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martedì 23 settembre 2014

RIMUTAR L'ARTE DI GRECO IN LATINO: LE PRINCIPALI CARATTERISTICHE DELLA PITTURA DI GIOTTO

Sono sempre rimasto affascinato dal passo tratto dal Libro dell'Arte di Cennino Cennini in cui l'autore dichiara che Giotto "rimutò l'arte del dipignere di greco in latino e ridusse al moderno",  dalla capacità di riuscire, con poche parole, a restituire perfettamente, ancora oggi, come un osservatore medievale dovette cogliere ed apprezzare le novità del portato giottesco. Ma in cosa consistono queste novità? Tutti noi siamo stati studenti, e reminiscenze di quei tempi ci ricordano che Giotto portò nei suoi dipinti quella che in arte viene chiamata plasticità, o per usare un gergo più in voga oggigiorno, tridimensionalità.  Fu questa la sola novità della sua arte, così importante da fargli meritare l'elogio pocanzi citato? O la "latinità" della pittura di Giotto scaturisce anche da altri elementi? Per rispondere a queste domande ci aiuteremo con l'osservazione di alcuni dipinti del pittore toscano che proveremo a confrontare con quelli di un altro grande artista che lo ha preceduto, ricreando un dualismo debitore dei versi di Dante Alighieri: Cimabue/Giotto. Prima di tutto, però, sarà buona cosa comprendere appieno il senso delle parole di Cennino Cennini. Perché introduce i due aggettivi greco e latino? Che valenza avevano per lui e per coloro che sapevano leggere le opere d'arte nel medioevo? Quando egli parla di arte greca è ovvio che non si stia riferendo a quella della Grecia antica, a rimandi a Fidia, Lisippo né tantomeno all'arte ellenistica. La Grecia tirata in ballo è quella del suo tempo, dell'Impero Romano d'Oriente, e l'arte greca cui egli allude è quella che oggi chiamiamo bizantina. Meglio essere subito chiari: la pittura bizantina che ha in mente non è quella prodotta nella capitale dell'impero, ma la sua declinazione, per così dire, italiana. 
Per cosa si caratterizzava questa pittura? La tanto decantata bidimensionalità (non è che le figure non abbiano un accenno di terza dimensiome, ma sembrano come ritagliate da un foglio ed incollate su uno sfondo; sembra che l'albero, la casa o la montagna poste dietro di loro siano così prossime agli elementi in primo piano che tra loro non possa circolare nemmeno l'aria) non è che un elemento secondario, quasi una conseguenza, di un valore sentito come fondante della qualità di un dipinto: l'eleganza. Eleganza data attraverso la preziosità dei materiali, è vero, ma prima di tutto attraverso la sinuosità e la delicatezza del disegno, ed il disegno è sostanzialmente costituito dalla linea, elemento bidimensionale per antonomasia. Su questa considerazione squisitamente artistica si innestava tutto un sistema teologico-filosofico di lettura dell'opera (relazionarsi all'immagine sacra significava sostanzialmente relazionarsi alla figura sacra ritratta o, per essere più specifici, significava relazionarsi a ciò che di sacro, non di corporeo, essa aveva) che ne accentuava l'apprezzamento per i valori della linea e per tutto quanto riuscisse a far percepire la manifestazione, la presenza del sacro, osservandola. E' in quest'ottica che deve essere letto un altro elemento che caratterizza fortemente questa pittura: il fondo oro. Al di là delle considerazioni sulla preziosità del materiale, pure importanti, esso si faceva veicolo di irradiazione della luce, la più forte metafora sensibile della presenza del divino, di una luce diversa da quella dei raggi del sole o di una fonte di illuminazione artificiale, e questa sua alterità rispetto all'esperienza quotidiana ben si prestava a dare un'idea, seppur vaga, all'osservatore di cosa potesse essere la luce divina. L'oro poi arrivava ad invadere molta parte dello sfondo, lasciando che l'occhio perda qualsiasi coordinata spaziale che possa ancorarlo alla realtà. Ciò che si sta vedendo, quindi, non si configura come spazio di questo di mondo, bensì, come quello di un altro, che per la sua luminosità non può essere che quello del Paradiso.
Bidimensionalità e perdita di agganci con la realtà. Se ci pensiamo bene è la negazione dell'arte classica. Anche questo non è un caso. Figure che perdono volume, chiamiamole poco statuarie, forse questo aiuterà nella comprensione, e che non sono inserite in uno sfondo reale aiutano meglio l'osservatore a capire che l'arte che si ha di fronte non è pagana, che non si sta ammirando un idolo dei tempi antichi. Non è solo il contenuto a definire, per così dire, la religiosità di un'opera. A ben vedere è quello che è avvenuto, a livello testuale, prediligendo il libro, il codice, al rotolo, al papiro. Ma questi elementi che vengono tenuti fuori dall'arte cristiana "greca" sono quelli che,  per Cennino, qualificano l'arte "latina" di Giotto. Passiamo allora a comprendere cosa volesse dire questo termine per l'autore, come abbiamo fatto per l'altro. Se greco aveva, come abbiamo visto, una valenza geografica, latino non si riferisce tanto ad occidentale (lo stile che fiorisce nell'epoca in cui Giotto è attivo è il gotico, ma anche questo fa dell'eleganza della linea un valore fondante della qualità dell'opera, per certi versi ancora di più che per l'arte bizantina), quanto ad un periodo, quello antico, nello specifico a quello dell'antica Roma. Torniamo allo stile gotico pocanzi menzionato. Uno dei referenti spesso tirati in ballo per spiegare l'innovazione della pittura giottesca è proprio la scultura gotica. Questo è   vero a patto però di capire che non è il gotico tout-court ma solo un suo aspetto, la sua volontà di voler restituire, come aveva detto Federico II di Svevia, ea quae sunt sicut sunt, vale a dire di ritrarre le cose come appaiono nella realtà, nel nostro mondo, all'occhio. 
Spunto che viene dato al gotico proprio dallo studio dell'arte antica, cosa che avviene soprattutto nel nostro Paese. Riflettiamo su quanto detto: rivoler dare "naturalezza" a quanto dipinto e scolpito, essere artista "latino" diviene allora, allo stesso tempo, ripresa dell'antico ma anche scelta di voler realizzare un'arte nuova, che guarda al proprio tempo. Una precisazione a questo punto è d'obbligo. Questi cambiamenti in campo artistico furono possibili poichè diversa era la sensibilità religiosa del XIII e del XIV secolo. Pensiamo solo a quale dovette essere l'impatto sull'uomo medievale della visione francescana dell'aldiquà, di un mondo terreno che non veniva più percepito come luogo di tentazione e di lotta per ottenere il premio nella vera vita, quella ultraterrena, ma dono per cui ringraziare il Creatore, un mondo in cui persino una belva feroce ed ostile come il lupo poteva essera chiamato fratello.  Elementi che allora caratterizzano un'arte siffatta sono quelli che si rifanno alla nostra realtà, non alludono a quella ultraterrena. La plasticità dei corpi, di tutti i corpi: e tutto nei dipinti di Giotto, rocce ed alberi compresi sembra avere, oltre che un volume, un spazio da occupare, un peso, quasi che più che un dipinto stessimo ammirando un bassorilievo colorato. Sarebbe bello a questo punto dilungarsi sulle influenze della coeva scultura, in particolare dei Pisano, ma ci porterebbe troppo lontano, (basti qui dire che l'influsso dell'arte antica è forte in questi artisti). Ed è evidente il naturalismo se non un vero e proprio realismo delle scene: se non in tutte le sue opere, in diverse il fondo oro scompare; le case che osserviamo sono case che all'epoca si potevano vedere nei centri abitati; l'abbigliamento è quello realmente indossato allora. Guardare un alcuni dipinti di Giotto, verrebbe da dire, è un po' come guardare un'istantanea dei primi del Trecento, cosa impossibile se non fosse stata in atto una rivalutazione della vita terrena. Ed eccoci quindi a fare il ripromesso confronto "sul campo". Per iniziare due crocifissi: quello dipinto da Cimabue per la chiesa di San Domenico ad Arezzo e quello di Giotto per la Chiesa di Santa Maria Novella a Firenze. Non bisogna essere storici dell'arte per osservare, soprattutto nella resa delle anatomie, una differenza abissale. Il Cristo di Cimabue è un Cristo elegante e regale, misurato nel dolore, dall'andamento del corpo sinuoso, ma che non sembra fatto di carne bensì di metallo, un corpo in sottile lamina di metallo sbalzato. Ventre, petto, muscoli delle braccia ed altre parti paiono quasi ottenuti da un semplice rialzo dello stesso piano del resto del corpo, col sospetto che, proprio per rialzarlo, al di sotto non vi sia nulla. Questo effetto crea profondità, è vero, ma i piani di scansione non sono che due: parti i rilievo e le altre retrostanti. Quello che vediamo si inserisce perfettamente nel filone bizantino, o per dirla come Cennino, greco. 
Quanto appare invece diverso il corpo sofferente del Cristo giottesco! Un corpo in cui i valori della plasticità, complice l'aver collocato la figura di trequarti,  sono forti, che sembra sottoposto alle leggi della gravità per come ci appaia pesante nell'abbandono in lui del soffio vitale. Se non fosse inchiodato, ci vien da pensare, sarebbe già caduto a terra, forse rotolato lungo il crinale del Golgota. Già, perché il pittore non ci risparmia neppure la collocazione geografica, con quell'accenno di cima rocciosa triangolare su cui è stata fissata la croce. Nel suo corpo privo di vita che si protrae verso di noi nulla rimanda nell'occhio all'eleganza del disegno. No, qui non vi è nulla di elegante e misurato ma la forza come di un corpo scolpito, e monumentalità, complice la visione dal sottinsù. Decisamente, alla luce di quanto detto in precedenza, sì può definirlo Cristo latino. Concludiamo con un secondo confronto, passando dal Figlio alla Madre. Osserviamo la Madonna in trono di Cimabue, oggi al Louvre. Le anatomie dei personaggi che compongono la scena (mi stava per scappare un affollano, ma la disposizione è troppo ritmata e cerimoniosa per poter usare questo verbo!) hanno un maggior accenno di plasticità rispetto al Cristo di Arezzo solo nell'ovale delle teste. Ancora una volta a prevalere è il valore lineare, a scapito della profondità. Non c'è negli angeli, che non scorrono dal primo piano al fondo ma dal basso verso l'alto, non c'è nella Vergine e nel trono in tralice, dove ancora una volta percepiamo un primo piano costituito dal Bambino, dalla gamba sinistra della Madonna e dalle parte inferiore del trono che sembra fuggire prospetticamente (ma forse è una parola grossa) indietro, rapidamente, ma la cui corsa verso il fondo si ferma altrettanto rapidamente per la subitanea presenza dello schienale del trono e della parte superiore della Vergine, che sono percepiti tra l'altro come appartenere allo stesso piano. Ancora, soprattutto negli angeli, è presente quella bidimensiolalità di cui si accennava all'inizio e che fa apparire i loro corpi come ritagliati ed incollati uno sopra l'altro, senza che nemmeno l'aria possa passare tra loro. Quale confronto potremo ora fare, se non con la celeberrima Madonna d'Ognissanti giottesca conservata negli Uffizi? A separare i due capolavori sono solo trent'anni, ma i linguaggi sono quantomai diversi. Anche per questo suo dipinto si sprecherebbero gli aggettivi che rimandano alla plasticità scultorea dell'insieme, basti ammirare il baldacchino su cui la Vergine è seduta. La Madonna stessa sembra citare, nella sua corporeità, nel suo peso, una scultura antica, una dea mater romana. Non bastasse questo, le figure di contorno questa volta affollano per davvero la scena, si fanno corona attorno al centro della scena in modo da dare realmente il senso della  profondità.  Ad esser pignoli un elemento greco resta, il fondo oro, ma è reso necessario dalla sacralità della scena, e in questo l'artista non poteva essere troppo avanti con i tempi: era pur sempre un artigiano, seppur di lusso, che doveva vivere del proprio lavoro!

Un'ultima cosa. Bisogna tenersi lontani dal rischio di tramutare un confronto del genere in un confronto di valore dell'artista tout-cout. Giotto non è un artista più bravo e talentuoso di Cimabue, entrambi sono figli dell'epoca in cui sono vissuti e ne hanno rispecchiato le sensibilità artistica, più volta a cogliere, consentitemi la parafrasi, lo spirituale coll'arte in Cimabue, più aperta a rivalutare, e quindi ad indagare, i doni del divino già in questa vita per Giotto.

Articolo di Mario La Piano. Tutti i diritti risevati

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