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giovedì 10 aprile 2014

LA CHIESA CONTRO I RITRATTI

File:Irenekirken.jpgLe alte sfere della Chiesa antica ritenevano che la pratica di fare immagini sacre fosse sbagliata, rischiosa, insomma da condannare. Clemente Alessandrino, un grande studioso cristiano vissuto in Egitto tra fine II e inizi del III secolo, ammoniva i fedeli in questo modo:

L’arte vi inganna e vi ammalia...inducendovi se non ad amare, perlomeno a onorare e venerare statue e pitture. Il dipinto è somigliante: ebbene, se ne lodi l’arte, ma l’immagine non inganni l’uomo mostrandosi come verità.

Il punto focale del ragionamento di Clemente era la Sacra Scrittura, di cui lui era un profondo conoscitore. Nel libro del Deuteronomio (4,12) infatti si legge:

Il Signore vi parlò dal fuoco; voi udiste il suono delle parole ma non vedeste alcuna figura; c’era soltanto un suono. E poi anche (4,15):  State bene in guardia per la vostra vita, perchë non vi corrompiate e non vi facciate la figura scolpita di qualche idolo –qualunque immagine!-, la figura di maschio o femmina, la figura di qualunque animale che è sulla terra, la figura di ogni uccello che vola nel cielo, la figura di ogni rettile che striscia sul suolo, la figura di ogni pesce che vive nelle acque sotto la terra; perché alzando gli occhi al cielo e vedendo il sole, la luna, le stelle, tutte le schiere del cielo, tu non sia tratto in inganno prostrandoti e adorando quelle cose.

Quindi raccomandava ai cristiani:

I nostri sigilli siano una colomba o un pesce o una nave spinta dal vento o una lira musicale, come nel sigillo di Policrate, o un’ancora marittima, come la portava incisa Seleuco, e se uno è pescatore si ricorderà dell’apostolo e dei fanciulli tratti dall’acqua.

Verso l’anno 306, la Chiesa aveva reso ufficiale questo divieto durante un concilio tenuto in Spagna, nella città di Elvira. Il canone 36 del concilio recitava:

Ci è piaciuto deliberare che in chiesa non debbono esservi pitture e che quanto è venerato e adorato non deve essere dipinto sui muri.

La durezza di quanto stabilito nel Concilio di Elvira si spiega anche alla luce di un’altra verità: il culto dell’imperatore, che dal tempo di Diocleziano (284-305) doveva essere adorato dai sudditi come un dio, si svolgeva proprio attraverso la venerazione pubblica di una sua immagine. Si trattava di una cerimonia molto solenne, che nasceva come un atto politico ma assumeva poi il valore di un vero rito religioso. 
Nelle città troneggiavano statue degli imperatori che ricevevano l’omaggio dei sudditi, e anche nelle aule dei tribunali c’erano ritratti i quali indicavano che l’autorità del sovrano era materialmente presente in quel posto dove si amministrava la giustizia. Nel momento in cui un nuovo imperatore saliva al trono, il suo ritratto veniva esposto in pubblico dove riceveva una venerazione solenne da parte del popolo, durante una cerimonia ufficiale: era un modo attraverso il quale il popolo manifestava che lo riconosceva come suo signore e dio, proprio come aveva voluto Diocleziano che si era proclamato dominus et deus. Il ritratto veniva poi inviato anche nelle province dove riceveva lo stesso culto, a dire che l’imperatore raggiungeva anche l’ultimo dei suoi sudditi. La popolazione si prosternava dinanzi al ritratto proprio come se fosse stata in presenza dell’imperatore stesso; la persona vivente e il suo ritratto ufficiale erano considerati nel culto come la stessa cosa. Il ritratto imperiale era poi usato nelle insegne militari dove aveva un doppio valore: indicava l’alto rango del dignitario che aveva il diritto di portarlo, ma allo stesso tempo era anche una specie di talismano che invocava sull’uomo e sulla truppa la protezione del divino monarca. Quando i cristiani venivano catturati e messi sotto processo, si cercava di farli abiurare costringendoli a rendere omaggio a questi ritratti dell’imperatore: se lo facevano, venivano lasciati liberi perché evidentemente avevano accettato il culto della persona imperiale come uomo divinizzato. Questo ovviamente significava rinunciare al cristianesimo, ed era appunto il motivo per cui li si lasciava andare. Per i cristiani rendere omaggio al ritratto dell’imperatore significava non solo cadere nell’idolatria, ma anche voltare le spalle al Cristo e alla loro religione che ammetteva l’esistenza di un solo Dio. Naturalmente, gli intellettuali come Clemente Alessandrino vedevano con il fumo negli occhi la pratica di venerare un ritratto di Gesù: il culto somigliava troppo da vicino alla pratica simile che facevano i pagani idolatri con il ritratto dell’imperatore.

Articolo per gentile concessione della dott.ssa Barbara Frale


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