Sono
sempre rimasto affascinato dal passo tratto dal Libro dell'Arte di
Cennino Cennini in cui l'autore dichiara che Giotto "rimutò l'arte del
dipignere di greco in latino e ridusse al moderno", dalla capacità
di riuscire, con poche parole, a restituire perfettamente, ancora oggi, come un
osservatore medievale dovette cogliere ed apprezzare le novità del portato
giottesco. Ma
in cosa consistono queste novità? Tutti noi siamo stati studenti, e
reminiscenze di quei tempi ci ricordano che Giotto portò nei suoi dipinti
quella che in arte viene chiamata plasticità, o per usare un gergo più in voga
oggigiorno, tridimensionalità. Fu questa
la sola novità della sua arte, così importante da fargli meritare l'elogio
pocanzi citato? O la "latinità" della pittura di Giotto scaturisce
anche da altri elementi? Per
rispondere a queste domande ci aiuteremo con l'osservazione di alcuni dipinti
del pittore toscano che proveremo a confrontare con quelli di un altro grande
artista che lo ha preceduto, ricreando un dualismo debitore dei versi di Dante
Alighieri: Cimabue/Giotto. Prima
di tutto, però, sarà buona cosa comprendere appieno il senso delle parole di
Cennino Cennini. Perché introduce i due aggettivi greco e latino? Che valenza
avevano per lui e per coloro che sapevano leggere le opere d'arte nel medioevo?
Quando egli parla di arte greca è ovvio che non si stia riferendo a quella
della Grecia antica, a rimandi a Fidia, Lisippo né tantomeno all'arte
ellenistica. La Grecia tirata in ballo è quella del suo tempo, dell'Impero
Romano d'Oriente, e l'arte greca cui egli allude è quella che oggi chiamiamo
bizantina. Meglio essere subito chiari: la pittura bizantina che ha in mente
non è quella prodotta nella capitale dell'impero, ma la sua declinazione, per
così dire, italiana.
Per cosa si caratterizzava questa pittura? La tanto
decantata bidimensionalità (non è che le figure non abbiano un accenno di terza
dimensiome, ma sembrano come ritagliate da un foglio ed incollate su uno
sfondo; sembra che l'albero, la casa o la montagna poste dietro di loro siano
così prossime agli elementi in primo piano che tra loro non possa circolare
nemmeno l'aria) non è che un elemento secondario, quasi una conseguenza, di un
valore sentito come fondante della qualità di un dipinto: l'eleganza. Eleganza
data attraverso la preziosità dei materiali, è vero, ma prima di tutto
attraverso la sinuosità e la delicatezza del disegno, ed il disegno è
sostanzialmente costituito dalla linea, elemento bidimensionale per
antonomasia. Su questa considerazione squisitamente artistica si innestava
tutto un sistema teologico-filosofico di lettura dell'opera (relazionarsi
all'immagine sacra significava sostanzialmente relazionarsi alla figura sacra
ritratta o, per essere più specifici, significava relazionarsi a ciò che di
sacro, non di corporeo, essa aveva) che ne accentuava l'apprezzamento per i
valori della linea e per tutto quanto riuscisse a far percepire la
manifestazione, la presenza del sacro, osservandola. E' in quest'ottica che
deve essere letto un altro elemento che caratterizza fortemente questa pittura:
il fondo oro. Al di là delle considerazioni sulla preziosità del materiale,
pure importanti, esso si faceva veicolo di irradiazione della luce, la più
forte metafora sensibile della presenza del divino, di una luce diversa da
quella dei raggi del sole o di una fonte di illuminazione artificiale, e questa
sua alterità rispetto all'esperienza quotidiana ben si prestava a dare un'idea,
seppur vaga, all'osservatore di cosa potesse essere la luce divina. L'oro poi
arrivava ad invadere molta parte dello sfondo, lasciando che l'occhio perda
qualsiasi coordinata spaziale che possa ancorarlo alla realtà. Ciò che si sta
vedendo, quindi, non si configura come spazio di questo di mondo, bensì, come
quello di un altro, che per la sua luminosità non può essere che quello del
Paradiso.
Bidimensionalità
e perdita di agganci con la realtà. Se ci pensiamo bene è la negazione
dell'arte classica. Anche questo non è un caso. Figure che perdono volume,
chiamiamole poco statuarie, forse questo aiuterà nella comprensione, e che non
sono inserite in uno sfondo reale aiutano meglio l'osservatore a capire che
l'arte che si ha di fronte non è pagana, che non si sta ammirando un idolo dei
tempi antichi. Non è solo il contenuto a definire, per così dire, la
religiosità di un'opera. A ben vedere è quello che è avvenuto, a livello
testuale, prediligendo il libro, il codice, al rotolo, al papiro. Ma
questi elementi che vengono tenuti fuori dall'arte cristiana "greca"
sono quelli che, per Cennino,
qualificano l'arte "latina" di Giotto. Passiamo allora a comprendere
cosa volesse dire questo termine per l'autore, come abbiamo fatto per l'altro. Se
greco aveva, come abbiamo visto, una valenza geografica, latino non si
riferisce tanto ad occidentale (lo stile che fiorisce nell'epoca in cui Giotto
è attivo è il gotico, ma anche questo fa dell'eleganza della linea un valore
fondante della qualità dell'opera, per certi versi ancora di più che per l'arte
bizantina), quanto ad un periodo, quello antico, nello specifico a quello
dell'antica Roma. Torniamo
allo stile gotico pocanzi menzionato. Uno dei referenti spesso tirati in ballo
per spiegare l'innovazione della pittura giottesca è proprio la scultura
gotica. Questo è vero a patto però di
capire che non è il gotico tout-court ma solo un suo aspetto, la sua volontà di
voler restituire, come aveva detto Federico II di Svevia, ea quae sunt sicut
sunt, vale a dire di ritrarre le cose come appaiono nella realtà, nel
nostro mondo, all'occhio.
Spunto che viene dato al gotico proprio dallo studio
dell'arte antica, cosa che avviene soprattutto nel nostro Paese. Riflettiamo su
quanto detto: rivoler dare "naturalezza" a quanto dipinto e scolpito,
essere artista "latino" diviene allora, allo stesso tempo, ripresa
dell'antico ma anche scelta di voler realizzare un'arte nuova, che guarda al
proprio tempo. Una precisazione a questo punto è d'obbligo. Questi cambiamenti
in campo artistico furono possibili poichè diversa era la sensibilità religiosa
del XIII e del XIV secolo. Pensiamo solo a quale dovette essere l'impatto
sull'uomo medievale della visione francescana dell'aldiquà, di un mondo terreno
che non veniva più percepito come luogo di tentazione e di lotta per ottenere
il premio nella vera vita, quella ultraterrena, ma dono per cui ringraziare il
Creatore, un mondo in cui persino una belva feroce ed ostile come il lupo
poteva essera chiamato fratello. Elementi
che allora caratterizzano un'arte siffatta sono quelli che si rifanno alla
nostra realtà, non alludono a quella ultraterrena. La plasticità dei corpi, di
tutti i corpi: e tutto nei dipinti di Giotto, rocce ed alberi compresi sembra
avere, oltre che un volume, un spazio da occupare, un peso, quasi che più che
un dipinto stessimo ammirando un bassorilievo colorato. Sarebbe bello a questo
punto dilungarsi sulle influenze della coeva scultura, in particolare dei
Pisano, ma ci porterebbe troppo lontano, (basti qui dire che l'influsso
dell'arte antica è forte in questi artisti). Ed è evidente il naturalismo se
non un vero e proprio realismo delle scene: se non in tutte le sue opere, in
diverse il fondo oro scompare; le case che osserviamo sono case che all'epoca
si potevano vedere nei centri abitati; l'abbigliamento è quello realmente
indossato allora. Guardare un alcuni dipinti di Giotto, verrebbe da dire, è un
po' come guardare un'istantanea dei primi del Trecento, cosa impossibile se non
fosse stata in atto una rivalutazione della vita terrena. Ed
eccoci quindi a fare il ripromesso confronto "sul campo". Per
iniziare due crocifissi: quello dipinto da Cimabue per la chiesa di San
Domenico ad Arezzo e quello di Giotto per la Chiesa di Santa Maria Novella a
Firenze. Non
bisogna essere storici dell'arte per osservare, soprattutto nella resa delle
anatomie, una differenza abissale. Il Cristo di Cimabue è un Cristo elegante e
regale, misurato nel dolore, dall'andamento del corpo sinuoso, ma che non
sembra fatto di carne bensì di metallo, un corpo in sottile lamina di metallo
sbalzato. Ventre, petto, muscoli delle braccia ed altre parti paiono quasi
ottenuti da un semplice rialzo dello stesso piano del resto del corpo, col
sospetto che, proprio per rialzarlo, al di sotto non vi sia nulla. Questo
effetto crea profondità, è vero, ma i piani di scansione non sono che due:
parti i rilievo e le altre retrostanti. Quello che vediamo si inserisce
perfettamente nel filone bizantino, o per dirla come Cennino, greco.
Quanto
appare invece diverso il corpo sofferente del Cristo giottesco! Un corpo in cui
i valori della plasticità, complice l'aver collocato la figura di
trequarti, sono forti, che sembra
sottoposto alle leggi della gravità per come ci appaia pesante nell'abbandono
in lui del soffio vitale. Se non fosse inchiodato, ci vien da pensare, sarebbe
già caduto a terra, forse rotolato lungo il crinale del Golgota. Già, perché il
pittore non ci risparmia neppure la collocazione geografica, con quell'accenno
di cima rocciosa triangolare su cui è stata fissata la croce. Nel suo corpo
privo di vita che si protrae verso di noi nulla rimanda nell'occhio
all'eleganza del disegno. No, qui non vi è nulla di elegante e misurato ma la
forza come di un corpo scolpito, e monumentalità, complice la visione dal sottinsù.
Decisamente, alla luce di quanto detto in precedenza, sì può definirlo Cristo
latino. Concludiamo
con un secondo confronto, passando dal Figlio alla Madre. Osserviamo la Madonna
in trono di Cimabue, oggi al Louvre. Le anatomie dei personaggi che compongono
la scena (mi stava per scappare un affollano, ma la disposizione è troppo
ritmata e cerimoniosa per poter usare questo verbo!) hanno un maggior accenno
di plasticità rispetto al Cristo di Arezzo solo nell'ovale delle teste. Ancora
una volta a prevalere è il valore lineare, a scapito della profondità. Non c'è
negli angeli, che non scorrono dal primo piano al fondo ma dal basso verso
l'alto, non c'è nella Vergine e nel trono in tralice, dove ancora una volta
percepiamo un primo piano costituito dal Bambino, dalla gamba sinistra della
Madonna e dalle parte inferiore del trono che sembra fuggire prospetticamente
(ma forse è una parola grossa) indietro, rapidamente, ma la cui corsa verso il
fondo si ferma altrettanto rapidamente per la subitanea presenza dello
schienale del trono e della parte superiore della Vergine, che sono percepiti
tra l'altro come appartenere allo stesso piano. Ancora, soprattutto negli
angeli, è presente quella bidimensiolalità di cui si accennava all'inizio e che
fa apparire i loro corpi come ritagliati ed incollati uno sopra l'altro, senza
che nemmeno l'aria possa passare tra loro. Quale
confronto potremo ora fare, se non con la celeberrima Madonna d'Ognissanti
giottesca conservata negli Uffizi? A separare i due capolavori sono solo
trent'anni, ma i linguaggi sono quantomai diversi. Anche per questo suo dipinto
si sprecherebbero gli aggettivi che rimandano alla plasticità scultorea
dell'insieme, basti ammirare il baldacchino su cui la Vergine è seduta. La
Madonna stessa sembra citare, nella sua corporeità, nel suo peso, una scultura
antica, una dea mater romana. Non bastasse questo, le figure di contorno questa
volta affollano per davvero la scena, si fanno corona attorno al centro della
scena in modo da dare realmente il senso della
profondità. Ad esser pignoli un
elemento greco resta, il fondo oro, ma è reso necessario dalla sacralità della
scena, e in questo l'artista non poteva essere troppo avanti con i tempi: era
pur sempre un artigiano, seppur di lusso, che doveva vivere del proprio lavoro!
Un'ultima
cosa. Bisogna tenersi lontani dal rischio di tramutare un confronto del genere
in un confronto di valore dell'artista tout-cout. Giotto non è un artista più
bravo e talentuoso di Cimabue, entrambi sono figli dell'epoca in cui sono
vissuti e ne hanno rispecchiato le sensibilità artistica, più volta a cogliere,
consentitemi la parafrasi, lo spirituale coll'arte in Cimabue, più aperta a
rivalutare, e quindi ad indagare, i doni del divino già in questa vita per
Giotto.
Articolo di Mario La Piano. Tutti i diritti risevati
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