L’uso di seppellire i morti dentro un telo di lino era comune nel Medio Oriente e nella società in cui visse Gesù. Le fonti che ci permettono di conoscere gli usi ebraici durante il tempo della dominazione romana, specie i due trattati chiamati Mishna e Tosefta, descrivono vari tipi di lenzuola funebri. Anche il rito di sepoltura di un condannato a morte, come lo fu Gesù, aveva le sue particolarità: il corpo del condannato doveva essere avvolto nel lenzuolo funebre nudo, come un atto di oltraggio per punire chi non aveva rispettato la Legge. Nel caso di Gesù Nazareno, i lini della sepoltura avevano rivestito un ruolo molto più importante e anormale del solito: infatti secondo i discepoli erano tutto ciò che restava di quel corpo, quando la madre di Gesù con altre donne si erano recate presso la tomba per completare il rito della sepoltura. Dei quattro vangeli, quello di Giovanni è il più ricco di dettagli materiali sullo spettacolo apparso a chi va a vedere quella tomba misteriosamente vuota: il motivo di questa speciale attenzione ai lini funerari di Gesù per ora non si conosce, ma deriva senz’altro da una ragione precisa che sarebbe interessante capire. Secondo il quarto vangelo:
Partì dunque Pietro e anche l’altro discepolo e si avviarono verso il sepolcro. Correvano ambedue insieme, ma l’altro discepolo precedette Pietro nella corsa e arrivò primo al sepolcro. Chinatosi, vide le bende che giacevano distese; tuttavia non entrò. Arrivò poi anche Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro: vide le bende che giacevano distese e il sudario che era sopra il capo; esso non stava assieme alle bende, ma a parte, ripiegato in un angolo. Allora entrò anche l’altro discepolo che era arrivato per primo al sepolcro, vide e credette. Non avevano infatti ancora capito la Scrittura: che egli doveva resuscitare dai morti. I discepoli poi ritornarono a casa.
Il vangelo di Giovanni usa una parola generica e al plurale (othònia), per indicare i lini funebri, mentre gli altri tre vangeli hanno il termine anch’esso generico sindòn, che indicava un lino pregiato di pezzatura variabile; ma la cosa più notevole del quarto vangelo è il modo in cui questi lini funebri furono ritrovati, cioè ancora avvolti come sopra il corpo però afflosciati: il verbo greco che lui usa, entulìsso, indicava nella lingua del tempo anche un viluppo di coperte rimasto svuotato sul letto dopo che l’occupante si era alzato. Nessuno dei vangeli parla di immagini rimaste impresse sui lini sepolcrali di Gesù, e non ci sono prove che il misterioso telo di Anablatha fosse proprio la sindone oggi custodita a Torino; nondimento, questa testimonianza è ugualmente interessante: infatti l’oggetto sembrerebbe proprio una copia della sindone, o almeno una ricostruzione di come si supponeva essere il telo funebre di Gesù ritrovato dalle donne dentro il sepolcro vuoto. Una ricostruzione che ne portava sopra l’immagine. Più tardi il vescovo Arculfo, sceso pellegrino in Terrasanta nell’anno 670, vide a Gerusalemme una ricostruzione del sudario di Cristo che era stata decorata a ricamo. Della sindone di Gesù del resto si parlava anche in vari vangeli apocrifi, scritti che non avevano un valore sacro ma venivano comunque apprezzati dai cristiani perchè rappresentavano leggende religiose, dove verità e fantasia si mischiavano insieme un po’ come sarebbe in un romanzo storico. Secondo il testo detto Vangelo degli Ebrei, scritto in Palestina verso l’anno 150, Gesù risorto aveva affidato la sindone a un servo del sommo sacerdote; un altro scritto risalente nel suo nucleo antico al IV secolo, la Vita di santa Nino, indica la prima custode della sindone in Claudia Procula, la moglie di Ponzio Pilato che era rimasta molto toccata dalla morte di Gesù.
Articolo a cura della dott. Barbara Frale
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