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domenica 12 maggio 2013

I RACCONTI DI CANTERBURY - FRAMMENTO 5 - IL RACCONTO DELLO SCUDIERO


«Scudiero, vogliate avvicinarvi e dirci qualcosa sull'amore, giacché voi sicuramente ve ne intendete più di tutti...»
«Oh, non è vero, messere» fece lui «ma quel che so ve lo dirò di tutto cuore; non è ch'io intenda ribellarmi al vostro desiderio, e un racconto voglio narrarlo anch'io. Soltanto vi prego di scusarmi se non so parlare bene; ho buona volontà... ed ecco, questo è il mio racconto.»
RACCONTO DELLO SCUDIERO
Qui comincia il Racconto dello Scudiero.
Viveva a Sarai, nella terra dei tartari, un re che mosse guerra contro la Russia, per la qual causa perirono molti uomini valorosi. Questo nobile re si chiamava Cambiscano, ed ebbe ai suoi tempi una rinomanza tale, che un sovrano in tutto così eccellente pareva non dovesse esistere da nessun'altra parte. Non gli mancava effettivamente nulla che s'addicesse a un re: osservava le leggi della setta in cui era nato, sulle quali aveva prestato giuramento; e poi era ardito, saggio e ricco; pietoso e nello stesso tempo giusto, fedele alla parola, affabile e onorato; d'animo saldo come un perno; giovane, vigoroso e forte; desideroso di maneggiare le armi come un qualsiasi baccelliere del suo palazzo. Aveva inoltre un bel portamento ed era anche fortunato... nessuno, insomma, ricopriva bene la carica regale come lui.
Questo nobile re, questo tartaro Cambiscano, ebbe da sua moglie Elfeta due figli, il maggiore dei quali si chiamava Algarsife e l'altro Cambalo. Ebbe veramente anche una figlia, questo valoroso re, ch'era la più giovane e si chiamava Canace... ma a descrivervi tutta la sua bellezza, non basterebbe la mia lingua e neanche il mio ingegno; non me la sento d'affrontare un argomento così delicato; mi mancano proprio le parole. Ci vorrebbe un eccellente retore che conoscesse bene i colori della sua arte, per potervela descrivere in ogni particolare: io purtroppo non lo sono e devo perciò parlare come posso.
Si dava ora il caso che, dopo aver portato per venti inverni la corona, questo Cambiscano facesse proclamare il suo anniversario (ma credo che lo facesse fare ogni anno) per tutta la città di Sarai. Era l'ultimo giorno delle idi di marzo, stando al calendario: Febo, il sole, era radioso e allegro, perché ormai prossimo alla sua esaltazione in Marte e nella sua mansione in Ariete, l'ardente segno della collera... Il tempo, insomma, era buono e molto favorevole: gli uccelli, di fronte al bel sole, sollecitati dalla stagione e dal fresco verde, cinguettavano a gran voce i loro amori, sentendosi ormai protetti contro la lama acuta e fredda dell'inverno.
Questo Cambiscano, vi dicevo, seduto in veste regale al posto d'onore, in alto con la sua corona, diede nel suo palazzo una festa così solenne e splendida, come non ce n'erano mai state al mondo... Se soltanto dovessi descriverne l'adornamento, mi ci vorrebbe un giorno, ma di quelli lunghi d'estate. E non è neppure il caso che vi dica in che ordine venisse introdotta ogni portata, né che vi parli delle strane salse, dei cigni o dei teneri aironi, anche perché in quel paese, a quel che narrano antichi cavalieri, ci sono cibi ritenuti molto pregiati che qui da noi la gente valuta ben poco. E poi non c'è nessuno che possa raccontare tutto: non voglio annoiarvi, il mattino è già inoltrato, e non si tratterebbe che d'una perdita di tempo. Torniamo dunque dove prima eravamo rimasti.
Ecco, dopo la terza portata, mentre il re se ne stava seduto a banchetto fra i suoi baroni, ascoltando la dolce musica che gli suonavano davanti i suoi menestrelli, improvvisamente apparve sulla porta della sala un cavaliere sopra un cavallo di bronzo, con un grande specchio di cristallo in mano, un anello d'oro al pollice e una spada nuda che gli pendeva al fianco. E si diresse a cavallo fino alla tavola alta. Non s'udì più una parola in tutta la sala, tale fu lo stupore per quel cavaliere; e giovani e anziani ebbero tutto il loro da fare a guardarlo...
Questo misterioso cavaliere, giunto così all'improvviso, ricoperto tutto, fuorché sul capo, da una splendida armatura, salutò il re, la regina e tutti i baroni, secondo l'ordine in cui stavano seduti nella sala, ma con tale rispetto e tale ossequio di parole e portamento, che, se anche dal mondo delle fate fosse tornato Galvano con tutta la sua cortesia antica, neppure d'un verbo l'avrebbe superato. Poi, davanti alla tavola alta, pronunciò con gagliarda voce il suo messaggio, secondo i modi usati nella sua lingua, ma senza sgarrare d'una sillaba o d'una lettera; e perché il suo discorso riuscisse meglio, diede a ogni parola l'espressione adatta, proprio come insegna l'oratoria a chi la studia... Io non riuscirci ad imitare il suo stile, a superare una barriera così alta, ma vi ripeterò, tanto per intenderci, quale fosse il senso del suo discorso, sempre ch'io riesca a ricordarlo...
Disse: «Il re d'Arabia e d'India, mio signore e sovrano, vi porge, in questo solenne giorno, i suoi migliori saluti e omaggi. E vi manda, in onore della vostra festa, per mezzo di me che son pronto a ogni vostro comando, questo cavallo di bronzo, il quale, nello spazio d'un giorno naturale, vale a dire in ventiquattr'ore, può benissimo trasportarvi dovunque vi piaccia, sia con la pioggia che col sole, in qualsiasi luogo abbiate in mente d'andare, senz'alcun vostro pericolo, bello o brutto che il tempo sia. Se poi desiderate volare in alto nell'aria fine dove arriva l'aquila, questo medesimo cavallo può trasportarvi senza rischio fin dove volete, mentre voi potete dormire o riposarvi sul suo dorso. Per ritornare indietro, basta il giro d'una chiavetta! Chi l'ha costruito, di congegni certo se ne intendeva, e aspettò diverse costellazioni prima di mettersi all'opera, imparando scongiuri e sortilegi... Anche questo specchio, che ho in mano, ha un tale potere, che in esso si può vedere quando stia per capitare qualche sventura al vostro regno o a voi, e distinguere chiaramente chi vi sia amico o nemico; inoltre, se una radiosa dama avesse posto il cuore su qualcuno, e costui le fosse infedele, lei potrebbe scoprirne il tradimento e riconoscerne la nuova amante ed ogni loro tresca, nulla insomma le rimarrebbe nascosto... Avvicinandosi ora il tempo della gioiosa estate, questo specchio e l'anello che vedete, li manda a madamigella Canace, l'eccellente vostra figlia qui presente. Ascoltate, la virtù dell'anello è questa... se lei avesse la compiacenza di portarlo al pollice o nella borsa, non c'è uccello che voli in cielo di cui lei non comprenderebbe perfettamente il verso, riuscendo a intendere tutto ciò che dice e perfino a rispondergli nel suo linguaggio, saprebbe inoltre discernere ogni erba che mette radice e guarire così chiunque fosse gravemente ferito... Questa nuda spada, che penda al mio fianco, ha una tale virtù, che, chiunque con essa colpiate, lo squarcerà e morderà trapassando l'armatura, foss'anche spessa come una nodosa quercia; e chiunque sia ferito da un tale colpo non guarirà mai, finché voi non gli farete la grazia di colpirlo con la parte piatta proprio nel punto in cui è ferito... vale a dire che con la parte piatta della lama dovrete colpirlo di nuovo sulla ferita, ed essa si chiuderà! Questa è la pura verità, senza impostura; finché sarà in mano vostra, questa spada non vi tradirà!».
E appena questo cavaliere ebbe fatto così il suo discorso, se ne uscì fuori della sala e smontò di sella. Il cavallo, che splendeva sfolgorante come il sole, rimase nel cortile fermo come un masso. E il cavaliere fu subito condotto nella sua stanza, spogliato delle armi e accompagnato a tavola.
Quanto ai doni, cioè la spada e lo specchio, essi furono accolti con tutti gli onori, e trasportati subito nella torre alta da certi dignitari apposta comandati; e l'anello fu consegnato ufficialmente a Canace, mentre ancora stava seduta a tavola. Ma il cavallo di bronzo, v'assicuro, non vi racconto storie, quello non si poté spostare: pareva proprio che fosse piantato a terra, e di là non ci fu verso di muoverlo, nemmeno per mezzo di carrucole e verricelli; e sapete perché?... perché nessuno ne conosceva ancora il segreto! E perciò venne lasciato dove stava, finché il cavaliere non spiegò il modo di manovrarlo, come ora sentirete.
Una gran folla si mise intanto a sciamare avanti e indietro, ammirando questo cavallo che stava là a quel modo, ed era alto, massiccio e slanciato, così ben proporzionato e solido, che pareva proprio uno stallone di Lombardia, un vero purosangue, dall'occhio così vivo, che assomigliava tutto a un nobile corsiero delle Puglie... Veramente, dalla coda fino alle orecchie, natura ed arte non avrebbero potuto migliorarlo d'un solo grado; lo dicevano tutti. Ma la maggior meraviglia era che, pur essendo di bronzo, riuscisse a camminare: doveva certo trattarsi d'un incantesimo, pensò la gente,. E ognuno si mise a dire la sua, perché, si sa, tante teste, tante idee. Era proprio come il brusìo d'uno sciame d'api: chi faceva commenti inseguendo la propria fantasia, chi citava poemi antichi; alcuni dicevano che assomigliava a Pegaso, il cavallo che aveva le ali per volare, altri ch'era il cavallo del greco Sinone, che portò Troia alla rovina, come si legge nelle antiche gesta ... «Ho il cuore in agitazione» diceva uno «temo Che là dentro ci siano uomini armati, pronti a impadronirsi della città. Sarebbe meglio mettere in chiaro la cosa...» Un altro mormorava sottovoce col compagno e diceva: «Quell'uomo mente, perché sembra piuttosto un'apparizione evocata per opera di magia, di quelle con cui si divertono i giocolieri in certe grandi feste». Così tutti parlavano e discutevano dei loro dubbi, come fa comunemente la povera gente, quando si mette a giudicare cose congegnate troppo abilmente perché nella sua ignoranza possa comprenderle; e giungevano a cuor leggero alle peggiori conclusioni... Qualcuno si meravigliava per lo specchio, ch'era stato trasportato nel torrione, chiedendosi come mai si potessero vedere tante cose; rispondeva un altro dicendo che poteva benissimo trattarsi d'un fatto naturale, di composizioni d'angoli e di riflessioni particolari, e sosteneva che anche a Roma c'era uno specchio simile.
E parlavano di Alhazen, di Vitello e di Aristotele, che ai tempi loro scrissero di strani specchi e di prospettive, come sanno quanti conoscono i loro libri... Altri poi si meravigliavano per la spada, capace di trapassare qualunque cosa, e si mettevano a discorrere di re Telefo e di Achille che con la sua prodigiosa lancia poteva sia ferire che guarire, proprio come con la spada di cui vi ho appena parlato; discorrevano delle diverse tempre di metallo, e parlavano pure di medicine, e di come e quando bisognasse dare la tempra: tutte cose di cui però io non so nulla... Parlarono infine dell'anello di Canace, e dissero tutti che una cosa così prodigiosa non s'era mai sentita dire sulla fabbricazione degli anelli, se si escludevano Mosè e re Salomone, che avevano fama d'intendersene di quell'arte... Fatte le proprie osservazioni, ognuno si metteva poi in disparte. Ma c'era ancora chi si faceva meraviglia che dalle ceneri della felce si potesse ricavare il vetro, perché il vetro non assomigliava affatto alla felce... ma poi, siccome era cosa risaputa, la smetteva di chiacchierare e di meravigliarsi. E allora incominciavano altri a questionare sull'origine del tuono, delle maree, del diluvio, delle ragnatele, della nebbia e... di tutto, finché non ne scoprivano la causa. Così chiacchierarono, fantasticarono e considerarono finché il re non s'alzò dal banchetto.
Febo aveva ormai lasciato l'angolo meridionale, e il re degli animali, il nobile Leone, con la sua Aldebaran, stava ancora salendo, quando il re dei tartari, Cambiscano, s'alzò da tavola, dove occupava il posto d'onore. Preceduto dalle acute note dei menestrelli, venne accompagnato fino alla sala dei parati, dove incominciarono a suonare altri strumenti, che a sentirli pareva d'essere in paradiso. E intorno danzarono i diletti figli della gioiosa Venere, ora che la loro signora sedeva al massimo del suo fulgore nella costellazione dei Pesci e li guardava con occhi benigni... Ecco che il nobile re prese posto sul trono. A lui venne subito condotto il misterioso cavaliere, che poi si mise a danzare con Canace. E vi fu tale festa e allegria, che uno un po' ottuso non può neppure immaginare... Bisognerebbe conoscere proprio bene l'amore e le sue pratiche, ed essere allegri e festaioli come il maggio per descrivere un simile sollazzo. Chi potrebbe mai rappresentarvi le figure della danza, così bizzarre, e certi visi così giovani, e certi astuti sguardi e sotterfugi per schivare gli occhi dei gelosi? Nessuno, all'infuori di Lancellotto, ma egli ormai è morto ... A me non resta che passar oltre tutti questi piacevoli dettagli; e perciò non aggiungo altro, lasciando ciascuno ai propri svaghi finché non fu l'ora di cena.
Il maggiordomo ordinò, in mezzo a tutta quella musica, che si portassero le spezie e il vino; servi e scudieri uscirono, e con vino e spezie furono subito di ritorno. Tutti mangiarono e bevvero, e quando questo ebbe fine, si recarono, com'era giusto, al tempio. Dopo la funzione, tornarono ancora a banchettare... Ma a che serve ripetervi lo splendore della festa? Si sa, a un banchetto di re c'è abbastanza per tutti, dal primo all'ultimo, e ci sono più delizie di quante io conosca. Finalmente, dopo cena, questo nobile re andò a vedere il cavallo di bronzo, con tutto un seguito di dame e di baroni intorno.
E tutti ricominciarono a farsi meraviglia per questo cavallo di bronzo; certo, tante discussioni non c'erano mai state fin dal tempo del grande assedio di Troia, quando pure un altro cavallo fece strabiliare la gente... Insomma, finalmente il re chiese al cavaliere quali fossero le virtù e i poteri di quel puledro, pregandolo d'insegnargli come governarlo.
Bastò che il cavaliere ponesse mano alle redini, che subito il cavallo si mise a scalpitare e a saltellare. «Sire, non c'è da dir molto...» fece quello. «Quando volete cavalcare da qualche parte, non dovete far altro che girare una chiavetta che sta qui nel suo orecchio, e di cui vi parlerò meglio quando saremo soli... Dovete poi dirgli in che paese o località desiderate andare. E quando arrivate in un punto dove avete intenzione di fermarvi, ordinategli d'abbassarsi girando un'altra chiavetta (tutto qui sta il segreto del congegno!), e lui rimarrà immobile in quel punto, quand'anche il mondo intero gli si mettesse contro: di là non sarà possibile né smuoverlo né trainarlo. Se poi volete ordinargli che se ne vada, girate questa chiavetta, ed esso scomparirà subito alla vista di tutti, e ritornerà, giorno o notte che sia, quando voi lo richiamerete nel modo che ora subito vi dirò, appena saremo soli. Non vi rimane dunque che provare a cavalcare.»
Come dunque fu informato ed ebbe bene impressi nella mente il modo e la forma di tutto il meccanismo, lieto e soddisfatto, il nobile e valoroso re ritornò, come prima, alla sua festa. Le briglie vennero trasportate nella torre e conservate fra i gioielli più preziosi e rari. Il cavallo, non so come, svanì per il momento alla vista di tutti; non so dirvi altro... Ma intanto, nel piacere e nell'allegria, lasciamo Cambiscano con i suoi baroni a festeggiare fin quasi allo spuntar del giorno.
EXPLICIT PRIMA PARS.
SEQUITUR PARS SECUNDA.
La sonnolenza, nutrice della digestione, si mise a un tratto a far l'occhiolino, avvertendo che tanto bere e tanta fatica richiedevano riposo; e boccheggiando di sbadigli, baciò tutti quanti e disse ch'era ora di coricarsi, perché ormai il sangue aveva il sopravvento. «Abbiate cura del sangue, esso è l'amico della natura!» disse. E tutti sbadigliando la ringraziarono e, a due o tre per volta, se ne andarono a riposare, proprio come la sonnolenza comandava, pensando che fosse la miglior cosa.
Non starò ora a dirvi dei loro sogni: avevano tutti la testa piena di fumosità, e questa genera sogni che non hanno importanza... Dormirono fino al mattino avanzato, quasi tutti, all'infuori di Canace. Lei, come ogni donna, era stata sensata; e appena s'era fatto buio, aveva chiesto a suo padre il permesso d'andare a riposare. Non le sarebbe piaciuto sentirsi illanguidita o apparire affaticata l'indomani. Dopo il primo sonno, però, non riuscì più a riaddormentarsi: aveva al cuore tanta gioia per via del suo prodigioso anello e del suo specchio, che per venti volte mutò di posizione e, appunto sotto l'impressione dello specchio, ebbe nel dormiveglia una visione. Così, prima ancora che spuntasse il sole, chiamò a sé la governante e le disse che desiderava alzarsi.
E la governante, come tutte le vecchie che fanno volentieri le giudiziose, subito le rispose dicendo: «Madamigella, dove volete andare così di buon'ora, mentre la gente è ancora tutta a riposare?».
«Desidero alzarmi» disse lei «perché non ho più voglia di dormire, e desidero passeggiare.»
La governante chiamò allora un gran seguito di donne, e quelle s'alzarono, forse dieci o anche dodici... Fresca s'alzò pure Canace, rosea e splendida come il giovane sole che aveva percorso appena quattro gradi in Ariete (non era affatto più alto, quando lei fu pronta), e con agile passo, vestita come la dolce e lieta stagione richiedeva per giochi e passeggiate, si mise a camminare con non più di cinque o sei delle sue dame, inoltrandosi per un viale dentro il parco. Il vapore sfumante dalla terra faceva apparire il sole roseo e vasto; ma era uno spettacolo così bello, che il cuore tutto le si accese, sia per l'ora mattutina e la stagione, che per gli uccelli che lei udiva cantare, specie quando all'improvviso s'accorse che poteva seguire il senso del loro canto e comprendere tutto quello che intendevano dire.
Ora, però, se il nodo d'un racconto si dilunga tanto da raffreddare il piacere di chi ascolta, perde a poco a poco di sapore, per eccesso di prolissità; per questa ragione credo che anche a me convenga senz'altro passare al nodo, tralasciando di parlare della passeggiata.
In mezzo a un albero disseccato, bianco come il gesso, mentre Canace si dilettava passeggiando, in alto sopra il suo capo se ne stava appollaiata una falconcella, la quale incominciò a lamentarsi con una voce così pietosa, da far echeggiare le sue grida per tutto il bosco. E intanto sbatteva così miseramente le ali, che il sangue scorreva rosso lungo l'albero su cui stava. E strideva e si lamentava dilaniandosi col becco... ah, non c'è nel bosco o nella foresta tigre o bestia così feroce che, se sapesse piangere, non avrebbe pianto di compassione per lei, tanto erano alte le sue grida! Per quanto io sapessi descrivervi bene una falconcella, nessuno al mondo riuscirebbe a figurarsene un'altra pari per bellezza di piume e per grazia di forme e per ogni pregio che si possa considerare. Pareva una falconcella pellegrina giunta da terre lontanissime, ma ora, stando là a quel modo, andava sempre più languendo per mancanza di sangue ed era quasi sul punto di cadere dall'albero. Canace, la bella figlia del re, che portando al dito il misterioso anello capiva chiaramente tutto ciò che un qualsiasi uccello potesse dire nel suo linguaggio e in quello stesso linguaggio sapeva rispondergli, appena comprese quanto diceva la falconcella, per poco non morì di compassione! Andò di corsa presso l'albero e, contemplando pietosamente la falconcella, tese aperto il lembo della veste: la falconcella sarebbe ormai caduta dal ramo, appena avesse perso ancora un po' di sangue. E rimanendo così in attesa, rivolse alla falconcella queste parole, ascoltate:
«Per quale motivo, se è lecito, vi trovate in questa furiosa pena d'inferno?» chiese Canace alla falconcella su in alto. «E per dolore di morte o perdita d'amore? Sono questi infatti, secondo me, i due motivi che per lo più affliggono un cuore gentile; d'altri dispiaceri non conta neppur parlare... Siccome siete voi che v'accanite contro voi stessa, è chiaro che dev'essere l'ira o il terrore a spingervi a tanta crudeltà; non vedo nessuno infatti che vi tormenti... No, per amor di Dio, abbiatevi riguardo!... Ditemi piuttosto, che cosa potrebbe esservi d'aiuto? Non ho mai visto al mondo prima d'ora uccello o altro essere accanirsi così miseramente contro se stesso! Voi mi uccidete col vostro stesso dolore, tanta è la compassione che ho per voi. Per amor di Dio, scendete da quell'albero! Quant'è vero che sono la figlia di un re, se soltanto riuscissi a sapere la causa del vostro male, farei il possibile per porvi rimedio prima che fosse troppo tardi, così m'aiuti il gran Dio dell'universo! Presto... andrò a cercare erbe per curarvi subito le ferite!»
La falconcella allora, gemendo più che mai pietosamente, cadde di colpo a terra, dove rimase svenuta, morta, come una pietra : Canace la raccolse in grembo e ve la tenne finché quella non cominciò a riprendersi; e tornando in sé dallo svenimento, ecco quel che disse nel suo linguaggio di falconcella:
«Che a cuor gentile pietà corra veloce sentendo i propri simili penare, come si vede, è dimostrato ogni giorno dai fatti oltre che star scritto in autorevoli libri: cuor gentile emana dunque gentilezza... Ben comprendo che voi abbiate compassione del mio dolore, bella mia Canace, per quella pura bontà di donna che la natura ha posto in voi come precetto. Non è ch'io speri ormai di stare meglio, tuttavia per obbedire al vostro cuore generoso e perché altri imparino da me come attraverso il cucciolo si metta in guardia il leone, per questo solo motivo e a questo scopo, finché ne ho tempo e occasione, voglio, prima di morire, confessare la mia pena.»
E mentre costei diceva il suo dolore, l'altra piangeva come se stesse per tramutarsi in acqua. Pregandola dunque di calmarsi, così, in un sospiro, la falconcella sfogò il suo animo:
«Appena nata (me sventurata, quel giorno!), venni allevata in una roccia di marmo grigio, teneramente e al riparo da tutto: non sapevo neppure che cosa fossero le avversità, finché non imparai a volare in alto per il cielo... Viveva allora accanto a me un terzuolo, che pareva la fonte stessa della gentilezza, pur essendo pieno d'inganni e di tradimenti: sapeva ammantarsi così bene d'umiltà, sapeva tingersi così a modo d'onestà, di piacevolezze e di premure, che nessuno avrebbe mai pensato che fingesse, intrisa com'era la sua apparenza in tutti quei colori, proprio come un serpente che si nasconde sotto i fiori finché non gli pare il momento di mordere, quest'ipocrita dio dell'amore faceva complimenti e cerimonie, osservando esteriormente tutte le forme che si richiedono nel corteggiare. Come in una tomba, sapete, sopra tutto è bello e sotto c'è il cadavere, così quest'ipocrita era focoso e freddo nello stesso tempo. E seguiva in questo modo il suo scopo, senza che nessuno, all'infuori del demonio, riuscisse mai a sapere quel che voleva. Alla fine, dopo tutti i suoi pianti e i suoi lamenti e dopo che per anni lui finse d'essermi devoto, il mio cuore troppo pietoso e sciocco, completamente ignaro della sua suprema malizia, preoccupato anzi che potesse morire, dopo tutte le sue promesse e i suoi giuramenti, gli concedette il mio amore, a condizione però che il mio onore e la mia reputazione fossero sempre salvi, sia in pubblico che in privato. Insomma, credendo ai suoi meriti, gli diedi tutto il mio cuore e ogni mio pensiero (Dio e lui stesso sanno che altrimenti non avrei saputo fare!) e presi il suo cuore in cambio del mio per sempre. Ma dice bene il vecchio proverbio: il galantuomo e il ladro non la pensano alla stessa maniera... Quando lui vide che le cose erano arrivate al punto che gli avevo concesso tutto il mio amore, nel modo che vi ho detto, e che gli avevo dato il mio cuore sincero con quella generosità con cui lui giurava d'avermi dato il suo, allora quella tigre colma d'impostura si prostrò in ginocchio con tale devota umiltà e così profondo ossequio, che a vederlo pareva proprio un cortese innamorato e fosse come in estasi per la gran gioia. Neppure Giasone o Paride di Troia (...ma che dico Giasone? nessuno fin dai tempi di Lamech che, come sta scritto, fu il primo ad innamorarsi di due donne...), nessuno insomma da quando nacque il primo uomo, fu mai capace d'imitare, nemmeno per la ventimillesima parte, i sofismi della sua arte; nessuno fu mai degno di slacciargli i sandali in quanto a doppiezza, o di stargli vicino in quanto a finzione. E come sapeva dimostrarsi riconoscente! Le sue maniere avrebbero mandato in visibilio qualsiasi donna, per saggia che fosse, tant'era la squisitezza con cui sapeva dipingere e addolcire i suoi modi e le sue parole. E tanto io l'amavo, per quella sua devozione e per la sincerità che credevo nel suo animo, che, qualunque cosa l'avesse rattristato, seppure leggermente, appena lo sapevo, mi pareva di sentirmi la morte dentro il cuore. In somma, le cose arrivarono al punto, che la mia volontà divenne strumento della sua; la mia volontà, cioè, obbediva ormai alla sua in tutto, fin dove arrivava la ragione, naturalmente, sempre restando entro i confini dei mio onore. Non avevo mai avuto nulla di più caro di più amabile di lui, e Dio sa che non l'avrò mai!... Questo durò per più d'un anno o due, senza che di lui io non pensassi altro che bene. Ma alla fine, mentre ancora così stavano le cose, il caso volle che lui dovesse partire dal posto dove abitavamo. Non chiedetemi quanto dolore provassi, perché intanto non saprei descriverlo. Posso soltanto dirvi che imparai allora che cosa vuol dire dolore di morte, perché è quello che provai quando lui non poté più rimanere. Così un giorno mi disse addio, e lo fece in un modo così triste, che, vedendolo impallidire mentre parlava, credetti veramente ch'egli soffrisse quanto me. Ma poi, sempre credendo che fosse sincero, pensai che in realtà non avrebbe potuto star lontano molto, e ch'era giusto che partisse per farsi onore, come tanti altri: insomma, facendo di necessità virtù, mi rassegnai, giacché così ormai doveva essere. Gli nascosi come meglio seppi il mio dolore e, prendendolo per mano lo giuro per San Giovanni, così gli dissi: 'Ecco, sono completamente vostra; siate con me come io sono stata e sempre sarò con voi!'. Non c'è bisogno che vi ripeta che cosa rispose. Chi meglio di lui sapeva parlare, per poi agire nel peggior modo? Tanto, quand'ebbe ben parlato, fece come volle. Ah, dicono che ci vorrebbe un cucchiaio molto lungo, per mettersi a mangiare con un demonio. Alla fine dunque se ne andò per la sua strada, volando finché non arrivò dove a lui garbava. E appena poté riposarsi, scommetto che gli venne in mente quel proverbio che dice: 'Chiunque torna a sua natura, gode...' così mi pare che dica. Gli uomini, per loro natura, amano ciò che è nuovo, e questo vale anche per gli uccelli che si tengono in gabbia. Anche se ti prendi cura di loro notte e giorno, e nella gabbia ci metti paglia pulita e soffice come la seta, e li mantieni a zucchero, miele, pane e latte, pure, appena lo sportello rimane alzato, ecco che quelli rovesciano subito la coppa con la zampa e se ne scappano nel bosco a mangiar vermi, tanto piace loro cibarsi di cose nuove e a tal punto amano le novità; non c'è nobiltà di sangue che possa trattenerli... Così, ahimè, fece il terzuolo quel giorno! Per quanto fosse di nobili natali, giovane, gaio, piacente da guardare, umile e generoso, vide una volta volare una sparviera, e di questa s'innamorò improvvisamente tanto, che tutto il suo amore per me era bell'e andato ed egli venne meno ad ogni sua promessa... Ecco dunque che il mio amore è devoto a una sparviera ed io senza rimedio sono abbandonata!»
Così dicendo, la falconcella riprese a piangere e svenne di nuovo in grembo a Canace.
Immenso fu il dolore che provarono Canace e le sue donne per la sventura della falconcella, che ormai nessuno avrebbe potuto consolare.
Ma poi Canace la portò in grembo a casa e dolcemente la fasciò con alcune bende nei punti in cui s'era ferita col becco. Non fece che strappar erbe dal terreno e preparar nuovi e preziosi balsami dai bei colori, con cui curare la falconcella. Dandosi dal mattino alla sera d'attorno il più possibile, costruì a capo del letto una gabbietta e la ricoperse di velluto azzurro, simbolo della fedeltà che s'incontra solamente nelle donne; all'esterno la gabbia venne dipinta di verde e vi furono rappresentati tutti gli uccelli traditori, come scriccioli, terzuoli e gufi, e accanto a loro, per disprezzo, vennero dipinte gazze che stridevano e li rampognavano...
Ma lasciamo così Canace a curare la sua falconcella. Non vi parlerò più per ora del suo anello, fin quando non verrà a proposito per dire come la falconcella riavesse il suo amore pentito secondo quanto narra la storia, per mediazione di Cambalo, il figlio del re di cui vi ho già detto. D'ora innanzi m'intratterrò invece a parlare d'inaudite avventure e battaglie meravigliose. Vi dirò prima di Cambiscano, che conquistò ai suoi tempi svariatissime città; vi parlerò poi di Algarsife e di come si guadagnasse in moglie Teodora, per la quale si sarebbe trovato più volte in gran pericolo, se non fosse stato soccorso dal cavallo di bronzo; e vi parlerò infine di Cambalo che combatté in lizza coi due fratelli per Canace, prima di poterla conquistare. Ricominciamo dunque da dov'eravamo rimasti.
EXPLICIT SECUNDA PARS.
INCIPIT PARS TERCIA.
Apollo scaglia in alto il suo carro, fin nella casa del dio Mercurio, l'astuto...
Qui seguono le parole dell'Allodiere allo Scudiero,
e le parole dell'Oste all'Allodiere.
«In fede mia, Scudiero, te la sei cavata bene e con onore. Mi congratulo per il tuo ingegno!» disse l'Allodiere. «Considerando la tua età, messere, tu sai parlare, e come! Secondo me, non c'è nessuno qui che, se tu continuerai, ti sarà pari in eloquenza... e Dio ti mandi buona fortuna e ti faccia proseguire sulla via della virtù! M'ha fatto gran piacere sentirti parlare. Anch'io ho un figlio, ma, Trinità Santissima, non so quanto pagherei (anche venti sterline di terreni che mi capitassero ora subito in mano...) purché fosse un uomo della tua discrezione! A che servono intanto le terre, se all'uomo manca la virtù? Io l'ho rimproverato, questo mio figlio, e chissà quante volte dovrò ancora farlo, perché non vuol saperne d'essere virtuoso: non fa altro che giocare a dadi, spendendo e spandendo tutto quello che ha. E preferisce ciarlare con un garzone qualsiasi, piuttosto che intrattenersi con qualche gentiluomo, da cui potrebbe imparare un po' di maniere...»
«Accidenti alle vostre maniere!» disse il nostro Oste. «Ma via, Allodiere, perdio... sapete bene, messere, che ciascuno di voi deve narrare almeno uno o due racconti, se non vuol mancare alla sua promessa.»
«Questo lo so bene, signor mio,» disse l'Allodiere «ma vi prego, non prendetevela se scambio una parola o due con quest'uomo.»
«E invece narrate il vostro racconto senza far tante parole!»
«Va bene, messer Oste,» fece quello «obbedirò al vostro ordine. Ascoltate dunque quanto sto per dire... non è ch'io voglia contrariarvi; soltanto spero d'esserne in grado, e prego Iddio che possa piacervi, perché in tal caso saprei che qualcosa vale».

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