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lunedì 7 maggio 2012

BENVENUTO CELLINI E I DEMONI DEL COLOSSEO

Il Colosseo con la piazza omonima in una litografia
di Giuseppe Vasi (fonte: info.roma.it)

La più bella rovina della città. Il recinto nobile ove si manifesta la storia tutta. Arena dell’Impero. Divertimento delle masse. Inganno dei tiranni. L’emozione suprema quando tutti gli altri impeti vengono meno e si spengono. 3350 metri quadrati di nuda pietra tirati su in otto anni ininterrotti di lavori, che sfidano il tempo da più di 1900 anni. Il più imponente monumento della Roma antica che sia giunto fino alla nostra epoca. Amphiteatrum Caesarum. Colosso dei Cesari. Il Colosseo: un'ellisse di 527 metri di perimetro, che raggiunge picchi di 50 metri di altezza e che, nei suoi giorni migliori, è giunto ad ospitare fino a 50mila spettatori nei folli cento giorni che segnarono la sua inaugurazione. Un bagno di sangue da 10mila gladiatori in armi ed altre migliaia di prigionieri inerti, dati in pasto alle 50mila belve condotte a Roma dagli angoli più selvaggi e remoti dell’Impero.
Edificato sul limite orientale del Foro, è una meraviglia passata sotto le mani dei costruttori al soldo prima di Vespasiano, poi di Tito e Domiziano. Il simbolo di un Impero e di una città intenta a mettere in scena le sue glorie più effimere tra le curve avvolgenti e gli archi, tra le volte e le sabbie. Qui si consumarono i ludi gladiatori e gli spettacoli di caccia, le naumachie e le messinscene delle pagine più pugnaci della storia romana, i drammi - verosimili - della migliore mitologia, ed al contempo le tragedie – quelle orrendamente vere e crude - del martirio più sistematico della storia dell’Urbe. Cessato il clamore, mentre i nobilotti di una Roma ormai spogliata della sue velleità imperiali già dal VI secolo ne fanno scempio saccheggiandone i marmi per adornare le proprie dimore, dell’antica, ineffabile fama e della meraviglia dell’anfiteatro per eccellenza non rimangono che un pugno di versi:

Taccia la barbara Menfi il prodigio delle piramidi,
né il lavoro degli Assiri esalti più Babilonia;
né siano celebrati gli effeminati Ioni per il tempio di Diana;
l'altare dei molteplici corni faccia dimenticare Delo;
né i Cari portino più alle stelle, con lodi sperticate, il Mausoleo proteso nel vuoto.
Ogni opera cede dinanzi all'Anfiteatro dei Cesari, la fama parlerà ormai d'una sola opera al posto di tutte.
(Marziale, Liber de spectaculis, 1-7-8).

Ed un nugolo di congetture. Colosseo perché imponente. Colosseo perché cavato su dalla terra in prossimità del colossale marmo che riproduceva il tiranno Nerone, quel Colosso che dominava la città dai suoi oltre trenta metri di statura, aumentando se possibile il terror panico nutrito dalle folle per il folle imperatore. Colosseo, ancora, perché prospiciente al Colle Oppio, il Collis Isei sacro, per l’appunto, al culto di Iside, divinità protettrice della zona che, in suo onore, era anticamente nota come Iseo. Per Dio, il Colosseo è quanto di meglio ho visto a Roma: questo edificio mi piace, sarà magnifico una volta terminato, diceva con scherno Stendhal. Magnifico, certo, ed al contempo tanto incompleto, con la triste cerchia d’archi rimasta a presidio delle troppe pietre infrante, divelte, atterrate nell’arena un tempo gravida di sangue ed oggi ridotta a rigoglio di malerbe confuse. L’infelice poeta Shelley amava soffermarsi sulle fenditure terribili che – troppe - costellano la struttura dell’anfiteatro, perché coglieva dal loro vuoto un indizio di cielo. Ma Roma non è soltanto luce, ed il Colosseo è ricolmo di angoli bui. Testimone d’eccellenza dell’oscurità di casa nel Colosseo, uno scultore, orafo, scrittore cinquecentesco fiorentino. Benvenuto Cellini, l’artista. Figlio del versatile Giovanni, muratore ma anche suonatore e costruttore di strumenti musicali, e di Maria Lisabetta Granacci, Benvenuto nasce all’alba del XVI secolo, nel 1500. E’ il secondogenito, ed il padre inizialmente lo indirizza verso la carriera di musico notando in lui una predisposizione radicata sia nel canto che nel flauto. Ma i musici non hanno un grande futuro davanti a sé, ed i genitori esigono per Benvenuto una formazione ben più pragmatica. Firenze è la capitale indiscussa delle Belle Arti, mentre i suoi artigiani si fanno onore presso le migliori corti d’Europa. Quattordicenne, il ragazzo approda nella bottega di uno scultore, il Brandini. Ma questi ha già un figlio talentuoso, che riceverà gli onori della cronaca come Baccio Bandinelli e che, soprattutto, necessita di tutte le attenzioni paterne. 
Statua di Benvenuto Cellini
(fonte: chestofbooks.com)
Così Michelangelo Brandini offre la prima rozza formazione a Benvenuto, per poi destinarlo alla bottega di un conoscente che si diletta di oreficeria, il Marconi. Cellini, così, in pochi anni diventa padrone della materia e, più ancora, acquisisce precisa coscienza delle potenzialità che dormono nelle sue mani. Ma le mani di quel ragazzo così abile custodiscono segreti ben più terreni e molto meno aulici. Nel 1516, i due Cellini finiscono coinvolti in una rissa che sconfina oltre il lecito. Le autorità chiudono un occhio, in fondo i due non sono che ragazzi inesperti ed avventati. Ma quando Benvenuto finisce nuovamente al loro cospetto, complice un lacero di colluttazione ed intento a dimenarsi tra le braccia serrate degli sbirri, gli intimano di allontanarsi della città. Oppure pagherà con la vita. Il ragazzo non ci pensa poi troppo su. Siena dopotutto è dietro l’angolo, un rifugio discosto ma non troppo in cui attendere che le acque si calmino. Ma l’impeto, la passione non conosce requie. Un pazzo ne fa cento, lascerà scritto nella storia anni più tardi. I giorni di Cellini si consumano ora qui ora là, tra Bologna, ove compie gli studi, e Pisa, dove lavora nella bottega di un noto orefice quale Ulivieri Della Chiostra. Frattanto il tempo è trascorso, le acque sono tornate calme, e in quel di Firenze c’è sempre una famiglia che attende il suo ritorno. Benvenuto torna a casa, ritrova i genitori non troppo invecchiati dopotutto, ritorna a fare comunella, soprattutto, con il fratello maggiore Francesco, che nei bassi della città tutti chiamano Cecchino. E con le amicizie ritornano i guai. Nuova zuffa, nuovo esilio. A Siena, certo, che tuttavia non è che una tappa lungo la via che conduce più a sud, oltre la Maremma e le signorie toscane. Benvenuto arriva finalmente a Roma. Non ha ancora vent’anni, ma la sua fama di attaccabrighe è rimasta indietro, perduta tra le colline della Cinta Senese. Così, non è altro che un giovane apprendista come tanti, magari meglio. Allora trova facilmente un altro mestiere, nella bottega di Giovanni de' Georgis che gli offrirà tutte le conoscenze che ancora gli mancano per essere un uomo ed un artista. Nel 1524 arriva il commiato dal maestro. Benvenuto ha fatto tanta strada, ed il soggiorno romano, complice il suo essere persona sfacciatamente alla mano, gli ha fruttato infiniti contatti con artisti e, soprattutto, orefici. Cellini ha sperimentato ed appreso tanto. Adesso è pronto per un’altra bottega. La sua. Sono anni crudeli, quelli, e Roma non è più un baluardo. Nemmeno il Santo Padre coi suoi manti pregiati e il suo regno terreno la proteggono dalle orde di invasori. Calano i Lanzichenecchi nel 1527, il popolo si serra in casa o viene falciato. Clemente VII corre, corre più in fretta del volgo indifeso, e per un soffio sfugge ai nuovi barbari asserragliandosi dietro i bastioni di Castel Sant'Angelo. Con lui il fior fiore della guardia nobile, e le truppe radunate in fretta e furia nelle uniformi raffazzonate quando non addirittura cenciose. Benvenuto chiude bottega. E’ giovane e vigoroso, ed il suo temperamento focoso ben si adatta a quell’èra violenta. Con alcuni dei suoi infiniti sodali e conoscenti partecipa alla difesa del Papa. E’ svelto con la lama, ma con l’archibugio gli riesce addirittura il colpaccio. Uccide Carlo III di Borbone, che si accascia in una pozza di sangue e polvere da sparo mentre i pallini del trombone fracassano perfino l’armatura del suo successore e principe d’Orange che gli cavalca allato e rimane ferito a terra. Ma anche l’inferno prima o poi passa: terminato il sacco e volatilizzati i Lanzichenecchi, Cellini raccoglie tutti gli artifici dei quali la sua arte è capace e si dirige a nord. A Mantova, per l’esattezza, in pieno feudo Gonzaga. Benvenuto è al servizio dei signori della città. E’ stimato e si fa conoscere per il suo stile deciso, e per quel tocco sopraffino che non lo abbandonerà mai più. Non ha ancora compiuto trent’anni che un messo arrivato da lontano si presenta al suo cospetto. E’ un messaggero del Papa. Clemente VII ha un incarico per lui. Stampatore ufficiale della zecca pontificia. Un signor mestiere cui Benvenuto non può essere indifferente. L’artista fa armi e bagagli e torna a Roma. Nell’Urbe ritrova Cecchino, che nel frattempo, da primogenito di razza ed inguaribile testa calda, ha intrapreso la nobile carriera dell’uomo d’arme. Al momento milita in qualità di soldato di ventura tra le truppe del Papa. Domani sarà altrove. Sempre se sopravvive all’antipatia granitica che le truppe regolari, malpagate e soggette ad un codice tra i più rigidi dell’epoca, gli riservano. Il destino di Francesco Cellini è già segnato. Nel 1529, l’ennesima rissa arriva ad un esito inatteso, ed a rimanere al suolo senza vita è il fratello dell’artista. Benvenuto stavolta non c’era a guardagli le spalle. Iniziano a circolare voci fosche su quello stampatore che ha per fratello un mercenario morto ammazzato. Dicerie che nemmeno il secondo incarico ufficiale a Mazziere della scorta del Santo Padre, ricevuto direttamente da quest’ultimo sulla scia del successo riportato nella difesa dai Lanzichenecchi, riesce a spegnere. Dall'inizio del 1533 viene rimosso sia da entrambi gli incarichi. Ecco cosa succede a farsi nemici come Pompeo de’ Capitaneis, il più potente – ed influente – degli orefici romani prima che quel fiorentino focoso rubasse la scena a tutti. E’ troppo. Benvenuto ha perduto in poco tempo un fratello, due incarichi e tutto il suo prestigio. La rabbia, quella no. Quella rimane e lievita, finché esplode. La scintilla è l’ennesima avversità che il tempo riserva a Benvenuto. Clemente VII cede il posto a Paolo III, il Farnese. Un Pontefice che, forse, non sarà tanto benevolo con Benvenuto. Di certo, se quelle voci permangono, il suo futuro sarà nero. Allora Pompeo deve morire. Cellini non ci pensa un attimo e lo fa fuori durante l’interregno tra i due papi, nell’ora del lupo in cui non è ancora tramontato il sole ma nemmeno sorta la luna. L’arguzia gli vale il riscatto, ed il Farnese, una volta salito al Soglio di Pietro, lo assolve dalle accuse di omicidio. 
I negromanti inglesi John Dee ed Edward Kelley evocano
lo spirito di una persona deceduta, illustrazione di Ebenezer
 Sibly, Astrology by Sibly, 1806 (fonte: wikipedia.org)
Il vento è cambiato, forse. Ma di quei tempi perfino i Papi figliano, e Paolo III non è da meno. Ha un figlio, Pier Luigi, che pecca di temperamento violento e se la prende sovente con i personaggi più in vista. Cellini può diventare un facile bersaglio, e non ha alcuna intenzione di prestare il fianco ad angherie di sorta. Così fugge da Roma, per tornare a Firenze dove trova nella corte di Alessandro de’ Medici, il Duca, un facile baluardo alla sua tempestosa esistenza. Non passa tuttavia molto tempo che il Papa lo fa richiamare. Resterà a Roma fino al 1537, quando si darà ad una fuga improvvisa alla volta della Francia e del sovrano Francesco I. Passerà per Padova, lavorando al servizio del cardinale Pietro Bembo, prima di raggiungere Versailles e fare dietrofront perché non omaggiato di alcun incarico dal Roi. Forse nel suo destino deve esserci Roma. Rientra in città, ma è un passo falso, perché la astuzie del Farnese gli valgono l’accusa formale di aver trafugato alcuni degli ori dell’Urbe complici il caos del Sacco. L’accusa non è dimostrabile, ma la parola della progenie papale è infallibile. Così Cellini finisce nuovamente in Castel Sant’Angelo, stavolta non per difendere il Santo Padre ma sé stesso. Verrà gettato nelle segrete, per il soggiorno più lungo e buio della sua vita. Ma il suo spirito non si fa domare dalle catene, così Benvenuto progetta e realizza una rocambolesca fuga. E’ l’apice degli attriti con la famiglia Farnese. Una volta fuori dalle carceri, Cellini riprende la via della Francia e, questa volta, ottiene attenzione e numerosi incarichi dal Re. Sembra tutto rose e fiori, ma presto sul capo di Benvenuto finisce per pendere una nuova condanna. Una delle sue modelle lo denuncia per abusi sessuali. Sodomia, per la precisione. All’epoca, si tratta di un crimine che viene punito con particolare severità in quanto atto di perversione assoluta della natura. L’episodio, che lo trascina in tribunale e gli fa perdere parecchio prestigio ed altrettanti incarichi, fa il paio con l’antipatia che il Cellini suscita in Madame d’Etampes, favorita di Sua Maestà. Benvenuto viene condannato a quattro anni di prigione, subito commutati nella reclusione domiciliare. Ma il dissidio è troppo profondo, ed all’artista, una volta scontata la condanna, non resta che riprendere la via. Torna in Italia, a Firenze per la precisione, dove viene acclamato Accademico presso la Compagnia delle Arti del Disegno appena fondata da un altro Medici, Cosimo I. Ormai Benvenuto sente il peso dei suoi anni, tanto più oneroso per una vita vissuta freneticamente come la sua. Svelto di lingua e di coltello, schietto come i bassi per i quali amava perdersi a notte fonda, Benvenuto Cellini trascorre i suoi ultimi anni d’artista mettendo per iscritto – dettando, per la precisione, al quattordicenne e malaticcio figlio di un certo Michele di Goro, originario del Valdarno – la sua monumentale autobiografia. Un’opera per il titolo della quale sceglie il termine che meglio ne rappresenti il viluppo di fatti e fattacci, intrighi e cronache picaresche. La Vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze, o più semplicemente Vita. Più che un resoconto puntuale sull’esistenza di uno dei più geniali artisti del XVI secolo, un masterpiece quanto a vivacità espressiva, iperbole e ricchezza linguistica. Non ci sono orpelli, non c’è retorica. E’ un’istantanea diretta e sgargiante, insomma, di un’epoca caleidoscopica. Molti critici, rileggendone il testo nel corso dei secoli, hanno ritenuti fatti e primati narrati come frutto della spiccata verve, o meglio della pura megalomania imputata all'autore. Oggi si è invece riusciti a stabilire che, fatti salvi alcuni grossolani errori, la Vita è di gran lunga un'opera veritiera, e come tale verificabile nella gran parte dei pur singolari fatti narrati fra le sue infinite pagine. Perfino quando, nel sessantaquattresimo capitolo, l’opera pone sul cammino dell’estroso e geniale artista il glorioso rudere dell’Anfiteatro Flavio, che in ossequio ad una certa tradizione popolare romana, diventa teatro di una spaventosa esperienza notturna.


"Mi accadde per certe diverse stravaganze, che io presi amicizia di un certo prete siciliano, il quale era di elevatissimo ingegno ed aveva assai buone lettere latine e grecie. Venuto una volta in un proposito d’un ragionamento, in nel quale s’intervenne a parlare d’arte della negromanzia, alla qualcosa io dissi: grandissimo desiderio ho avuto tutto il tempo della vita mia di vedere o sentire qualche cosa di quest’arte. Alle qual parole il prete aggiunse: forte animo e sicuro bisogna che sia di quell’uomo che si mette a tale impresa. Io risposi che della fortezza e della sicurtà dell’animo me ne avanzerebbe, purché i’ trovassi modo a far tal cosa. Allora rispose il prete: se di cotesto ti basta la vista, di tutto il resto io te ne satollerò. Così fummo d’accordo di dar principio a tale impresa. Il detto prete una sera infra l’altre si mise in ordine, e mi disse che io travassi un compagno, insino a due. Io chiamai Vincenzio Romoli mio amicissimo, e lui menò seco un pistoiese, il quale attendeva ancora lui alla negromanzia. Andaticene al Colosseo, quivi paratosi il prete a mo’ di negromante, si mise a disegnare i circuli in terra con le più belle cirimonie che immaginar si possa al mondo; e ci aveva fatto portare profummi preziosi e fuoco, ancora profummi cattivi. Come e’ fu in ordine, fece la porta al circolo, e presoci per mano, a uno a uno ci messe drento al circulo; di poi compartì gli ufizi; dette il pintaculo in mano a quell’altro suo compagno negromante, agli altri dette la cura del fuoco per e’ profumi; poi messe mano agli scongiuri. Durò questa cosa più d’una ora e mezzo; comparvero parecchie legioni (di diavoli), di modo che il Culiseo (Colosseo) era tutto pieno. Io che attendevo ai profumi preziosi, quando il prete cognobbe esservi tanta quantità si volse a me e disse: Benvenuto, dimanda lor qualcosa. Io dissi che facessino che io fussi con la mia Angelica siciliana. Per quella notte, noi non avemmo risposta nessuna; ma io ebbi bene grandissima satisfazione di quel che io desideravo di tal cosa. Disse il negromante, che bisognava che noi andassimo un’altra volta e che io sarei satisfatto ai tutto quello che io domandavo, ma che voleva che io menassi un fanciulletto vergine. Presi un mio fattorino, il quale era di dodici anni in circa, e meco di nuovo chiamai quel ditto Vincenzio Romoli, e per essere nostro domestico compagno un certo Agnolino Gaddi, ancora lui menammo a questa faccenda. Arrivati di nuovo al luogo deputato, fatto il negromante le sue medesime preparazione con quel medesimo e più ancora meraviglioso ordine, ci misse in nel circolo, qual di nuovo aveva fatto con più mirabile arte, e più mirabil cerimonie; di poi quel mio Vincenzio diede la cura dei profumi e del fuoco; insieme la prese il detto Agnolino Gaddi: dipoi a me pose in mano il pintaculo qual mi disse che io lo voltassi secondo i luoghi dove lui m’accennava, e sotto il pintaculo tenevo quel fanciullino mio fattore. Cominciato il negromante a fare quelle terribilissime invocazioni, chiamato per nome una gran quantità di quei demoni capi di quelle legioni, e a quelli comandava per la virtù e potenzia di Dio increato, vivente ed eterno, in voci ebree, assai ancora greche e latine; in modo che in breve di spazio si empiè tutto il Culiseo l’un cento più di quello che avevan fatto quella prima volta. Vincenzio Romoli attendeva a fare fuoco insieme con quell’Agnolino detto, e molta quantità di profummi preziosi. Io per consiglio del negromante, di nuovo domandai potere essere con Angelica. Voltosi il negromante a me, mi disse: senti che gli hanno detto? che in ispazio di un mese tu sarai dove è lei; e di nuovo aggiunse, che mi pregava che io gli tenessi il fermo (cioè stessi saldo), perché le legioni eran l’un mille più di quel che lui aveva domandato, e che l’erano, le più pericolose; e poi che gli avevano istabilito quel che io avevo domandato, bisognava carezzargli, e pazientemente gli licenziare. Dall’altra banda il fanciullo, che era sotto il pintaculo, ispaventatissimo diceva, che in quel luogo si era un milione di uomini bravissimi, e’ quali tutti ci minacciavano: di più disse, che gli era comparso quattro smisurati giganti, e’ quali erano armati e facevan segno di voler entrare da noi. In questo il negromante, che tremava di paura, attendeva ai profummi. Io, che avevo tanta paura quanto loro, m’ingegnavo di dimostrarla manco, e a tutti davo meravigliosissimo animo; ma certo io m’ero fatto morto, per la paura che io vedevo nel negromante. Il fanciullo s’era fitto il capo infra le ginocchia, dicendo: io voglio morire a questo modo, perché, morti siamo. Di nuovo io dissi al fanciullo: queste creature son tutte sotto di noi, e ciò che tu vedi si è fumo e ombra; sí che alza gli occhi. Alzato che gli ebbe gli occhi, di nuovo disse che era morto, e che non voleva più vedere. Il negromante mi si raccomandò pregandomi che io gli tenessi il fermo, e che io facessi fare profumi di zaffetica (quelli puzzolenti); così voltomi a Vincenzio Romoli, dissi che presso profumassi di zaffetica. In mentre ch’io così diceva, guardando Agnolino Gaddi, il quale era tanto ispaventato che la luce degli occhi aveva fuor del punto, ed era più che mezzo morto, al quale dissi: Agnolo, in questi luoghi non bisogna aver paura, ma bisogna darsi da fare ed aiutarsi; sicché mettete su presto di quella zaffetica. Il ditto Agnolo, in quello che lui si volse muovere, fece una istrombazzata di coregge con tanta abundanzia di merda, la quale potette molto più che la zaffetica. Il fanciullo a quel gran puzzo e quel romore alzato un poco il viso, sentendomi ridere alquanto, assicurato un poco la paura, disse che se ne cominciavano andare a gran furia. Così soprastemmo in fino a tanto che e’ cominciò a sonare i mattutini. Di nuovo ci disse il fanciullo, che ve n’era restati pochi, e discosto. Fatto che ebbe il negromante tutto il resto delle sue cerimonie, spogliatosi e riposto un gran fardel di libri che già gli aveva portati, tutti d’accordo seco ci uscimmo del circulo, ficcandosi l’un sotto l’altro; massimo il fanciullo, che s’era messo in mezzo, ed aveva preso il negromante per la vesta e me per la cappa; e continuamente in mentre che noi andavamo inverso le case nostre in Banchi lui ci diceva che dua di quelli, gli aveva visti nel Culiseo, ci andavano saltibeccando innanzi, or correndo su pei tetti e or per terra. Il negromante diceva che di tante volte quante lui era entrato nelli circuli, non mai gli era intervenuto una così gran cosa, e mi persuadeva che io fussi contento di voler esser seco a consacrare un libro, dal quale noi trarremmo infinita ricchezza, perché dimanderemmo li demonii, che ci insegnassino delli tesori, i quali n’è pien la terra, e a quel modo noi diventeremo ricchissimi; e che queste cose d’amore si erano vanità e pazzie, le quali non rilevano nulla. Io gli dissi, che se io avessi lettere latine, che molto volentieri farei tal cosa. Pur lui mi persuadeva, dicendomi, che le lettere latine non mi servivano a nulla, e che se lui avesse voluto, trovava di molti con buone lettere latine; ma che non aveva mai trovato nessuno d’un saldo animo come era io, e che io dovessi attenermi al suo consiglio. Con questi ragionamenti noi arrivammo alle case nostre, e ciascuno di noi tutta quella notte sognammo diavoli".
(Benvenuto Cellini, Vita scritta per lui medesimo; libro I, cap. LXIV; 1558-1562)

Benvenuto Cellini cova un grande desiderio. Assistere ad una pratica di negromanzia. L’occasione gli si presenta insieme all’apparizione di un non precisato conoscente che esercita il doppio – e dubbio – ufficio di prete ed evocatore. Cellini è pressante nelle sue richieste al negromante, e presto questi cede. Lo condurrà al Colosseo, un monumento in totale abbandono in cui si consuma tanta parte della vita segreta di Roma, di giorno e, soprattutto, di notte. All’epoca l’artista è perdutamente innamorato di un’avvenente giovane nata in terra di Sicilia e di nome Angelica. Ma l’amore dei due giovani è malamente contrastato dalla madre di lei, che riesce a separarli. A Benvenuto, per svagarsi e ricercare distrazione se non sollievo in altre faccende, non resta che soddisfare la sua curiosità in materie occulte. Per due volte, radunata una compagnia di ardimentosi, Cellini ed il prete si danno convegno nell’anfiteatro per richiamare legioni di demoni. Ma quelle che dovevano essere cerimonie di semplice evocazione si trasformano presto, e con sommo raccapriccio dei partecipanti, nel raduno di una pletora di pericolosi demoni che terrorizzano con la loro sola presenza gli incauti apprendisti stregoni ed il cerimoniante stesso. Una pagina forse esagerata, certo sorprendente, sicuramente ridicola nell’epilogo tragicomico della zaffetica umana del povero Agnolo. Eppure, nella cronaca in generale, nella maniacalità dei dettagli, nelle tinte forti della narrazione c’è del realismo. E’ la firma del Cellini, il marchio che lo rende letterato inconfondibile, tanto truculento e spietato da non poter essere al contempo mendace. Scultore. Pittore. Orafo. Musicista. Soldato, perfino. Duellante, certo. Soprattutto, artista. Ed ancor di più, animo profondamente curioso e travagliato. Benvenuto Cellini risulta essere stato perfino amante di negromanzia, l’arte di evocare gli spiriti. Un passatempo esotico per l’epoca, che procurava brividi vari ai tanti coraggiosi e sconsiderati che in esso si cimentavano, sacrificando le proprie notti e, a volte, la propria stessa sanità mentale. Durante uno dei suoi tanti soggiorni romani, Benvenuto tira in ballo un amico prete, che per diletto si è dato all’oscura arte della negromanzia. Potrebbe sembrare un ossimoro, ma non è così. Esiste, o almeno è esistito per lungo tempo, un confine, sebbene labile, deputato a spartire il terreno della negromanzia da quello dell’evocazione più smaccatamente diabolica. Si tratta della medesima separazione esistente in seno alla magia, distinguibile tra ramo popolare e ramo colto o d’elezione. La pratica di evocare i morti, specialmente per ottenere oracoli circa il futuro proprio o altrui, è pratica antichissima, tanto che perfino la tradizione ebraica nomina al riguardo il caso della maga di Endor, evocatrice del defunto profeta Samuele per conto del re Saul che in questa sede riceve il triste vaticinio sulla sconfitta da parte dei Filistei e la sua stessa, conseguente morte. Il Medioevo è l’epoca della magia in senso stretto, ma è al contempo un’èra di transizione, in cui molti confini devono ancora delinearsi in modo netto. E’ il caso della separazione tra magia nera e bianca, del distinguo tra stregone evocatore di demoni e mago conoscitore degli spiriti. La stessa Chiesa cattolica romana non aveva in realtà elaborato una condanna netta nei confronti della negromanzia in quanto arte dell’illusione. La pratica negromantica veniva invece rigettata in quanto trasgressione alle leggi divine, che impongono da sempre il rispetto per i trapassati e la loro pace eterna. Nonostante il giudizio sostanzialmente negativo, la negromanzia risultava in fin dei conti un atto meno esecrabile rispetto al satanismo. Il negromante infatti non adorava in alcun modo i demoni, e nemmeno giungeva a stipulare patti con tali entità, perché suo esclusivo appannaggio era stabilire un ponte con l’Oltretomba. In negromante era una sorta di medium, insomma. Ma Benvenuto Cellini, tra le pagine della sua Vita, menziona un negromante che evoca demoni, anzi legioni di demoni, non spiriti di morti. Perché? Ancora, chiamare in causa elementi quali il circolo magico ed il pentacolo significa produrre rimandi a pratiche stregonesche, non certo assimilabili alla magia bianca, Ma il fine della scellerata evocazione non è compiere il male, né nuocere a qualcuno. Quindi non siamo in presenza di magia nera. Allora perché questa confusione? E’ possibile che l’arguto Cellini abbia volutamente parlato di negromanzia per evitare di incorrere nelle ire – ed ancor più nelle censure – dell’Inquisizione? E quanto c’è di vero in questo terrificante racconto? Di certo, nel racconto di Cellini si respira un realismo inconfondibile, a tratti perfino grossolano. In tutta Europa, poi, la pratica negromantica era piuttosto comune sia nel tardo Cinquecento che all'inizio del XVII secolo. Di sicuro, è dal VI secolo che circolano per Roma oscure leggende circa gli abitatori inferi del Colosseo. E, cosa ancor più certa, l’estro di Benvenuto Cellini non ci fa sembrare cosa così assurda una sua partecipazione a qualche oscuro rito proibito. Dopotutto, in ogni genio c’è un pizzico di follia. Ed un pazzo ne fa cento, come scriveva cinquecento anni fa un rissoso fiorentino, scultore, orafo, soldato, scrittore. 

Articolo di Simone Petrelli. Tutti i diritti riservati

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