile, quasi scolpito dai corpi umani nella roccia, luogo deputato alle punizioni pubbliche, in un Medioevo che non lesina l’ostentazione del disprezzo popolare verso alcuni elementi della società urbana, e che vuole fortemente un luogo ove poter esporre la parte marcia della città.


Le prime edizioni....

Forse non tutti sanno che prima della prima edizione moderna del 1969, ci furono ben tre edizioni differenti della stessa. Grazie alla volontà di un sacerdote, Monsignor Mario Maurizi, vicario della Diocesi di Narni, si svolsero due edizioni, negli anni 1948 e 1949 con l’intento di rispolverare - sulla base di una rilettura degli Statuti narnesi del 1371 - la vetusta usanza di correre un palio in occasione della festa del Patrono.
Il sacerdote organizza questa rievocazione validamente confortato da un altro illustre concittadino, Giuseppe Collosi, che fornirà gli strumenti critici adatti alla rilettura di una pagina di storia narnese, altrimenti poco nota al pubblico. Poche testimonianze restano purtroppo di quella doppia occasione, senza seguito fino alla definitiva ripresa del 1969, se non alcune foto che ritraggono il cavaliere Lanciotto Boccali con lancia che si appresta ad infilare in anello, sullo sfondo di un campo sportivo (verosimilmente già il S.Girolamo).
Questo personaggio tornerà anche nelle prime edizioni della corsa moderna, quale rappresentante dei pochissimi cavalieri narnesi, in una corsa predominata dall’inevitabile - per la poca esperienza locale - dall’ingaggio dagli “stranieri”. Interessante, quale testimonianza grafica di una delle edizioni in questione, resta una sorta di diploma artistico, opera del Prof. Castellani, che venne consegnato al vincitore della corsa del 1949, Aurelio Bernardi, cavaliere della scuderia Cipiccia. Notevole è l’immagine del cavaliere raffigurato nel dipinto, abbigliato con abiti più rinascimentali che medievali, il quale impugna una lancia a mo’ di giavellotto, nell’atto di infilzare un anello pendente da una corda. Altro curioso elemento è anche la presenza, sullo stesso diploma dipinto, di tre stemmi, la prima raffigurazione simbolica dei terzieri cittadini: al lato del cavaliere appaiono infatti tre stendardi che raffigurano il terziere di Mezule (vessillo bianco con rocca in primo piano), Fraporta (vessillo rosso con effige del Palazzo dei Priori), e S.Maria (Vessillo azzurro con la sagoma del Ponte d’Augusto in primo piano).


La cosa moderna...

Domenica 4 Maggio 1969 è il giorno della prima Corsa all’Anello moderna, preceduta però da altri tre giorni di festeggiamenti, tra cui la prima uscita pubblica del banditore dal palazzo comunale, il giorno Primo Maggio, debitamente a cavallo, con accompagnamento di alcuni tamburini locali, il quale legge - tra lo stupore e l’interesse degli spettatori in piazza - il primo (ed unico finora, immutato nel tempo) Bando della Corsa: le ormai famose parole “Madonne, cavalieri et lo populo tucto..” echeggiano per la prima volta in piazza. Il primo banditore a leggere il testo scritto dal giovane Piero Piersanti è Francesco Bussetti, a lungo compreso in questa parte anche negli anni a venire, poi seguito dal Prof. Umberto Corradi e da altri ancora.
I giorni 2 e 3 Maggio prevedono altri appuntamenti rievocativi che, lentamente ma con decisione, iniziano a catalizzare l’attenzione dei narnesi: la sera del 2 Maggio è dedicata alla celebrazione del “Te Deum” in Cattedrale, mentre il giorno di S.Giovenale (Sabato 3 Maggio) si divide in due parti: la rituale messa con processione in onore del Patrono ed appunto la prevista inaugurazione dei locali di S.Domenico, con consegna delle onorificenze al prefetto ed al Prof. Castellani. La seconda parte della giornata prevede invece il primo corteo storico notturno, a cui partecipano i nove cavalieri e rispettive dame, armigeri e valletti, accompagnati dal curioso e catalizzante suono dei tamburi. Domenica 4 Maggio vede il clou della prima edizione della Corsa moderna, con un pranzo ufficiale presso l’albergo dell’Angelo e la partenza del corteo in direzione del campo di gara, lo stadio S.Girolamo, con l’apporto degli spettacolari sbandieratori di Ascoli Piceno. L’ingresso al campo è ad offerta libera, ogni spettatore da’ quel che può, ma i soliti problemi dei “portoghesi” di turno si affacciano subito alla ribalta: proprio Mons. Maurizi è costretto a redarguire alcuni frati presenti a S.Girolamo per aver concesso ad altri spettatori non paganti di entrare indebitamente al campo di gara, mentre il resto della popolazione paga. Ben cinque cavalieri folignati aderiscono alla prima edizione della manifestazione, e cioè: Ciancaleoni, Giusti, Formica, Cruciani, Laureti e Villa. Il buon nome dell’equitazione locale viene invece affidato ai narnesi Lanciotto Boccali (unico reduce dell’esperienza del 1948) per il terziere S.Maria, Angelo Valle per Mezule e Giulio Valli per Fraporta. La giuria al campo è presieduta dal Dott. Elvio Daniele, mentre il vice sindaco di Foligno Stefano Ponti si impegna ad informare debitamente il pubblico circa le origini, l’evoluzione e lo svolgimento della gara che, al termine della giornata, risulta ad appannaggio del terziere Mezule, tra l’entusiasmo dei primi contradaioli della parte di sopra, giustamente orgogliosi dei propri colori, e la soddisfazione di Mons. Maurizi e dell’intera organizzazione. La giornata memorabile ha termine in piazza dei Priori, dove la buona riuscita della manifestazione viene festeggiata con un generale banchetto a base di porchetta e vino, gentilmente offerti dal conte Mancinelli, atto precursore e profetico della nascita delle taverne, o meglio “Hostarie” dei tre terzieri.

Fonte: www.corsallanello.it

Ente Corsa all'Anello

Via Garibaldi 22
05035 Narni (TR)
Tel-Fax: +39 0744 72 62 33
Cel: +39 340 15 80 325
Comune di Narni

Piazza dei Priori 1
05035 Narni (TR)
Tel. +39 0744 7471
Pro Loco Narni - IAT

Piazza Dei Priori 3
05035 Narni (TR)
Tel. +39 0744 71 53 62

Foto: Popolane et popolani,

Se per caso ve lo foste scordato domani, 25 Aprile inizia l'attesissima Corsa All'Anello di Narni. Per info e prenotazioni sulle hostarie di Mezule potete far riferimento ai numeri qui sotto elencati. Per i più forestieri ecco la google mappa - http://goo.gl/maps/G9gRn

Chi non condivide la foto è un fraportano.

1 MAGGIO 2014 - GIORNATA MEDIEVALE AL CASTELLO DI CONEGLIANO!

Manifestazione organizzata dal Bar Ristorante Belvedere "Al Castello", in collaborazione con la "Schola Tamburi Storici di Conegliano e Comitato Antica Fiera di Santa Lucia di Piave" .

INIZIO EVENTO ore 11.00.

La giornata vi offrira’ un viaggio nel tempo,alla scoperta della storia di conegliano, potrete visitare il mercato medievale e gli accampamenti, seguire le esibizioni di giullari, musici e tamburi e i duelli tra cavalieri

ore 15.00 - la storia in gioco grande avventura per bambini e ragazzi alla scoperta di un medioevo insolito
ore 16.30 - teatro dei burattini
ore 18.30 - crescendo di emozioni con spettacoli e «il giudizio di dio»

Durante la giornata sara’ possibile partecipare gratuitamente a visite guidate al castello

Per pranzare al ristorante "Al Castello" con menu a tema medievale è richiesta la prenotazione
(Tel. 0438 22379 - www.ristorantealcastello.it)


LA FINE DELL'IMPERO ROMANO

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Il ventennio che va dal sacco di Roma da parte del re vandalo Genserico (455) alla deposizione dell'ultimo imperatore romano d'occidente, Romolo Augusto, da parte del generale barbaro Odoacre (476) è uno dei più convulsi e drammatici nell'intera storia d'Europa. Mentre i popolo germanici continuano a strappare lembi sempre più vasti dell'Impero per fondare i nuovi regni romano-barbarici, in Italia i sempre più potenti generali, di stirpe germanica anch'essi, fanno e disfano gli ultimi fantasmi di sovrani, dopo che l'estinzione della dinastia di Teodosio ha aperto una crisi nella successione che non verrà mai più superata. Tra essi spicca la figura di Ricimero, vero burattinaio di quest'ultimo scorcio di vita dell'Impero Romano, che restando nell'ombra manovra spregiudicatamente degli effimeri sovrani-fantoccio.

1. AVITO

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Dopo la partenza dei Vandali da Roma l'Impero d'Occidente, o meglio l'Italia con gli sparsi frammenti del suo antico dominio in Gallia, in Spagna e nel Norico, spezzato l'ultimo anello della continuità dinastica dei Teodosidi, rimase passivamente in attesa che la più potente delle nazioni barbariche decidesse il suo destino. 
Dopo la repentina scomparsa degli Unni dalla storia europea, due popoli erano in condizione di disputarsi il protettorato sull'Impero, i Vandali e i Visigoti; ma Genserico, con l'orrendo saccheggio compiuto a Roma per ben due settimane, si era tagliato con le proprie mani la possibilità di far eleggere Augusto un proprio candidato. Egli ben sapeva che un erede di suo figlio Unnerico e della figlia maggiore di Valentiniano III, Eudocia, non avrebbe mai potuto ambire al titolo imperiale, in quanto per metà di sangue germanico. Perciò meditava di sostenere quale candidato lo sposo della figlia minore di Valentiniano III ed Eudossia, Placidia, il nobile Anicio Olbrio; ma la partenza del re vandalo da Roma, come un volgare malfattore, dopo un saccheggio spietato rivelava la coscienza della irrealizzabilità di una simile impresa.
A Tolosa il nuovo re dei Visigoti, che era giunto al trono dopo l'assassinio di suo fratello Torrismondo, era adesso Teodorico II, che aveva impresso una svolta all'indirizzo della politica estera del proprio regno, adottando un atteggiamento molto più conciliante verso l'Impero Romano. 
La morte di Massimo e la partenza dei Vandali da Roma sembravano offrirgli l'occasione per instaurare sul trono dell'Occidente un proprio candidato e di prevenire così le analoghe intenzioni di Genserico, ed egli non lasciò passare un momento favorevole. Teodorico decise di sostenere il magister militum delle Gallie, Flavio e Parchio Avito vecchio generale di Ezio, che era stato sempre in stretti rapporti coi Visigoti per aver svolto importanti missioni diplomatiche presso di loro. E con il decisivo appoggio di Teodorico, nell'assemblea annuale delle Sette Province ad Arles, Avito venne acclamato imperatore dai senatori gallici (10 luglio 455).
Il Senato di Roma non aveva avuto alcuna parte nell'elezione di Avito e il popolo italico probabilmente nutriva diffidenza e disprezzo per un magnate gallo che calava nella Penisola sostenuto, oltre che dalle sue truppe "romane", da un forte contingente di Visigoti (autunno 455). Tuttavia Avito non incontrò in Italia senza opposizione, anzi entrato in Roma su invito dello stesso Senato, vi fu riconosciuto ufficialmente ed ascoltò il servile panegirico di suo genero, il poeta Siconio Apollinare, che ne ricevette in compenso una statua di bronzo nel foro di Traiano (1°gennaio 456). Identico riconoscimento avevano ricevuto, prima di lui, il poeta Claudiano al servizio del generale Stilicone, e il poeta Merobaude per i suoi servigi nei confronti del generale Ezio. Scomparso il pericolo Unno e divenuti i Visigoti - per forza di cose - alleati e sostenitori dell'Impero, i primi atti di governo che gli Italici si attendevano da Avito erano i preparativi per una campagna militare contro Genserico, il che rientrava naturalmente anche nei desideri di Teodorico II, al quale andava debitore della porpora. E Avito, condottiero e diplomatico di qualche valore oltre che uomo di cultura, si diede ad allestire la spedizione che avrebbe dovuto mettere al sicuro una volta per tutte le coste della Penisola, ed eliminare l'incombente minaccia vandalica dal Mediterraneo. Ma in Dalmazia il conte Marcellino manteneva un'orgogliosa e ostile indipendenza, in Gallia e in Spagna le province romane erano ridotte a ben poca cosa,e il maggior peso dei preparativi ricadde gravosamente sull'Italia esausta, e già affamata dall'interruzione dei rifornimente di grano dall'Africa. Nell'Urbe desolata dalla carestia, oltre che dal recente saccheggio, il nuovo imperatore si vide così costretto a far ricorso a misure estreme, persino a fondere le statue di bronzo per venderne il metallo, mentre la presenza delle truppe ch'egli aveva condotte con sé aumentava il carico già insopportabile di sofferenze della popolazione, provocando scontento e recriminazioni. Perciò Avito non si trattenne a lungo in Roma e fece ritorno in Gallia appena possibile, lasciando in Italia un suo luogotenente, Remisto, in qualità di patricius. In Spagna la situazione stava nuovamente precipitando poiché gli Svevi, dopo la partenza dei Vandali per l'Africa si erano fatti nuovamente aggressivi e dalle loro sedi nella montuosa Gallaecia (Galizia) e nella parte settentrionale della Lusitania fino al Tago, effettuavano continue scorrerie nella Baetica, nella Carthaginiensis e nella Tarraconensis. Ma in tal modo il loro re Rechiario non solo minacciava di distruggere gli ultimi resti del governo romano nella Penisola Iberica, bensì entrava direttamente in urto con suo cognato Teodorico II che non poteva tollerare un pericoloso aumento di potenza dei vecchi nemici dei Visigoti, né esimersi dal sostenere l'imperatore che lui stesso aveva fatto insidiare. Si giunse ad un'aperta rottura fra Svevi e Visgoti e la decisiva battaglia sulle rive del fiume Urbio, in cui la rinascente potenza sveva subì un colpo da cui non si sarebbe mai più ripresa. Rechiario cadde in mano ai suoi avversari poco più tardi e venne messo a morte, ma, mentre Teodorico regolava da vincitore la successione al trono svevo, Avito - nel cui nome egli continuava a proclamare di agire - abbandonato a sé stesso era andato incontro a una fine rapida e improvvisa. Agendo con la consueta tempestività, Genserico aveva prevenuto la spedizione che in Italia si veniva organizzando contro di lui, sferrando una violenta offensiva navale contro le coste della Penisola. La situazione era stata salvata da un valoroso comandante germanico di nome Ricimero, che aveva infllitto loro due decisive sconfitte: davanti ad Agrigento e nelle acque della Corsica, ove sessanta galere vandaliche erano state distrutte e l'immediata minaccia di uno sbarco in Italia, per il monento, sventata (456). Ma Gensierico, benchè sconfitto, proseguiva una distruttiva guerra di corsa sulle coste del Tirreno e dello Ionio; la Sardegna e la Corsica erano già state occupate dai Vandali (455 o 456); la Sicilia e l'Italia meridionale, seriamente minacciate. Le popolazioni italiche vivevano in un continuo stato di apprensione, e Ricimero, orgoglioso delle proprie vittorie, ambiva al supremo comando militare. Egli però era un Germano, Goto per parte di madre e Svevo per parte di padre: era anzi il nipote del re Vallia; e Avito diffidava di lui, tanto più che - per debito di riconoscenza verso Teodorico - gli aveva preferito quale patricius Remisto, che probabilmente era un visigoto. Deluso nelle proprie ambizioni, conscio della propria forza e della debolezza dell'imperatore gallico, Ricimero agì allora di forza: affrontò Remisto e lo sconfisse a Ravenna, poi si volse contro lo stesso Avito che, in tutta fretta, era accorso dalla gallia. Ricimero agiva d'intesa con l'aristocrazia italica, che sperava di trovare in lui un più valido sostegno dei propri interessi economici - ruolo che già era stato di Stilicone e di Ezio , e con il Senato di Roma, che non si era mai realmente rassegnato a subire l'autorità di un imperatore eletto senza il suo consenso da un re barbaro, e sostenuto nell'Urbe stessa dalle armi dei Visigoti. Nella decisiva battaglia, combattuta fra l'esercito di Ricimero e quello dell'imperatore, Avito fu sconfitto (17 ottobre), costretto dal generale vitorioso ad abdicare, e infine ordinato vescovo della città di Piacenza. La vendetta del Senato fu più implacabile di quella del barbaro germano: colpito da una sentenza di morte, Avito fu costretto ad abbandonare il rifugio malsicuro della propria chiesa per tentare di fuggire verso il suo paese natale, oltre le Alpi. La morte lo colse per via, in circostanze oscure (456), e in Gallia non arrivò che il suo cadavere. A questo punto Ricimero, avrebbe avuto aperte innanzi a due strade: quella di scegliersi un imperatore fantoccio, assumere direttamente del potere. In realtà la porpora imperiale, pur nell'estrema decadenza dell'Impero, continuava a restare negata ad un Germano: Ricimero non avrebbe potuto assumere il potere, se non estinguendo formalmente l'ultima parvenza di sovranità imperiale in Occidente - anticipando, cioè, l'iniziativa che Odoacre avrebbe preso vent'anni dopo. Ma una tale possibilità non appariva facilmente realizzabile per Ricimero; egli aveva bensì un esercito ai propri ordini (romano di nome, germanico nei fatti), ma non un popolo; e quei mercenari non manifestavano ancora né il desiderio né l'intenzione di crearsi un regno in Italia. Del resto, l'eliminazione di Avito era stata il frutto di un'alleanza fra lui e il senato, e i tempi non sembravano ancora maturi per scavalcare senza scrupoli quell'antico consesso, che restava tuttora, in mezzo al marasma generale, il più autorevole rappresentante della tradizione romana di governo. D'altra parte la deposizione e la morte di Avito avevano sdegnato l'animo di Teodorico e irritato i bellicosi Visigoti, i quali, se fino a quel momento avevano combattuto gli Svevi in qualità di alleati dell'Impero, ora cominciavano a dare mano alla conquista, per proprio conto, dei territori spagnoli strappati al popolo rivale. Di più: essi ripigliavano l'antica loro politica di espansione verso il cuore dell'Impero, verso il Mediterraneo e l'Italia stessa; e, ritenendosi sciolti dagli obblighi dei precedenti trattati, tornavano a minacciare Arles e Narbona. Sul loro esempio anche i Burgundi, rotti gli angusti confini assegnati loro nella Sapaudia (Savoia), a suo tempo, da Ezio, incominciavano ad allargarsi nella sottostante vallata del Rodano, e s'impadronivano della grande Lugdunum (Lione); mentre i franchi Ripuari, dalle loro sedi sul Reno, conquistavano Trèviri e Colonia. Dal porto di Cartagine la flotta vandalica rinnovava incessantemente le sue spietate scorrerie e l'Italia affamata, priva ora anche dei rifornimenti di grano della Gallia e della Spagna, si aspettava di momento in momento di veder riapparire le galere di Genserico alla foce del Tevere, o davanti a Napoli, a Palermo, a Siracusa. In quei drammatici frangenti Ricimero, prima d iagire di propria iniziativa, avrebbe voluto stringere un accordo con la corte di Costantinopoli, e, sperando di riceverne aiuti, temeva di rompere i ponti dietro di sé con qualche azione che avrebbe potuto alienargli completamente anche l'ultimo potenziale alleato. L'imperatore d'Oriente Marciano, però, non aveva voluto riconoscere né Massimo (l'usurpatore proclamatosi imperatore subito dopo la morte di Valentiniano III), né Avito, e ogni possibilità di accordo con lui sembrava irrealizzabile. Ricimero, tuttavia, seppe agire con grande prudenza e preferì lasciar vacante per sei mesi il trono occidentale, piuttosto che arrischiare una rottura diplomatica con il governo di Costantinopoli. Solo dopo la morte di Marciano (gennaio 457) si decise ad assumere il titolo di patricius (febbraio), sperando che il nuovo sovrano si sarebbe dimostrato più malleabile. Sul trono d'Oriente era salito Leone, una nuova creatura del generale alano Aspar, che svolgeva colà un ruolo simile a quello cui ambiva, in Occidente, lo stesso Ricimero. Con l'elezione di Leone veniva reciso anche l'ultimo legame con la famiglia di Teodosio il Grande, che aveva regnato a Costantinopoli dal lontano 378, quando Valente, fratello di Valentiniano I, era caduto in battaglia contro i Goti ad Adrianopoli. A quel punto fu possibile giungere ad un accordo fra Leone e Ricimero, che nel frattempo aveva nominato secondo magister utriusque militiae il proprio comes domesticorum, Giulio Valerio Maioriano.

2. MAIORIANO

Il patrizio avrebbe voluto designare Maioriano alla porpora e governare egli stesso, di fatto, l'Italia, pur restando nell'ombra, come avevano fatto Stilicone ed Ezio; ma Leone era ancora restio ad accettare il candidato di un barbaro germano come suo collega sul trono dell'Occidente. Lo stesso Maioriano, del resto, si comportava con notevole moderazione e quando, alla fine, le truppe lo acclamarono imperatore (1°aprile), rifiutò, in attesa di un riconoscimento ufficiale da Costantinopoli, che avrebbe suggellato un'alleanza estremamente necessaria all'Italia, minacciata dai Vandali. L'attesa si protraeva, però, da molto tempo e per altri nove mesi sia lui che Ricimero rispettarono gli scrupoli dell'imperatore d'Oriente. Per tutto quel tempo la Penisola rimase senza un'autorità sovrana ben definita; alla fine Maioriano si risolse ad accettare l'acclamazione da parte dell'esercito e del Senato, e indossò la porpora e il diadema (28 dicembre). Il regno di Maioriano (457-61) fu caratterizzato da un attivo ed energico impegno politico-militare, e quasi unanimemente gli storici moderni hanno salutato in questo nobile e sfortunato imperatore l'ultimo degno successore di Augusto, di Traiano e di Marco Aurelio. Se infatti Ricimero si era illuso di potersi servire del proprio candidato come di un docile e sottomesso strumento, rimase ben presto disilluso dal vigore con cui Maioriano si diede a tentar di riorganizzare lo stato in sfacelo. Egli dapprima annullò tutti i tributi arretrati dei provinciali, indi tentò di prevenire futuri abusi abolendo le commissioni straordinarie e riportando l'esazione delle tasse sotto la giurisdizione dei magistrati ordinari. Ma fece ancora di più: rimise in onore l'antica carica dei defensores civitatum, dotandola di ampi poteri per contrastare e combattere l'avidità e la corruzione dei pubblici funzionari. Come della stessa aristocrazia senatoria. Grandi sforzi furono fatti per imporre l'osservanza delle leggi anche ai magistrati provinciali e per ripristinare le curie cittadine, alleviandone al tempo stesso il carico insopportabile delle imposte. Infine, riprendendo e accentuando alcuni aspetti della politica ecclesiastica di Valentiniano III, Maioriano cercò di limitare i privilegi della Chiesa e d'impedire una fuga massiccia dei cittadini dalle responsabilità civili, per rinchiudersi fra le mura silenziose degli innumerevoli conventi, che sorgevano ovunque. Alle vergini desiderose di prendere i voti, fu imposto di attendere l'età minima di quarant'anni; e le vedove, che entro quell'età avessero indugiato più di cinque anni per risposarsi, sarebbero incorse nella perdita della metà dei loro beni. Si trattava, evidentemente, di porre un freno all'accumulo di beni immobili da parte di una chiesa cattolica sempre più potente, mentre i redditi e le proprietà imponibili si riducevano rapidamente a causa, appunto, delle donazioni dei privati a favore del clero. Si trattava, inoltre, di arginare l'impressionante calo demografico, dovuto anche all'aumento smisurato delle vocazioni monastiche e sacerdotali e all'uso, da parte delle matrone dell'aristocrazia, di non sposarsi o, se vedove, di non riprendere marito, per consacrarsi alla verginità pur conservando lo stato laicale - di solito sotto la direzione di qualche religioso; fenomeno che è documentato fin dal tempo di san Girolamo.
Ma la riforma di Maioriano voleva essere morale e di costume, prima ancora che amministrativa e politica: egli si sforzò di far riardere l'antica fiamma della virtù guerriera in un popolo ormai imbelle, e di far sottostare ai doveri sociali anche quanti, in virtù del proprio patrimonio o della carica indegnamente rivestita, avevano dimenticato la comune appartenenza ad una società gravemente minacciata da pericolo interni non meno che esterni. Tutto pervaso dall'ammirazione e dall'entusiasmo perle antiche tradizioni, l'imperatore denunciò l'abbandono degli antichi monumenti di Roma e, peggio, la sistematica distruzione da parte di quanti ne utilizzavano impunemente i materiali di risulta perla costruzione di nuovi e mediocri
edifici privati; e comminò pene severissime per quanti, privati cittadini e pubblici funzionari, avessero proseguito o tollerato tale distruzione indiscriminata del parimonio storico-artistico dell'Urbe.
Maioriano, però, non si nascondeva che qualsiasi tentativo di efficace riorganizzazione interna era destinato a cadere nel vuoto, fino a quando l'Impero avesse continuato a permanere sotto l'incubo dell'invasione vandalica e, da valoroso soldato quale egli era, si apprestò a tale suprema impresa con la massima energia.
Prima, però, era necessario assicurare all'Italia una più vasta fonte di rifornimenti, e quindi riportare all'obbedienza Visigoti, Burgundi e Franchi, e ristabilire l'autorità romana sulle Gallie e sulla Spagna. Maioriano, pertanto, si assicurò la collaborazione del conte Marcellino, inducendolo a portarsi dalla Dalmazia in Sicilia con un esercito di Unni, per sventare un eventuale attacco vandalico contro la grande isola mediterranea. Ciò fatto, egli partì personalmente diretto oltre le Alpi, confermando in una serie di campagne militari il grande talento strategico, già illustrato quando non era che un ufficiale subalterno del grande Ezio. Con l'aiuto di un valoroso generale di nome Egidio, l'imperatore sconfisse i Visigoti rioccupando Arles; poi ricacciò i Burgundi da Lione e, fatta con essi la pace, oltrepassò i Pirenei. In Spagna egli recuperò le province che i Visigoti avevano tolte agli Svevi, senza però restituirle al governo romano, col pretesto della scomparsa di Avito, che essi consideravano il solo legittimo imperatore.
Era tempo di accingersi alla grande impresa africana, i cui preparativi avevano fatto risorgere speranze dimenticate negli animi oppressi degli Italici. Solo a prezzo di grandi sacrifici era stato possibile raccogliere un esercito per l'invasione dell'Africa e, quel che è più notevole, dato lo stato di estrema decadenza ella marina da guerra, una grande flotta di ben 300 galere, senza contare il naviglio minore e quello da trasporto. In un primo tempo Maioriano aveva fondato grandi speranze, per l'impresa vandalica, sul concorso dell'Impero d'Oriente; ma, benché egli avesse fatto subito coniare una moneta che lo raffigurava accanto a Leone, il geloso sovrano di Costantinopoli non si era ancora deciso a riconoscerlo, e perciò nessun aiuto venne offerto all'Occidente per la grande impresa contro Genserico. Maioriano non si perse d'animo per questo, e si avviò ugualmente verso Saragozza (maggio 460), nell'imminenza ormai della spedizione, che avrebbe dovuto coronare gli sforzi tenaci e coraggiosi di due anni e mezzo di lavoro. Ricimero, a dire il vero, non vedeva troppo di buon occhio tutto questo ardore di attività da parte del nuovo imperatore, e se n'era rimasto inattivo e in disparte, senza aver partecipato ad alcuna delle imprese di Maioriano nei paesi transalpini. Ancora una volta l'aristocrazia senatoria, colpita nei propri egoistici interessi dalle leggi inflessibili del nuovo sovrano, si avvicinò all'onnipotente patrizio in vista di un comune interesse a bloccare le riforme avviate. Non è possibile stabilire esattamente come avvenne, e se l'iniziativa proditoria partì da Ricimero, che aveva desiderato un sovrano-fantoiccio e si trovava ora a fare i conti con un personaggio di reale spessore, deciso a esercitare sul serio le funzioni imperiali, o dai senatori preoccupati per le loro proprietà e i loro patrimoni: fatto sta che qualcuno informò proditoriamente Genserico sui preparativi della spedizione africana. La reazione del re dei vandali fu fulminea. Penetrato all'improvviso nel porto di spagnolo di Nova carthago (Cartagena), le sue navi vi sorpresero la flotta tanto faticosamente radunata da Maioriano, e la distrussero quasi interamente (primavera del 460). L'imperatore non si abbattè nemmeno dinnanzi a tanta sventura: conclusa la pace con Genserico, si avviò da solo, senza flotta e senza esercito, verso l'Italia. Ma Ricimero era stanco di quella sua creatura, di cui non si poteva più fidare. Così, quando Maioriano rientrò a di qua delle Alpi, lo fece arrestare a Tortona, in Liguria, il 2 agosto 461; e poco dopo, fattolo condurre a Roma, lo costrinse ad abdicare e subito dopo lo fece decapitare (7 agosto).

3. SEVERO E ANTEMIO

Ricimero aveva appreso la lezione. Il suo successivo candidato che fece eleggere imperatore da un Senato ormai prono ai suoi voleri, fu l'oscuro senatore Libio Severo (19 novembre 461), che nei quattro mesi del suo principato non diede mai alcuna preoccupazione al suo irritabile patrizio. Ricimero non scordava come i servigi di Stilicone e di Ezio fossero stati ricompensati, a suo tempo, da Onorio e da ValentinianoIII, e da allora fino alla sua morte egli continuò a fare e a disfare imperatori secondo il suo volere, contribuendo all'instabilità di un governo che precipitava verso la sua fatale disintegrazione. Ma quegli anni, in cui il patrizio regnò, di fatto, come un sovrano indipendente, furono per lui e per l'Italia tutt'altro che facili: da ogni parte egli si vedeva minacciato sia dai vecchi amici di Maioriano sia dalle incessanti scorrerie piratesche di Genserico. In Gallia, il magister militum del defunto imperatore, Egidio, aveva assunto un atteggiamento ostile e addirittura minaccioso, e preparava una spedizione contro l'Italia; mentre un analogo comportamento assumeva il magister militum della Spagna, Nepoziano. Per sventare il pericolo, Ricimero non esitò a stringere accordi con i barbari che di recente avevano combattuto l'Impero, e a sacrificare ciò che il valore e l'abilità di Maioriano erano riusciti a recuperare. Mediante l'alleanza di Ricimero con Visigoti e Burgundi, tanto Egidio che Nepoziano vennero eliminati, e sostituiti rispettivamente dallo stesso re burgundo Gundiuc, e da un candidato di Teodorico, Arborio. Il prezzo di questa operazione fu, probabilmente, la cessione di Lione ai Burgundi e di altri territori ai Visigoti. Ma non basta: Teodorico non si accontentò dei territori cedutigli, ma riuscì a impadronirsi - col tradimento – anche dell'ambitissima Narbona, assicurandosi finalmente lo sbocco sulla costa del Mediterraneo. Nemmeno il conte Marcellino aveva voluto riconoscere Severo dopo l'esecuzione di Maioriano - questa fedeltà alle persone fisiche anziché al concetto astratto di Stato reca già in sé qualcosa di medioevale, di feudale - , nella Sicilia ove si era portato in vista della guerra vandalica. Ricimero, che sapeva usare l'arma della corruzione altrettanto bene della spada, non potendo affrontarlo apertamente istigò una sedizione fra gli Unni che Marcellino aveva condotto con sé, come esercito personale. Quest'ultimo però non si lasciò catturare, ma imbarcandosi in fretta riuscì a rientrare nella sua Dalmazia, ch'egli governava ormai come una sorta di dominio privato. Di là si diede ad arruolare un nuovo esercito, con il quale contava d'invadere l'Italia e regolare una volta per tutte la partita col suo subdolo avversario. Ad aggravare le difficoltà di Ricimero, i Vandali continuavano ad aumentare la pressione sulle coste italiche con la loro flotta ormai padrona del mare. In effetti, Genserico aveva adesso un obiettivo preciso, che andava al di là del puro e semplice saccheggio delle coste e del naviglio dell'Impero d'Occidente: quello di imporre sul trono di Ravenna un suo personale candidato, il genero Anicio Olibrio, così come Teodorico aveva imposto, qualche anno prima, Avito. Minacciato sia dalla parte della Dalmazia, sia da quella di Cartagine, Ricimero non sembrava in gradi di fronteggiare due avversari contemporaneamente. Egli cercò allora di riavvicinarsi al sovrano di Costantinopoli, che - dal suo canto - fin dal 462 si era adattato a stipulare la pace con i Vandali. Leone, in realtà, riuscì a convincere Marcellino a non muovere contro l'Italia; ma quanto a Genserico, in cambio di un concreto appoggio contro di lui il sovrano orientale impose a Ricimero di riconoscere sovrano d'occidente un proprio candidato. Ricimero non era in condizioni di rifiutare. Nel 464 era riuscito a fermare e sconfiggere, a Bergamo, un'orda di Alani penetrati da oltre le Alpi, ma la situazione dell'Italia permaneva difficilissima. Così, quando Severo - assai opportunamente - morì, forse di morte naturale, forse avvelenato (15 agosto 465), dopo due anni di trattative Ricimero dovette piegarsi a riconoscere imperatore Procopio Antemio, un lontano discendente del generale ribelle e parente dell'imperatore Giuliano, che inoltre era genero di Marciano, di cui aveva sposato la figlia. Antemio, ex magister militum per Illyricum e console nel 435, era un personaggio molto in vista a Costantinopoli, e il suo arrivo in Italia, alla testa di un forte esercito, dovette rafforzare i dubbi e la diffidenza di Ricimero, che avrebbe preferito un docile strumento come l'insignificante Severo. Antemio, comunque, venne acclamato Augusto dall'esercito e dal Senato di Roma 813 aprile 467), e Ricimero venne rabbonito dalla promessa di matrimonio con la figlia del nuovo imperatore d'Occidente. Poco dopo, mentre Antemio - in collaborazione con Leone- iniziava energici preparativi per la guerra vandalica, il patrizio sposò sua figlia, ancor fanciulla, Alipia, tra grandi feste; e la città di Roma, devastata, spopolata e immiserita, celebrò per l'ultima volta spensierati festeggiamenti, mai come allora più incongrui e surreali. A corte, ancora una volta, la Musa di Sidonio Apollinare esaltò senza arrossire i meriti del nuovo sovrano, come già aveva fatto con quelli di Avito e di Maioriano. Forte dell'appoggio di Costantinopoli e ammonito dalla sorte dei suoi predecessori, Antemio cercò di controbilanciare lo strapotere di Ricimero appoggiandosi sul suo antico avversario, il conte Marcellino, ch'egli aveva condotto in Italia e che, adesso, si risolveva a nominare suo secondo patricius. Ma con ciò inaspriva le sotterranee tensioni con Ricimero e gettava i semi di un'aperta rivalità tra i due generali, che non si erano mai stimati e che adesso (come a suo tempo Ezio e Bonifacio) erano pronti a sfoderare le armi, quando più lo Stato avrebbe avuto bisogno della loro concordia e della loro reciproca cooperazione.
Intanto i preparativi per la spedizione africana procedevano intensamente e i due governi di Ravenna e Costantinopoli, con uno sforzo gigantesco, riuscirono a raccogliere una flotta grandiosa di 1.000 vascelli, e un esercito di ben 100.000 uomini. L'onere di gran lunga maggiore era ricaduto sull'Impero d'Oriente, e così il comando della spedizione fu affidato a Basilisco, fratello dell'imperatrice Verina e quindi cognato di Leone, mentre Marcellino ebbe il comando della flotta occidentale. L'impresa incominciò sotto i migliori auspici. Il prefetto orientale Eraclio, sbarcato sulle coste della Tripolitania, avanzò vittoriosamente in direzione di Cartagine, mentre Marcellino con la sua flotta riconquistava la Sardegna. A completamento di questa complessa manovra strategica, il grosso della squadra di Basilisco approdò a Capo Bon, sbarcandovi l'esercito che si accinse (come ai tempi di Attilio Regolo e dei due Scipioni) ad investire la capitale, Cartagine. L'ora fatale sembrava scoccata per Genserico, ma ancora una volta lo scaltro, abilissimo re dei Vandali seppe uscire con successo da una situazione quasi disperata. Ottenuta una tregua d'armi di cinque giorni, sferrò a tradimento un attacco notturno contro la flotta romana, riuscendo ad incendiarne una gran parte (468). A Basilisco non restò altro da fare che reimbarcarsi con i resti di quella che era stata una delle più poderose flotte mai viste nel Mediterraneo, e far ritorno mestamente a Costantinopoli. Là giunto, dovette cercar rifugio nella chiesa di Santa Sofia allo sdegno dell'imperatore Leone, e solo l'intervento di sua sorella Verina potè salvarlo da un drastico castigo per il suo clamoroso fallimento. Quanto al patrizio Marcellino, questa volta non ebbe lo possibilità di mettersi al sicuro nel suo feudo della Dalmazia: perì in Sicilia, assassinato - si disse - per gli intrighi del suo collega e rivale, l'implacabile Ricimero. Naufragavano così, nello sconforto e nei sospetti più odiosi di tradimento, le grandi speranze che per un momento avevano rianimato l'Italia. È probabile che l'insuccesso di Basilisco fosse dovuto, oltre che a incapacità e, forse, a corruzione, ai maneggi dell'altro potentissimo barbaro che dominava la corte orientale: Aspar, che forse aveva dato segrete istruzioni per sabotare la spedizione africana. In ogni modo, poiché Antemio era giunto in Italia in veste di uomo di fiducia della corte orientale, il fallimento della guerra vandalica si tradusse in un colpo assai duro per il suo prestigio e per la sua credibilità, poiché era sotto gli occhi di tutti il fatto che Costantinopoli non aveva potuto o voluto sostenerlo nel momento decisivo. Orami, tra lui e Ricimero i sospetti si erano convertiti in avversione, l'avversione in odio. Antemio, che definiva con spregio il suo patrizio "un barbaro vestito di pelli" e si lagnava amaramente della sua malafede, nonostante gli avesse dato in sposa la figlia, aveva posto la sua residenza a Roma, mentre Ricimero, che chiamava il suo imperatore "un greculo" e "un Galata eccitabile", si era stabilito a Milano. L'Italia era divisa, di fatto, in due Stati separati e ostili. Anche nelle province transalpine, la politica di restaurazione dell'autorità imperiale perseguita da Antemio era andata incontro a gravi rovesci, indebolendo la posizione dell'Augusto. A Tolosa, il re Teodorico era perito, assassinato dal fratello Eurico, che si era impadronito del trono (466), ripigliando l'antica politica antiromana e di espansione del suo popolo, ai danni delle vicine province della Gallia ancora sottoposte alla sovranità imperiale. Antemio aveva cercato di contenerne la pressione e, mentre suo figlio Ecdicio animava la resistenza della Civitas Arvernorum (Clermont-Ferrand) assediata, l'imperatore aveva assoldato un corpo di 12.000 mercenari bretoni, che, sotto la guida del loro re Riotamo, avevano occupato Bourges, minacciando i Visigoti alle spalle. Ma Eurico disfece i Bretoni in una grande battaglia; i Burgundi, benché alleati di Roma, non si mossero; e a stento il comes Paolo, con le poche truppe romane e con i foederati franchi, riusciva ad impedire ai Visigoti di attraversare la Loira. Sbarrata la strada del settentrione, Eurico tornò a invadere l'Alvernia, e qui dovette affrontare, più che l'esercito romano ormai evanescente, i coraggiosi abitanti di quella regione, che gli opposero una strenua resistenza. Benchè stremati dalla carestia e dalla pestilenza, i provinciali si batterono con indomito valore, animati dall'esempio del nuovo vescovo di Clermont: quel Sidonio Apollinare che, come sembra, valeva di più come pastore del suo gregge nei momenti difficili, che come poeta di corte per tutte le stagioni. Respinti, per il momento, dalla capitale dell'Alvernia, i Visogoti si rifecero tutttavia devastando spietatamente la valle del Rodano, e pemetrando fin nella Provenza. Una eloquente testimonianza dello sfacelo dell'autorità romana in Gallia è data dal processo, intentato a Roma, dai nobili provinciali contro il prefetto del pretorio Arvando, responsabile non solo di abusi nel governo e di aver oppresso il paese, ma anche di alto tradimento nei confronti dello Stato. Gli accusatori di Arvando, infatti, furono addirittura in gradi di esibire una lettera da lui diretta al re dei Visigoti, in cui l'indegno prefetto cercava di distoglierlo dai propositi di pace con "l'imperatore  greco" (cioè Antemio), lo esortava ad attaccare i Bretoni e suggeriva una spartizione del paese fra Goti e Burgundi. Pareva una replica, a quattro secoli di distanza, del celeberrimo processo contro Verre, solo che qui le colpe dell'imputato erano ancora più inescusabili, anche se mancava un oratore della forza di Cicerone per inchiodarlo alle sue responsabilità. Riunitosi una delle ultime volte per giudicare una causa riguardante la Gallia, il Senato di Roma emise una sentenza capitale che fu, all'ultimo istante, commutata nella confisca dei beni e nell'esilio. La piaga era però talmente diffusa, che subito dopo i padri coscritti dovettero condannare a morte lo stesso successore di Arvando, Seronato, colpevole di aver stretto accordi coi Visigoti per consegnar loro l'Alvernia, che ancora coraggiosamente si difendeva con le sue sole forze. In Italia, intanto, la tensione fra Antemio e Ricimero si avvicinava al punto di rottura. Ricimero, impotente a difendere le coste della Pensila dalle devastazioni dei Vandali, stava giungendo a un accordo con Geserico, rassegnandosi ad accettare il suo candidato quale futuro sovrano dell'Occidente. La mediazione svolta fra Roma e Milano dal vescovo di Pavia, Epifanio, per iniziativa della nobiltà ligure, fallì; e mentre Ricimero, alla testa del suo esercito, marciava sull'Urbe, giungeva in Italia Olibrio, il marito di Placidia, candidato del re dei Vandali. Occupati i due quartieri di Trastevere, il Vaticano e il Gianicolo, il patrizio pose l'assedio a Roma, ove Antemio resistette con le sue scarse forze e per tre mesi: tre mesi interminabili per la città. Straziata dalla fame e dalla peste. Il re ostrogoto Videmiro, accorso in aiuto del legittimo imperatore, venne sconfitto e ucciso sotto le mura della città; indi le truppe germaniche di Ricimero presero d'assalto la Porta Aureliana e irruppero nell'Urbe incendiando e massacrando (11 luglio 472): era la terza volta in sessantadue anni. Antemio, scoperto mentre cercava di mescolarsi alla folla dei mendicanti davanti alla chiesa di San Crisogono in Trastevere, fu subito ucciso e Olibrio, che fin dall'aprile era stato proclamato imperatore da Ricimero, non esitò ad insediarsi sul trono insanguinato. Questa fu certo un'amara delusione per il sovrano di Costantinopoli, Leone, che probabilmente lo aveva mandato in Italia per rafforzare la posizione del legittimo Augusto, e che vide così malamente tradita la fiducia in lui riposta. In realtà, era da moltissimo tempo che Olibrio, in quanto marito della figlia di Valentiniano III, aspirava a cingersi delle insegne imperiali della pars Occidentis, cui  riteneva di aver diritto, e alle quali aveva continuare a pensare sia in Africa, quando era stato ospite prigioniero di Genserico, sia a Costantinopoli. Non voleva capire che mai il protetto del re dei Vandali avrebbe potuto essere accettato dai Romani, né riconosciuto dal governo orientale.

4. OLIBRIO, GLICERIO, GIULIO NEPOTE, ROMOLO AUGUSTO

Il regno di Olibrio fu brevissimo: Roma era devastata dalla peste, e di peste Olibrio moriva meno di quattro mesi dopo (23 ottobre o 2 novembre: ci son giunte due date possibili). Con lui scendeva nella romba l'ultimo, esilissimo elemento di continuità del ramo occidentale della dinastia teodosiana, sebbene, attraverso sua figlia, i discendenti di Teodosio il Grande sopravvivessero a Costantinopoli per altre otto generazioni. Prima di lui era morto il suo creatore, il patrizio Ricimero 819 agosto), formidabile facitore e disfacitore d'imperatori, che - elevando al trono un Augusto dopo l'altro, e sbarazzandosene successivamente - aveva contribuito in misura determinante all'estinzione dell'Impero d'Occidente. Da questo momento in avanti, il processo di dissoluzione si fa ancora più rapido: l'impossibilità di instaurare una stabile dinastia imperiale fa sì che gli ultimi fantasmi d'imperatori siano espressione d'interessi sempre più ristretti, e sempre più incapaci di assumere il controllo della situazione. Dopo la morte di Ricimero, Olibrio aveva nominato patricius il nipote di lui, il burgundo Gundobad, morto anche Olibrio, Gundobad seguì l'esempio dello zio, e anziché assumere egli stesso la porpora, la fece indossare al comes domesticorum Glicerio (5 marzo 473), un uomo piuttosto oscuro, senza dubbio pensando di utilizzarlo come un docile fantoccio, sull'esempio di Ricimero con Libio Severo. Ma da Costantinopoli non venne alcun riconoscimento, anzi Leone, che il 1° giugno aveva scritto al nipote di Marcellino, Giulio Nepote, quale magister militum Dalmatiae, s'indusse poi a riconoscere questi Augusto dell'Occidente sotto le pressioni dell'imperatrice Verina. Giulio Nepote aveva sposato una delle nipoti di Verina, mentre dallo zio Marcellino aveva ereditato un solido potere personale dalla Dalmazia. Adesso egli ottenne da Leone l'autorizzazione a marciare sull'Italia per spodestare Glicerio e assumere l'impero dell'Occidente. Nel frattempo Glicerio era rimasto abbandonato a sé stesso perché Gundobad aveva lasciato l'Italia per andare ad assumere nel proprio paese il trono dei Burgundi, rimasto da poco vacante per la morte di suo padre. Così, quando Nepote sbarcò a Ravenna alla testa di un proprio esercito, non gli rimase altra via di scampo che la fuga (giugno 474). Ma a Portus, presso la foce del Tevere, egli venne catturato e la generosità del suo avversario gli concesse di sostituire la porpora con il pastorale, e lo
ordinò vescovo di Salona in Dalmazia ( 19 o 24 giugno), seguendo l'esempio di Ricimero con Avito diciotto anni prima. Ma nemmeno questa volta giunse da Costantinopoli un riconoscimento ufficiale. Leone era morto il 18 gennaio 474, e senza attendere la decisione del suo successore (e nipote) Leone II, il nuovo sovrano occidentale assunse ufficialmente il diadema (24 giugno 474). Anche il suo regno fu però di brevissima durata e, se vide un parziale successo dei Romani in Gallia con la riconquista di Arles e Marsiglia, la pace stipulata con Eurico attraverso il vescovo di Pavia, Epifanio, sanzionò la cessione dell'Alvernia ai Visigoti, con la città di Clermont-Ferrand. Ormai i Visigoti erano padroni non soltanto di tutta la Spagna tranne la Galizia (ove di nuovo avevano ricacciato gli svevi), ma di tutta la Gallia sud-occidentale fino alla Loira e al Rodano, mentre i Franchi e i Burgundi rafforzavano le loro conquiste nel centro e nel settentrione del Paese. Giulio Nepote aveva nominato patricius un romano della Pannonia, Oreste, lo stesso che era stato segretario di Attila al tempo di Teodosio II, e a lui diede ordine di ricondurre oltre le Alpi il numeroso esercito d'Italia composto da foederati Eruli, Sciri, Rugi e Turcilingi (i reggimenti romani si erano praticamente dissolti), probabilmente con l'intenzione di scioglierlo e rimandare i vari gruppi germanici nei Paesi di provenienza. Ma nell'ultimo esercito barbarico d'Italia, che rifiutava di sciogliersi, scoppiò una sedizione: le truppe marciarono su Ravenna sotto la guida dello stesso Oreste, e Nepote abbandonò la partita, fuggendo per mare nella sua Dalmazia (28 agosto 475). Le truppe barbariche offrirono al loro comandante la corona di re d'Italia, ma 
Oreste per qualche ragione preferì invece rivestire della porpora e del diadema il suo figlioletto Romolo, scherzosamente chiamato Augustolo dai soldati per la sua giovane età (31 ottobre). Ma ormai la situazione stava precipitando: l'Impero d'Occidente, praticamente ridotto entro gli angusti confini della Penisola, non era più in grado di stipendiare regolarmente, in denaro o in natura, come si era sempre fatto, un esercito sproporzionato alle sue necessità, e che tuttavia non voleva essere sciolto. Allora le truppe barbariche chiesero a Oreste che fosse permesso loro d'insediarsi su un terzo delle terre italiche, secondo il regime della hospitalitas. Acconsentire a ciò avrebbe significato sanzionare lo stanziamento definitivo di una massa di barbari armati in Italia, come era già avvenuto coi visigoti in Gallia, con la sola differenza che queste truppe non avevano alcuna unità etnica o politica. Oreste, che era pur sempre un Romano, rifiutò, anche per non mettersi in condizione di dover governare sotto l'eterno ricatto della forza militare: voleva essere un novello Ricimero, e non ricoprire il debole ruolo di Giulio Nepote, che lui stesso aveva spodestato. Allora l'esercito gli si ribellò ed elesse proprio re un ufficiale di nome Odoacre, forse scita e figlio di quell'Edeco che era stato ambasciatore di Attila alla corte di Costantinopoli (23 agosto 476). Oreste non fuggì subito, come il suo predecessore, ma tentò di organizzare una resistenza, Fu tutto inutile: assediato in Pavia, venne catturato e la città saccheggiata spietatamente; indi fu condotto a Piacenza e decapitato (28 agosto). Anche suo fratello Paolo, che aveva cercato di guidare una riscossa, venne sconfitto nei pressi di Ravenna, e rimase ucciso sul campo (4 settembre). Tutto si era svolto con tale rapidità, che nel giro di pochi giorni il destino dell'Italia e dell'Impero si era compiuto, e tutto era finito prima ancora che il Senato di Roma o la corte d'Oriente avessero potuto rendersene conto. Odoacre fu relativamente generoso, o piuttosto volle tenere un basso profilo diplomatico per non esasperare possibili reazioni sia interne che esterne: era un capo abile e prudente, e alla forza bruta preferiva le arti della politica. Al piccolo Romolo Augusto, l'ultima larva di sovrano dell'occidente, risparmiò la vita: si limitò a farlo abdicare e, poi, a relegarlo con la sua famiglia in una villa di Lucullo in Campania, presso Napoli, con una pensione annua di 6.000 solidi. Quindi non volle assumere a sua volta la porpora, e compì un gesto da molti studiosi moderni giudicato sensazionale, ma in realtà abbastanza logico e naturale: rimandò a Costantinopoli le insegne imperiali e chiese per sé il titilo di patricius e, di fatto, l'amministrazione dell'Italia. Sul trono d'Oriente il piccolo Leone II era morto fin dall'autunno del 474 e, da allora, governava il solo Zenone, un Isauro scarsamente interessato alle faccende dell'Occidente. 
Egli accolse con ambiguità l'ambasceria inviatagli da Odoacre, la quale affermava che un solo imperatore sarebbe bastato, d'ora in poi, all'Oriente e all'Occidente. Zenone non confermò a Odoacre il titolo di patrizio, e rispose anzi che il legittimo imperatore di Ravenna era pur sempre Giulio Nepote. Questi si trovava tuttora in Dalmazia, e proprio in quei giorni gli aveva lui pure inviato un'ambasceria, chiedendo aiuti per rientrare in Italia e riprendere possesso del trono imperiale. Zenone non si compromise con la richiesta di Giulio Nepote, e quanto agli ambasciatori di Odoacre accettò gli ornamenta palatii, assumendo così, teoricamente, la funzione di sovrano unico di tutto l'Impero Romano ma, in pratica, riconoscendo tacitamente il fatto compiuto in Occidente - almeno per il momento. In ogni caso, nel rivolgersi a Odoacre per via epistolare lo gratificò del titolo di patricius, accogliendo così, in pratica, la sua principale richiesta, che legalizzava in qualche modo la sua posizione nei confronti del Senato romano e delle popolazioni italiche.
Ritornati a Ravenna i suoi ambasciatori, Odoacre si accontentò del mezzo riconoscimento strappato a Zenone, che lo qualificava in pratica governatore di una provincia dell'Occidente, l'ultima rimasta, in nome e per conto della suprema autorità di Costantinopoli. Si limitò ad aggiungere al titolo di patricius, nei confronti di Zenone, quello di rex nei confronti della massa eterogenea di barbari, che lo aveva spinto al potere. Non rex di un popolo, perché non era capo di un popolo ma di un esercito composito, e tanto meno rex dell'Italia, che non era divenuta un regno autonomo (almeno de iure), ma continuava a rimanere una provincia dell'Impero Romano, la cui capitale unica era, adesso, Costantinopoli. La posizione giuridica di Odoacre era complicata dal fatto che, in Dalmazia, il penultimo sovrano dell'Occidente - da lui spodestato - era ancor vivo e vegeto, e continuò a rivendicare fino all'ultimo i suoi diritti imperiali. Giulio Nepote visse ancora quattro anni, ma non potè mai organizzare una spedizione contro l'Italia per riprendersi il trono. Dovette anzi guardarsi le spalle dal vescovo Glicerio, l'imperatore che, a sua volta, aveva spodestato nel giugno del 474: incredibile a dirsi, pare che costui continuasse a tramare nell'ombra contro Nepote, magari sognando anche lui di poter rientrare in Italia e far valere i suoi diritti. Si stenta a credere che quell'ombra di sovranità imperiale continuasse a venir bramata ardentemente, persino dopo che si era estinta senza alcuna speranza di ripresa. Alla fine Giulio Nepote fece uccidere Glicerio, ma solo per cadere a sua volta assassinato da due suoi conti (480). Con lui si estingueva, e per sempre, l'ultima teorica vestigia di sovranità dell'Impero di Occidente. Nella Gallia settentrionale, circondato da Visigoti, Burgundi, Alamanni, Franchi e Celti dell'Armorica rimase ancora un relitto isolato di territorio romano sotto il generale Siagrio, che sopravvisse altri dieci anni prima di venir conquistato dal re franco Clodoveo (486). Ma, di fatto, l'Impero di Occidente si era estinto con la deposizione di Romolo Augusto. Se il 476 fu davvero una data decisiva nella storia dell'umanità, è una questione che rimane aperta fra gli studiosi. Su un punto, comunque, sembra esservi accordo: quella del 476 fu, per usare le parole di uno studioso italiano, "la caduta di un Impero senza far rumore".

Articolo di Luigi Caliendo. Tutti i diritti riservati

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