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domenica 12 maggio 2013

I RACCONTI DI CANTERBURY - FRAMMENTO 5 - IL RACCONTO DELL'ALLODIERE

Ai tempi loro, gli antichi e nobili bretoni componevano su varie avventure dei "lai", rimandoli nella loro lingua bretone primitiva, e cantavano questi "lai" accompagnandosi coi loro strumenti, oppure per passatempo li leggevano: io ne ho in mente uno, che ora con tutta la buona volontà racconterò a voi... Però, signori, siccome sono un uomo alla buona, vi prego subito fin da principio di scusarmi se parlo in modo grossolano. Non ho mai studiato retorica, questo è certo; quel che dico dev'essere semplice e piano. Non ho mai dormito sul monte del Parnaso, né imparato Marco Tullio Sciterone. Di colori poi non me ne intendo affatto, tranne di quei colori che crescono sul prato, ovvero di quelli con cui si tinge e si pittura. I colori della retorica per me sono strambi; è roba per cui il mio spirito non sente nulla. Ma, se vi fa piacere, state a sentire il mio racconto.

RACCONTO DELL'ALLODIERE

Qui comincia il Racconto dell'Allodiere.

Nell'Armorica che sì chiama ora Bretagna, c'era una volta un cavaliere che amava una dama e si dava pena di fare del suo meglio per servirla, affrontando per questa sua dama molte fatiche e molte grandi imprese, nella speranza di poterla conquistare. Lei infatti, oltre ad essere la più bella ch'esistesse sotto il sole, discendeva da così nobile stirpe, che questo cavaliere, per timore, non osava confessarle il suo spasimo, la sua pena e il suo tormento.
Ma alla fine, per via dei meriti che lui seppe acquistarsi, soprattutto con la sua umile obbedienza, lei fu presa da tale pietà per il suo soffrire, che acconsentì a prenderlo per marito e suo signore, promettendogli in segreto quell'autorità che gli uomini hanno sulle loro mogli.
Lui allora, affinché la loro vita trascorresse ancor più lietamente, di sua libera volontà le giurò, da vero cavaliere, che mai in vita sua, né di giorno né di notte, le avrebbe imposto i suoi diritti di marito, né le avrebbe dimostrato gelosia, ma l'avrebbe obbedita seguendo in tutto il suo volere, come ogni amante deve fare con la sua dama; soltanto di nome avrebbe preteso autorità, semplicemente per non smentire il proprio grado.
Lei lo ringraziò e con grandissima umiltà gli disse: «Messere, giacché per vostra nobiltà d'animo mi concedete così libero comando, Dio non voglia che, per mia colpa, possa mai esserci discordia o contrasto fra noi due. Messere, io sarò la vostra umile e fedele moglie finché avrà battiti il mio cuore, ve lo prometto sinceramente».
E fu così che tutt'e due in pace si misero d'accordo...
Una cosa, infatti, signori miei, posso dire con certezza: che fra amici bisogna ubbidirsi a vicenda, se si vuole a lungo rimanere insieme. L'amore non vuol essere costretto alla forza. Appena interviene la forza, ecco che il dio dell'amore batte le ali e, addio, se ne va! L'amore è qualcosa di libero, come uno spirito. Le donne, per natura, desiderano la libertà, e non essere vincolate come schiave; e così gli uomini, a dir proprio il vero... Guardate in amore chi è più paziente: quello ha i vantaggi maggiori. Somma virtù è infatti la pazienza, perché, come dicono i dotti, essa ottiene cose che l'intolleranza non otterrebbe mai. Non si può aggredire e lagnarsi a ogni parola... Imparate a sopportare, altrimenti, vi assicuro, dovrete poi impararlo anche contro voglia: perché non c'è nessuno, a questo mondo, che non faccia o non dica qualcosa di sbagliato. La rabbia, i malanni, le costellazioni, il vino, il dispiacere o i cambiamenti d'umore ci fanno molto spesso agire o parlare a sproposito. Non si può vendicare ogni torto. Chi vuol comandare, deve sapersi moderare secondo le circostanze. Ecco perché quel saggio e valente cavaliere, per vivere in pace, le promise d'esser paziente, e lei molto saggiamente s'impegnò a non farsi mai trovare in fallo. È chiaro che quello fu un accordo d'umiltà e di buon senso, mediante il quale lei ebbe in lui il suo servo e il suo signore: servo in amore e signore nel matrimonio; e lui si trovò a un tempo in signoria e in servitù... servitù? no davvero, ma in suprema signoria, perché la sua signora era anche il suo amore; sua signora, certo, ma anche sua moglie, secondo quanto consente la legge sull'amore.
Trovandosi dunque in questa fortunata condizione, egli se ne tornò con sua moglie al suo paese, non lontano da Penmarch, dov'era la sua casa, e là visse felice e contento... Chi potrebbe mai dire, se non chi è ammogliato, la gioia, l'agevolezza e la felicità che un marito gode insieme con sua moglie? Un anno e più durò questa beata vita, finché il cavaliere di cui parlo, che si chiamava Arvirago di Kayrrud, decise di trasferirsi per un anno o due in Inghilterra, detta allora Britannia, per cercare nelle armi gloria e onore, giacché in tali fatiche appunto egli riponeva ogni sua aspirazione. E vi rimase per due anni, questo almeno è quanto sta scritto...
Ma lasciamo per ora questo Arvirago e parliamo invece di sua moglie, Dorigene, che amava il marito come la vita stessa del suo cuore. Mentre lui era assente, lei piangeva e sospirava, come sanno fare queste nobili mogli quando vogliono... Piangeva, non dormiva, gemeva, non mangiava e si lamentava sempre; aveva tanta voglia di rivederlo, che non le importava più nulla del mondo intero! Gli amici, comprendendo i suoi tristi pensieri, cercavano di confortarla come meglio potevano; la esortavano, le ripetevano notte e giorno che lei, ahimè, si struggeva senza ragione; le porgevano, insomma, tutti i conforti del caso, per distoglierla dalla sua pena.
A poco a poco, come sapete, a forza di battere, anche una pietra si lascia plasmare... Così essi tanto batterono con i loro incoraggiamenti, che alla fine, spinta dalla speranza e dalla ragione, lei si lasciò plasmare dal loro conforto, e il suo gran dolore incominciò a calmarsi. Non poteva continuare sempre in quella disperazione!... Arvirago poi, in quel frattempo, qualche lettera a casa gliela mandava, dicendo che stava bene e che presto sarebbe ritornato: se non fosse stato per questo, il dolore le avrebbe certo spezzato il cuore... Quando videro ch'era meno disperata, gli amici incominciarono a pregarla in ginocchio d'andare, per amor di Dio, a fare qualche passeggiata con loro per cacciare i suoi oscuri timori. E finalmente cedette a questa richiesta, rendendosi conto ch'era per il meglio.
Ora il suo castello sorgeva vicino al mare, e spesso lei, per distrarsi, andava con gli amici a passeggiare sul ciglio delle rupi, e di lassù vedeva far vela molte navi e imbarcazioni, che partivano seguendo ciascuna la propria rotta... Ma poi anche questo diventò per lei motivo di dolore: 'Ahimè!' spesso fra sé diceva 'fra tante navi che vedo, non ce n'è una che porti a casa il mio signore? Soltanto allora il mio cuore guarirebbe di tutte le sue amare pene...'.
A volte, sedendosi a pensare, si chinava a guardare l'orlo delle rupi. Ma quando scorgeva le orrende rocce nere, le tremava talmente il cuore di paura, che lei non aveva più la forza di reggersi. Allora s'abbatteva sopra il verde e, guardando tristemente il mare, così diceva con gelidi sospiri di sconforto:
«Eterno Iddio, che con la tua provvidenza reggi il mondo e lo governi, si dice che tu non abbia creato nulla invano... perché invece hai prodotto un'opera senza ragione come queste orribili infernali rocce nere, le quali sembrano più il risultato d'uno spaventoso pandemonio che la bella creazione d'un Dio così perfetto, saggio ed equilibrato? Non c'è infatti a sud, a nord, a ponente o a levante, nessun uomo, uccello o altro animale, che da quest'opera tragga vantaggio: essa non serve a nessuno, ch'io sappia, anzi è causa di sventura. Non vedi, Signore, quanta gente ne viene sterminata? Centomila esseri umani sono morti fra quegli scogli, anche se ora nessuno più se ne ricorda, esseri umani che formano la miglior parte della tua creazione e che tu facesti a tua immagine e somiglianza... Sembrò allora che tu provassi grande amore per il genere umano... ma perché tu poi creasti questi mezzi di distruzione, questi mezzi che non recano alcun bene, ma soltanto male? I dotti coi loro argomenti possono sostenere come vogliono che tutto è per il meglio in questo mondo, io però non comprendo come... Ma quel Dio che fece i venti perché soffiassero, protegga ora il signor mio! Questo soltanto in fondo io chiedo. Si tengano i dotti le loro dispute, ma Dio voglia che tutte queste nere rocce sprofondino per amor suo nell'inferno! Esse mi fanno morire il cuore di paura...» Così diceva con molte pietose lacrime.
Gli amici, vedendo che quelle passeggiate lungo il mare non erano per lei uno svago, ma un tormento, pensarono di portarla a distrarsi in qualche altro posto. La condussero presso fiumi e sorgenti e altri incantevoli luoghi; e danzarono e giocarono a scacchi e a dama.
Così un giorno, di buon mattino, andarono in un giardino dei dintorni, dove avevano fatto preparare cibi e provviste d'ogni sorta, per rimanervi a ricrearsi fino alla sera. Era il sesto mattino di maggio, e maggio con le sue lievi piogge aveva dipinto tutto il giardino di foglie e fiori, e la mano maestra dell'uomo l'aveva adornato così splendidamente, che non vi fu mai di sicuro un altro giardino di tanto pregio, all'infuori dello stesso paradiso. Il profumo e la fresca visione dei fiori avrebbero rallegrato qualsiasi cuore al mondo, che non fosse oppresso da qualche grave malattia o da qualche grave dispiacere, tanto quel giardino era pieno di bellezza e d'ogni grazia... Dopo il pranzo quelli incominciarono a ballare e a cantare, tutti all'infuori di Dorigene, che invece si tormentava e si crucciava, perché fra coloro che danzavano non vedeva il suo sposo e il suo amore. Ma una buona volta doveva pur aver tregua anche lei, e lasciar correre il dolore alla speranza!...
Durante il ballo, fra gli altri, s'era messo a danzare proprio di fronte a Dorigene uno scudiero, che, a parer mio, d'aspetto era più gaio e fresco del mese di maggio. Egli cantava e ballava meglio di chiunque fosse mai vissuto al mondo. Ed era veramente, a doverlo descrivere, uno degli uomini più attraenti che fossero mai esistiti: giovane, forte, virtuosissimo, ricco, saggio, ben voluto e tenuto di gran conto... Insomma, per dirvi proprio come stavano le cose, senza che Dorigene se ne fosse mai accorta, questo piacente scudiero, servo di Venere, che si chiamava Aurelio, da più di due anni (guarda il destino!) l'amava sopra ogni altra creatura al mondo, ma non aveva mai osato confessarle il suo tormento, inghiottendosi così tutta quanta la sua pena. Pur nella sua disperazione, non aveva mai avuto il coraggio di parlare di nulla: soltanto nei suoi canti aveva talvolta dato sfogo al suo dolore, in un generico compianto, dicendo d'amare senza essere riamato; anzi, su questo tema aveva composto "lai", canzoni, lamenti, rondelli e ballate, in cui diceva come non osasse dichiarare il suo tormento, ma soffrisse le furiose pene di un'anima all'inferno, costretto ormai a far la fine di Eco che morì per Narciso, senza riuscire a confessargli le proprie sofferenze. Diversamente, con lei non s'era mai arrischiato ad accennare alla propria passione, eccetto talvolta ai balli, quando i giovani si danno alle galanterie: può darsi benissimo che in simili occasioni lui l'avesse fissata negli occhi come qualcuno che chiede una grazia, ma lei non s'era mai resa conto delle sue intenzioni.
Questa volta però, prima che la festa fosse terminata, trovandosi tutt'e due vicino, e lei conoscendolo ormai da anni come uomo di merito e d'onore, accadde che si mettessero a conversare. E così avvicinandosi sempre più al suo scopo, appena il momento gli parve opportuno, Aurelio le disse: «Madonna, io vi giuro, per quel Dio che ha creato il mondo, che se avessi saputo di far contento il vostro cuore, il giorno in cui il vostro Arvirago se ne partì oltremare, io, Aurelio, me ne sarei andato senza mai più tornare indietro. Capisco infatti che tutta la mia devozione per voi è inutile; non mi rimane altro compenso che lo strazio del mio cuore... Signora, abbiate pietà delle mie atroci pene: con una parola voi potete uccidermi o salvarmi! Non posso dirvi di più per ora... Ma abbiate pietà, dolce signora, o mi farete morire!».
Lei guardò stupita Aurelio: «È questo che volete ...» disse «e me lo dichiarate in questo modo? In passato non avevo mai capito le vostre intenzioni, ma ora, Aurelio, so qual è il vostro scopo. Ebbene, per quel Dio che m'ha dato l'anima e la vita, non sarò mai una moglie infedele, mai, finché mi rimarrà la ragione! Sarò sempre di colui al quale mi son legata: questa è la mia ultima risposta».
Ma poi, quasi per gioco, così seguitò: «Aurelio, via, mi fa pena vedervi afflitto in quel modo... Ebbene, per il sommo Dio del cielo, vi prometto che sarò il vostro amore il giorno che farete sparire da cima a fondo della Bretagna, pietra per pietra, tutte le rocce che impediscono alle navi e ai bastimenti di navigare! Vi assicuro infatti che se ripulirete la costa di tutti gli scogli in modo che non si veda più neppure un sasso, allora v'amerò più di qualsiasi altro uomo al mondo, vi do la mia parola!».
«Non mi concedete proprio nessun'altra grazia?» fece lui.
«Nessun'altra» disse lei «lo giuro su Dio che mi ha creato! So bene infatti che questo non accadrà mai. Toglietevi dal cuore simili follie. Che soddisfazione può avere in vita sua un uomo ad amare la moglie d'un altro, il quale può possederla quando vuole?»
L'infelice Aurelio sentendo questo, sospirò più volte penosamente e col dolore nel cuore rispose: «Certo, madonna, questo è impossibile! A me non rimane dunque che morire subito di morte orrenda...». E così dicendo, se ne andò via immediatamente.
A lei intanto s'unirono diversi altri amici, e insieme passeggiarono su e giù per i viali, senza che alcuno s'accorgesse di quant'era accaduto, e presto incominciarono nuovi divertimenti fin quando il sole non perse il suo colore. L'orizzonte infatti gli aveva portato via la luce (il che equivale a dire ch'era notte!), e allora tutti se ne tornarono a casa allegri e contenti, salvo, ahimè, l'infelice Aurelio.
Costui a casa se ne tornò con l'animo sconvolto, sicuro ormai di non poter scampare alla morte, il cui gelo gli pareva già di sentirsi al cuore. Con le mani al cielo e le ginocchia sulla nuda terra, si mise delirando a recitare le sue orazioni, completamente fuori di sé per il dispiacere. Non sapeva neppure lui quel che dicesse; tuttavia ecco come parlava, rivolgendo col cuore affranto il suo lamento agli dèi, e prima d'ogni altro al sole: «Apollo, dio e sovrano d'ogni pianta, erba, albero e fiore, tu che nella tua declinazione dai a ciascuno di loro il suo tempo e la sua stagione semplicemente mutando in alto o in basso la tua sede, Febo signore, rivolgi il tuo occhio misericordioso all'infelice Aurelio, a me che altrimenti sono perduto! Ecco, signore, la mia donna ha giurato che pur senza colpa io debba morire... ma la tua bontà abbia compassione del mio morente cuore! Io so, Febo signore, che se soltanto vuoi, a parte la donna mia, tu puoi aiutarmi meglio di chiunque. Ecco, lascia che ti spieghi come e in che modo puoi recarmi soccorso... Come ben sai, signore, la tua beata sorella, Lucina la radiosa, che del mare è prima dea e regina (sebbene sia Nettuno il dio del mare, lei di lui è imperatrice!) desidera sempre esser rianimata e accesa dal tuo fuoco, e ti segue perciò avidamente; e così il mare, per sua natura, desidera seguire lei che è nello stesso tempo dea del mare e di tutti i fiumi... Ebbene, Febo signore, ecco la mia preghiera (e tu fammi questa grazia o spezzami altrimenti il cuore!): quando nella tua prossima opposizione ti troverai nel segno del Leone, pregala di sollevare una marea così grande da ricoprire di almeno cinque tese la più alta roccia che ci sia nell'Armorica Bretone, una marea che duri per due anni, in modo che con certezza io possa dire alla mia donna: 'Mantieni la tua promessa, le rocce sono sparite!'... Febo signore, fammi questa grazia! Pregala di non correre più rapida di te; prega tua sorella, dico, di non correre per due anni più rapida di te, ma di rimanere nel pieno del suo splendore a mantenere notte e giorno l'alta marea... Se poi a lei non piace concedermi in questo modo la dolce mia sovrana, pregala allora di sprofondare ogni roccia nella sua stessa regione sotterranea, dove abita Plutone... altrimenti io non potrò mai conquistare la mia donna! Ti prometto che a piedi scalzi andrò fino al tuo tempio di Delfo... Febo signore, guarda le lacrime sulle mie guance, abbi pietà del mio dolore!». Così dicendo cadde svenuto e rimase a lungo in deliquio. Suo fratello, il quale era al corrente delle sue vicissitudini, lo prese e lo portò a letto. Ma lasciamo per ora quest'infelice in preda ai suoi tormenti e ai suoi pensieri: per me, era lui che doveva decidere se vivere o morire...
Arvirago, intanto, sano e salvo e con grandi onori, dopo aver preso parte a molte imprese cavalleresche, tornò in patria con altri valorosi. Oh, finalmente tu sei beata, Dorigene, ora che hai fra le braccia il tuo intrepido marito, quel giovane cavaliere, quel prode uomo d'armi che t'ama come la vita stessa del suo cuore!... A lui non venne neppure in mente che qualcuno, durante la sua assenza, avesse potuto farle proposte d'amore; non aveva dubbi di questo genere. Senza dunque minimamente sospettare di nulla, partecipò in compagnia di lei a danze e a tornei, mostrandosi sempre allegro. E così lasciamoli in questa gioia e beatitudine, per tornare ad Aurelio che invece era malato.
Per più di due anni l'infelice Aurelio rimase a languire a letto fra atroci sofferenze, prima di poter mettere un piede a terra. E in tutto questo periodo non ebbe altro conforto che quello di suo fratello, uomo assai dotto, il quale era l'unico che comprendesse la sua pena e il suo tormento, anche perché a nessun altro egli avrebbe mai osato parlare della faccenda. La teneva chiusa nel suo petto più segretamente di quanto Panfilo non nascondesse il suo amore per Galatea! Dall'esterno il suo petto appariva intatto, ma c'era sempre nel suo cuore una freccia acuta... E voi sapete bene quanto sia difficile in chirurgia la cura d'una ferita rimarginata solo in superficie, senza che si possa giungere a toccare la scheggia e a rimuoverla.
Suo fratello di nascosto piangeva e si crucciava, finché una volta non gli venne di pensare ai tempi in cui era stato studente a Orléans, in Francia, dove come tanti altri giovani, avidi di conoscere le arti occulte, s'era dato a cercare in ogni angolo e per ogni dove il modo d'imparare strane scienze... e si ricordò che un giorno, appunto a Orléans, aveva visto nello studio un libro di magia naturale, che un suo compagno, allora studente in legge (il quale tuttavia si trovava là per fare tutt'altri studi...), aveva per caso dimenticato sul tavolo. Questo libro parlava diffusamente delle operazioni relative alle ventotto mansioni della luna e d'altre simili stramberie che al giorno d'oggi non valgono un moscerino, giacché la nostra fede nella Santa Chiesa non ci permette d'essere ingannati da certe illusioni... Non appena si ricordò di questo libro, col cuore che dava palpiti di gioia, disse fra sé: 'Mio fratello sarà presto guarito, perché sono sicuro che ci sono scienze per mezzo delle quali si possono evocare apparizioni d'ogni genere, basta qualche abile prestigiatore... Ho spesso sentito dire che in qualche festa questi prestigiatori hanno fatto apparire, in un gran salone, uno specchio d'acqua con una barca, e si son messi a remare avanti e indietro fra le quattro mura; talvolta hanno fatto comparire un feroce leone; tal altra hanno fatto spuntare fiori come in un prato; ora, una vite con grappoli d'uva bianca e rossa; ora, un intero castello di calce e pietra. E quando vogliono loro, tutto subito scompare, o almeno così sembra agli occhi della gente!... Insomma, penso che se potessi trovare a Orléans qualche vecchio compagno che abbia in mente queste mansioni della luna o qualche altra magia naturale ancora superiore, dovrebbe essere facile per lui far ottenere a mio fratello il suo amore. Con l'illusione, infatti, un esperto potrebbe far sparire agli occhi della gente tutte quante le nere rocce della Bretagna, permettendo alle navi d'andare e venire lungo la costa, e far durare tale apparenza per una settimana o due... Mio fratello guarirebbe allora subito del suo male, perché lei sarebbe costretta a mantenere la sua promessa, altrimenti lui potrebbe per lo meno svergognarla!».
Ma perché farla ancora tanto lunga? Costui si recò al letto del fratello e tanto lo pregò d'andare a Orléans con lui, che quello s'alzò e si mise subito in viaggio, nella speranza di liberarsi delle sue pene.
Erano quasi giunti in quella città, a una distanza di due o tre miglia, quando incontrarono un giovane dotto che passeggiava tutto solo, il quale li salutò cortesemente in latino e fece poi questa sorprendente affermazione: «Conosco esattamente il motivo della vostra visita!». E lì su due piedi specificò tutto quello che loro avevano in mente. Il dotto bretone chiese infine notizie dei compagni che aveva conosciuto ai vecchi tempi e, quando seppe ch'erano morti, sbottò più volte in lacrime...
Aurelio scese intanto da cavallo e s'avvio con questo mago a casa sua, dove tutti si sistemarono comodamente. Non vi mancavano i cibi più squisiti: era certo la casa meglio fornita che Aurelio avesse mai vista in vita sua! Prima di cena il mago gli mostrò foreste e parchi pieni di caprioli selvaggi, dov'egli vide cervi dalle lunghe corna, i più grandi che occhio umano avesse mai veduto, cento ne vide uccisi dai cani, ed altri a colpi di freccia con crudeli ferite sanguinanti. E quando questi cervi furono scomparsi, vide alcuni falconieri lungo un bel fiume, che coi loro falchi uccidevano l'airone. Vide poi dei cavalieri che giostravano in una pianura. Quel mago gli procurò perfino il piacere d'intravedere la sua donna in una danza, alla quale ebbe l'illusione di prender parte anche lui... operate tutte queste magie, visto che ormai il momento era opportuno, quel maestro batté le mani e, addio, ogni incantesimo era sparito! Eppure nessuno s'era mosso di casa per assistere a tutto questo spettacolo meraviglioso, ma ognuno era rimasto tranquillamente a sedere nello studio, dov'erano parecchi libri e nessun altro all'infuori di loro tre.
Il mago chiamò allora il suo scudiero e gli disse: «E' pronta la nostra cena? E' passata quasi un'ora, mi pare, da quando questi signori sono venuti qui con me nel mio studio dove sono i miei libri, e t'avevo ordinato di preparar da mangiare...».
«Messere,» fece lo scudiero «quando volete, tutto è pronto... anche subito, se credete.»
«Allora andiamo a tavola» disse quello «è meglio. Anche gl'innamorati hanno qualche volta bisogno di tregua...»
Dopo cena si misero a contrattare quale somma dovesse avere in compenso il mago, per rimuovere tutte le rocce della Bretagna, dalla Garonna alla foce della Senna. Lui rese la cosa difficile e giurò, ancor che Dio lo salvasse, che meno di mille sterline non avrebbe potuto chiedere, e che neanche per quella somma sarebbe andato volentieri...
Aurelio invece, infervorato, replicò subito: «E vada per mille sterline! Darei via il mondo intero quant'è tondo, se ne fossi padrone! Il contratto è fatto, d'accordo. Sarete puntualmente pagato, vi do la mia parola! Ma ora badate di non trattenervi qui a far nulla e a perder tempo fin oltre domani».
«Non temete» disse il mago «contate pure sulla mia onestà.»
Quando gli parve opportuno, Aurelio se ne andò a letto e finalmente quella notte riuscì a riposare: un po' per la stanchezza e un po' per la speranza di poter riuscire nel suo intento, il suo cuore addolorato ebbe qualche tregua nel suo penare.
L'indomani, appena fu giorno, Aurelio e il mago accanto a lui presero la via che portava dritta nella Bretagna e, giunti a destinazione, smontarono da cavallo. Era allora, come in certi libri si ricorda, la fredda, gelida stagione di dicembre. Febo stava diventando vecchio ed era dei colore dell'ottone, lui che nella declinazione calda aveva brillato coi bagliori sfolgoranti dell'oro fuso! Ma ora discendeva nel Capricorno, dove ho ragione di dirvi che luccicava pallidissimo. Il gelo pungente, con la brina e con la pioggia, aveva distrutto il verde d'ogni prato. Giano sedeva con la doppia barba accanto al fuoco e beveva vino dal suo corno di bue; aveva davanti carne di cinghiale. Ed ogni buontempone ormai andava gridando: «Natale!...».
Aurelio fece dunque grandi feste al mago e lo trattò con tutti i possibili riguardi, pregandolo tuttavia d'affrettarsi a toglierlo dalle sue atroci pene, altrimenti con una spada si sarebbe trafitto il cuore... L'esperto negromante ebbe tanta compassione di quell'uomo, che si dette da fare giorno e notte quanto poté, aspettando il momento propizio per mettere in opera il suo proposito, ch'era quello di creare un'illusione, per mezzo d'un miraggio o d'un gioco di prestigio (io non me ne intendo di termini di magia!), in modo che Dorigene o chiunque altro dovesse credere e ammettere che tutte le rocce della Bretagna erano sparite o sprofondate sotto terra. Giunto finalmente il momento adatto alle stregonerie e ai malefici della sua esecrabile arte, egli trasse fuori le sue tavole toledane, corrette in modo che non mancasse nulla, né gli anni conglobati né quelli sparsi, né le radici, né tutte le altre faccende, come i centri, gli argomenti e i corrispondenti proporzionali, che gli servivano per tutte le sue equazioni. E prendendo come punto di partenza l'ottava sfera, poté calcolare esattamente di quanto Alnath si fosse allontanata dalla testa dell'Ariete fisso, che si considera nella nona sfera; e calcolò tutto minuziosamente. Una volta trovata la prima fase, derivò il resto per proporzione, e seppe di preciso a che ora sorgeva la luna e in che stadio e in che porzione e tutto; apprese accuratamente quale fosse la fase della luna in rapporto alla sua operazione, e fece tutte le possibili considerazioni necessarie agli incantesimi e ai sortilegi che a quei tempi praticavano i pagani. Non indugiò quindi più a lungo, ma attraverso la sua magia, per una settimana o due, sembrò che tutte le rocce fossero scomparse!
Aurelio, pur non sapendo ormai se sperare o meno d'ottenere il suo amore, aspettò notte e giorno il miracolo. E appena vide che non c'era dubbio e che le rocce erano scomparse tutte, si gettò subito ai piedi del mago e disse: «Io, misero infelice Aurelio, ringrazio voi, signore, e voi mia signora Venere, per avermi liberato dalle mie mortali pene!».
E corse subito al tempio, dove sapeva che avrebbe veduto la sua donna; e là infatti, atteso il momento opportuno, con cuore trepido e atteggiamento molto umile, salutò la sua amata sovrana: «Signora mia,» le disse quell'infelice «io dovrei temervi, e invece vi amo con tutte le mie forze, sopra ogni altra creatura al mondo! Se proprio non fosse che per voi ho tanto male da morire qui subito ai vostri piedi, non starei a dirvi quanto io soffra: ma veramente non mi rimane che sfogarmi o morire. In realtà siete voi che mi uccidete senza ch'io abbia commesso alcuna colpa! Ma, sebbene non v'importi nulla della mia morte, riflettete prima di venir meno alla vostra parola; riflettete bene, per quel Dio che sta nei cieli, prima d'uccidermi semplicemente perché vi amo! Signora, sapete bene quel che avete promesso... non che io pretenda da voi, mia sovrana signora, altro diritto che non sia la grazia vostra, ma voi sapete benissimo quel che avete promesso a me là in quel giardino... ricordate? mi deste la parola che m'avreste amato più di qualsiasi altro uomo al mondo... per quanto io ne sia indegno, Dio sa che diceste proprio così! Ebbene, signora, in questo momento, più che per salvare da morte il mio cuore, parlo per l'onor vostro: quel che voi m'avete comandato, io l'ho eseguito! Se volete degnarvi, potete andare a vedere... Fate come credete, ma ricordatevi della vostra promessa, perché, vivo o morto, mi ritroverete sempre! Sta dunque in voi farmi vivere o morire... ma per parte mia vi assicuro che le rocce sono sparite!».
E se ne andò, mentre lei, sbigottita, rimase senza una goccia di sangue al viso; mai avrebbe immaginato di cadere in una trappola simile. «Ahimè!» disse. «Che cosa doveva mai capitare! Non avrei mai pensato che si potesse avverare una cosa tanto strana e incredibile! E' contro ogni legge di natura!»
E se ne tornò a casa, l'infelice donna, così piena di timori, che a fatica riusciva a camminare. E per uno o due giorni di seguito non fece che piangere, lamentarsi, darsi alla disperazione... era una pena vederla. Non spiegò, però, nulla a nessuno, giacché Arvirago era fuori città; ma con il volto pallido e l'espressione dolorosa, parlando fra sé, ecco che cosa diceva, state a sentire: «Ahimè, con te, fortuna, io mi lamento, che all'improvviso m'hai legata alla tua catena, da cui non vedo come potrò liberarmi se non con la morte o il disonore! Non ho altra scelta... Ma preferisco perdere la vita, piuttosto che macchiarmi il corpo di vergogna o riconoscermi sleale e perdere il mio buon nome! Con la morte almeno mi svincolo da tutto. Non si sono, ahimè, già uccise parecchie mogli e fanciulle oneste piuttosto che peccare col loro corpo? Ma certo, quante storie ne fanno testimonianza!... Quando i trenta tiranni, pieni di malizia, durante un banchetto ad Atene ebbero ucciso Fedone, ordinarono che le sue figlie fossero arrestate e condotte in ludibrio davanti a loro, tutte nude, per soddisfare il loro turpe piacere, e le fecero danzare nel sangue del loro padre (Dio li possa maledire!). Però quelle sventurate fanciulle, piene di paura, piuttosto che perdere la loro verginità, si gettarono di nascosto dentro un pozzo e, come narrano i libri, si annegarono... Anche quelli di Messene fecero cercare e rintracciare cinquanta fanciulle di Sparta, sulle quali sfogare la loro libidine. Ma non ce ne fu una in tutta la schiera, che non si uccidesse e saggiamente non scegliesse di morire, piuttosto che lasciarsi offendere nella sua verginità. Perché allora dovrei aver paura di morire?... Ecco, guardate anche il tiranno Aristoclide, innamorato d'una fanciulla che si chiamava Stinfalide: quando una notte le venne ucciso il padre, lei andò dritta al tempio di Diana, s'avvinghiò stretta alla sua statua e non volle più allontanarsene. Nessuno riuscì a staccarle di là le mani, finché non fu uccisa sul posto. Ora se delle fanciulle hanno avuto tanto orrore di farsi profanare dal turpe piacere dell'uomo, è ben giusto, mi sembra, che una moglie, piuttosto che farsi profanare, si uccida... Che dire della moglie di Asdrubale che si tolse la vita a Cartagine? Come vide che i romani avevano ormai preso la città, si buttò nel fuoco con tutti i suoi bambini, preferendo morire che farsi oltraggiare da un romano ... E Lucrezia, ahimè, non si uccise anche lei a Roma, quando fu violentata da Tarquinio, non reggendo alla vergogna di vivere dopo aver perduto il buon nome?... Anche le sette vergini di Mileto si uccisero, strette d'angoscia e di terrore, piuttosto che sottomettersi alle genti della Galizia... Più di mille storie, credo, potrei ancora ricordare su questo argomento! Quando venne ucciso Abradate, s'uccise anche la sua diletta sposa, lasciando scorrere il suo sangue nelle profonde ferite aperte d'Abradate stesso, e disse: 'Almeno fin che posso nessuno contaminerà il mio corpo!'... Perché citare altri esempi, se tante sono quelle che si sono uccise per non essere disonorate? Concludo che anche per me sia meglio morire che perdere così l'onore. Pur di rimanere fedele ad Arvirago, in qualche modo m'ucciderò, come fece la diletta figlia di Democione, che non volle venir meno alla sua parola... O Cedaso, che pena leggere come, ahimè, morirono le tue figliole, che si uccisero per questa medesima ragione! Stessa pena, se non maggiore, desta la fanciulla tebana che si uccise per Nicanore, spinta dal medesimo dispiacere... Fece lo stesso un'altra fanciulla tebana: violentata da un macedone, rivendicò la propria verginità con la morte. Che dire della moglie di Nicerate, che si tolse la vita per lo stesso motivo?... Come anche ad Alcibiade fu fedele la sua amata, che preferì morire piuttosto che lasciarne insepolto il corpo! ... Pensate che moglie fu Alceste!... E che dice Omero della buona Penelope? Tutta la Grecia sa della sua castità! Sta anche scritto che Laodamia, dal giorno che a Troia fu ucciso Protesilao, non volle più continuare a vivere... Lo stesso posso dire della nobile Porzia: non poté più vivere senza Bruto, al quale aveva donato tutto il suo cuore... La perfetta virtù d'Artemisia è onorata in tutta la Barberìa... O Teuta, regina, la tua castità di sposa può far da specchio a tutte le donne! ... Lo stesso si può dire di Bilia, di Rodogana e di Valeria...»
Così si lamentò Dorigene per un giorno o due, col fermo proposito d'uccidersi. Ma poi, la terza notte, tornò a casa il valente cavaliere Arvirago, e le chiese perché piangesse così amaramente; e lei si mise a piangere anche di più. «Ahimè» disse «non fossi mai nata! Io ho detto,» fece «io ho promesso...» E gli raccontò quanto avete già sentito: non c'è bisogno che lo ripeta.
Il marito, senza mostrarsi minimamente offeso o preoccupato, le rispose e disse soltanto: «Dorigene, non si tratta che di questo?».
«Sì, sì...» fece lei. «Dio m'aiuti, v'assicuro che non c'è altro! Ma è già fin troppo che Dio abbia voluto questo...» «Moglie mia,» disse lui «lasciate stare chi non c'entra... Ma forse tutto si sistemerà oggi stesso. Certo, voi dovete mantenere la vostra parola! Dio dunque abbia piuttosto pietà di me... ma appunto per l'amore che vi porto, preferirei morire, anziché voi non serbaste o manteneste la vostra promessa. La parola data è la più alta cosa che un uomo debba rispettare...»
Così dicendo, egli scoppiò improvvisamente a piangere e soggiunse: «Vi proibisco, sotto pena di morte, finché avrete vita e respiro, di parlare con qualcuno di questa faccenda! Sopporterò il mio dolore come meglio potrò, senza dar segni di preoccupazione, in modo che la gente non debba pensare o supporre alcun male di voi!».
E chiamò uno scudiero e una domestica: «Andate subito con Dorigene» disse «e accompagnatela senza perdere tempo dove deve andare». E quelli presero e partirono, senza però avere alcuna spiegazione; a nessuno egli avrebbe mai rivelato il proprio animo... Forse molti di voi, ne sono sicuro, lo crederanno un uomo insensato, per questa sua idea di mettere la moglie in quel pasticcio. Ma prima d'incominciare a compiangerla, ascoltate il racconto: potrebbe ancora darsi che avesse miglior fortuna di quanto non vi sembri. Ad ogni modo, dopo aver sentito il racconto, giudicherete.
Volle dunque il caso che Aurelio, lo scudiero ch'era tanto innamorato di Dorigene, la incontrasse proprio nel centro della città, lungo la via più frequentata, mentre lei stava andando verso il giardino, dove aveva fatto la promessa. Anche lui era diretto verso quel giardino, giacché, a dir proprio la verità, lui la spiava ogni volta che lei usciva per recarsi da qualche parte... Insomma, fosse o non fosse il caso, il fatto è che s'incontrarono, e lui la salutò festosamente e le chiese dove stesse andando.
Lei, come svanita, gli rispose: «Ahimè, ahimè, vado, per ordine di mio marito, là nel giardino a mantenere la mia promessa!».
Stupefatto per ciò che in realtà stava avvenendo, Aurelio provò in cuor suo gran compassione di lei e del suo lamento, nonché del nobile cavaliere Arvirago che ordinava alla moglie di mantenere quanto aveva promesso, tanto gli era odioso che lei mancasse di parola... E stretto al cuore da questo gran compatimento, considerando che ciò fosse sotto ogni aspetto la miglior cosa, preferì rinunciare al piacer suo, anziché commettere una così indegna villania contro tanta onestà e correttezza. E perciò in poche parole disse: «Madonna, dite ad Arvirago signor vostro che, vedendo la sua grande nobiltà verso di voi come pure la vostra desolazione, se lui preferisce il disonore (il che sarebbe ben commiserevole!) piuttosto che voi manchiate di parola, ebbene, io preferisco sopportare per sempre le mie pene piuttosto che infrangere l'amore fra voi due. Signora, io rimetto in mano vostra qualsiasi obbligo e qualsiasi impegno abbiate preso con me prima d'ora, come fosse dal momento che siete nata. Vi do la mia parola: non vi contesterò mai alcuna promessa, ed ecco, mi congedo dalla più fedele e onesta moglie ch'io abbia mai conosciuto in vita mia». Ogni donna però stia attenta a far promesse! E si ricordi almeno di Dorigene. Ad ogni modo non c'è dubbio che anche uno scudiero può compiere un atto di cortesia, proprio come un cavaliere.
Lei lo ringraziò in ginocchio sulla nuda terra, e se ne tornò a casa da suo marito, e gli raccontò tutto quello che mi avete sentito raccontare: vi assicuro ch'egli rimase contento oltre ogni dire. Ma perché farla tanto lunga con questa storia? Arvirago e sua moglie Dorigene vissero per tutta la vita sovranamente felici. Non vi fu mai alcun risentimento fra loro due. Lui l'adorava come fosse una regina, e lei gli rimase per sempre fedele. E con questi due ho finito.
Aurelio, invece, che ci rimise tutte le spese, maledisse il momento ch'era nato: «Ahimè» diceva «ahimè, ho promesso al filosofo mille sterline di puro oro! Come farò? Vedo soltanto che mi sono rovinato! Dovrò vendere il mio patrimonio e mettermi a mendicare; non posso rimanere a vivere in questo posto e far vergognare di me tutti i miei parenti, a meno che non riesca a ottenere da lui migliori condizioni. Ad ogni modo gli dirò di farmi pagare poco per volta, una data somma all'anno, e che gli sarò grato per la sua grande cortesia. E manterrò la mia promessa, senza mentire».
Si avvicinò con triste cuore al suo scrigno, e portò al filosofo una quantità d'oro del valore press'a poco di cinquecento sterline, e lo pregò di concedergli per cortesia un certo tempo per pagare il resto, dicendo: «Maestro, posso vantarmi di non aver finora mancato alla mia parola. Il mio debito vi sarà sicuramente pagato, anche se dovessi ridurmi a chiedere l'elemosina in camicia. Ma se volete concedermi, su garanzia, due o tre anni per riscattarmi, ve ne sarei molto grato; perché altrimenti devo vendere il mio patrimonio; non c'è altra via».
Il filosofo, molto serio, dopo aver ascoltato le sue parole, gli rispose dicendo: «Non ho forse mantenuto a te la mia promessa?».
«Sì, certo, e molto lealmente» ammise l'altro.
«Non hai avuto la tua donna come volevi?»
«No, no» disse lui, e sospirò profondamente.
«Per quale motivo? Dimmelo se puoi.»
Aurelio incominciò la sua storia e gli disse tutto quello che avete già sentito: non c'è bisogno che lo ripeta. Gli disse: «Arvirago, nella sua onestà, avrebbe preferito morire di dolore e di disperazione, anziché far mancare sua moglie di parola». E gli parlò anche del dolore di Dorigene: come avesse in orrore d'essere una moglie disonesta, e che avrebbe preferito perdere la vita quel giorno stesso, e che solo per ingenuità gli aveva fatto la promessa, perché prima non aveva mai sentito parlare di magia. «...Per questo ebbi di lei tanta compassione; e con la stessa generosità con cui l'aveva mandata a me, io la rimandai a lui. Questo è tutto, non c'è altro da dire.»
Il filosofo rispose: «Caro fratello, ciascuno di voi s'è comportato con l'altro nobilmente. Tu sei uno scudiero, ed egli è un cavaliere; ma Dio non voglia, nella sua beatitudine e potenza, che anche un uomo di studi non riesca a compiere senza indugi una nobile azione come voi! Ecco, messere, ti condono le tue mille sterline, come se tu uscissi dalla terra in questo momento e non mi avessi mai conosciuto prima d'ora. Infatti, messere, io non prenderò un centesimo da te, per tutto il mio impegno né per tutta la mia fatica. Hai già speso molto per il mio mantenimento. Questo basta, e ora, addio, buona fortuna!». E, preso il cavallo, se ne andò per la sua strada. A voi, signori, vorrei ora farvi questa domanda: chi fu più generoso, secondo voi? Su ditemelo, prima che si proceda oltre. A me non rimane altro, il mio racconto è finito.
Qui termina il Racconto dell'Allodiere.

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