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martedì 19 febbraio 2013

DANTE E I TEMPLARI, ARRIVANO CONFERME?

Sguardo Sul Medioevo sostiene da anni che Dante avesse avuto rapporti con i Templari, in occasione della prossima uscita del libro di Dan Brown, Inferno, ho deciso di postare quest'altro articolo. Secondo una ricorrente e interessata letteratura leggendaria da medioevo fantastico, i Templari, insigniti ante litteram del titolo di liberi pensatori, avrebbero svolto il ruolo di importanti attori in un mondo eterodosso ed esoterico abitato da misteri inaccessibili e indecifrabili, risalenti fino alla costruzione del Tempio di Salomone per opera del grande architetto Hiram, e anche oltre; depositari di segreti di sapienza e di potenza derivati addirittura dagli antichi Egizi, sarebbero stati gli ultimi custodi dell’Arca dell’Alleanza. Perseguitati da una coniuratio politico-religiosa, si sarebbero inabissati nella storia come un fiume carsico, recando con sé conoscenze e poteri, e riemergendo poi, nelle forme piú disparate, come membri di primo piano di società segrete sorte dopo il tramonto del medioevo. Per la storia, invece, si tratta di un Ordine cavalleresco di monaci combattenti per la tutela dei luoghi santi, nato tra l’XI e il XII secolo, ufficializzato nel 1129 (Concilio di Troyes) e dotato di una regola dettata o ispirata da San Bernardo di Chiaravalle, a imitazione di quella di San Benedetto. San Bernardo stesso scrisse un’opera di esortazione e di orientamento spirituale diretta ai milites: De laude novae militiae ad Milites Templi.Per la cupidigia di Filippo IV il Bello, consenziente Papa Clemente V – che tenne un comportamento incerto, ma alla fine cedette alle mire del re di Francia –, i Templari furono dapprima accusati d’eresia e poi scomunicati, e l’Ordine soppresso, con la bolla Vox in excelso, durante il Concilio di Vienne (1312); cosa che forní il destro a Filippo IV per arrestarli e fisicamente eliminarli nel 1314, incamerando i loro cospicui beni. Non è impossibile, anzi è probabile, che vi fossero state, all’interno dell’Ordine, deviazioni morali e dottrinali. D’altra parte una militia la cui vicenda si dispiegò per almeno due secoli, può essersi ben onorata di santità ma anche macchiata di turpitudini; può aver perseguito disinteressatamente alti ideali ma anche meschinamente inseguito deplorevoli interessi; può avere agito onestamente nelle trame politiche ma anche tramato vilmente con l’inganno e la forza; può aver rispettato la regola ma anche sognato l’irregolarità del pensiero e dell’azione; può aver brillato nell’ortodossia ma può essersi anche adagiata nell’ombra dell’eterodossia e dell’eresia. Riguardo a quest’ultimo punto v’è da rimarcare, tuttavia, che il recente ritrovamento negli archivi vaticani dei documenti di Chinon (1308) – verbali di un procedimento volto ad accertare l’ortodossia e la correttezza morale di alcuni capi dei Templari francesi, voluto dal papa (sempre Clemente V), e che li vide assolti e reintegrati nella piena comunione ecclesiale – toglie molti argomenti alla tesi di un’eresia gloriosa e insanabile, giacché la deviazione dottrinale e morale di cui vennero accusati i Milites Templi fu probabilmente amplificata in buona misura ad arte, alla ricerca di un pretesto per sopprimerli. Pretesto che, anche per la citata arrendevolezza di Clemente V, alla fine fu trovato. Ha vissuto Dante l’esperienza della militanza dei Cavalieri del Tempio, come miles attivo o come aggregato o sostenitore? Non gli furono ignote, di certo, la spiritualità e l’idealità templare, e vari punti della Commedia indirizzano verso un possibile “templarismo” dantesco, sia che si tratti di coinvolgimento attivo o di ammirazione e condiscendenza. Acceso di zelo per i diritti del popolo cristiano sui luoghi santi, a Cacciaguida fa dire che tali diritti sono usurpati “per colpa d’ i pastor” (Dante, Par., XV, v 144); e mentre gli brucia ancora la sconfitta subita nel 1291 dai Templari ad Acri (Dante, Inf. XXVII, v 89), nel canto IX del Paradiso ascolta il poeta provenzale Folchetto di Marsiglia che lamenta: “A questo intende il papa e ’cardinali; / non vanno i lor pensieri a Nazarette, / là dove Gabriello aperse l’ali.” (Dante, Par., IX, vv 136-138). D’altronde, dagli anni della sua giovinezza e fino agli anni più maturi, essere Templare era lecito e legittimo, e anche onorevole; e al tempo dei Gran Maestri Guillaume de Beaujeu o di Thibaud Gaudin o dello stesso Jacques de Molay, Dante avrebbe potuto partecipare, sebbene come “esterno”, e alla luce del sole, all’attività dei Cavalieri del Tempio. Il poeta è feroce contro l’ondivago e interessato Clemente V: nel canto XIX dell’Inferno ne anticipa la condanna come grande peccatore di simonia, e lo addita, quasi invertendo i ruoli fra il pontefice e il re, come vero fautore della fine dei Cavalieri: “ché dopo lui verrà di piú laida opra / di ver’ ponente, un pastor sanza legge, / tal che convien che lui e me ricuopra. / Novo Iasón sarà, di cui si legge / ne’ Maccabei; e come a quel fu molle / suo re, cosí fia lui chi Francia regge.” (Dante, Inf., XIX, vv 82.87). E poi ancora, nel canto XX del Purgatorio, stigmatizzando la presa del Tempio, attacca, per bocca di Ugo Capeto, capostipite dei re di Francia, proprio Filippo IV, definendolo nuovo Pilato: “Veggio il novo Pilato sí crudele, / che ciò nol sazia, ma sanza decreto / portar nel Tempio le cupide vele. / O Segnor mio, quando sarò io lieto / a veder la vendetta che, nascosa, / fa dolce l’ira tua nel tuo secreto?” (Dante, Purg., XX, vv 91-96). Una vendetta puntualmente arrivata, quasi come una nemesi o un contrappasso, se il re, accusato anche di coniare falsa moneta, morirà cadendo da cavallo durante una battuta di caccia al cinghiale: “Lí si vedrà il duol che sovra Senna / induce, falseggiando la moneta, quel che morrà di colpo di cotenna.” (Dante, Par., XIX, vv 118-120). Ma forse il punto piú alto del “templarismo” di Dante è l’incontro con San Bernardo: è lui la terza sua guida, dopo Virgilio e Beatrice, ed è lui che lo conduce alla visione di Dio, per grazia di Maria. Lo stupore apparentemente sproporzionato che prova il poeta nel vedere presso di sé il santo monaco – lo stesso stupore che prova il pellegrino che si reca a venerare il volto di Cristo impresso nel sudario della Veronica –, si spiega bene se si pensa a Bernardo come al grande riferimento e al grande maestro della sua spiritualità, nonché, forse, al grande condottiero morale di una sua possibile militante appartenenza: “«E la regina del cielo, ond’io ardo / tutto d’amor, ne farà ogne grazia, / però ch’i’ sono il suo fedel Bernardo». / Qual è colui che forse di Croazia / viene a veder la Veronica nostra, / che per l’antica fame non sen sazia, / ma dice nel pensier, fin che si mostra: / «Segnor mio Iesú Cristo, Dio verace, / or fu sí fatta la sembianza vostra?”; / tal era io mirando la vivace / carità di colui che ’n questo mondo, / contemplando, gustò di quella pace.” (Dante, Par., XXXI, vv 100-111). Detto questo, però, e riconosciuto che l’elevata statura morale e religiosa, certificata da bolle pontificie (Innocenzo II) e da regole simil-monastiche (Bernardo), dell’esperienza storica dei Cavalieri del Tempio, si traduce in Dante, e forse non solo per amor di giustizia, in un attestato di venerazione e di condiscendenza nei confronti della sostanziale “probità” della loro militanza, e in una condanna totale e senza appello della nequizia dei persecutori dei Milites Templi, non possiamo dire altro. E di Dante Gran Maestro segreto, eretico ed esoterico, dei Templari, succeduto a Jacques de Molay, e della Commedia qual messaggio iniziatico per adepti coevi e futuri, cosa rimane?

Fonte: http://www.informazione.tv. Articolo di Giovanni Zamponi

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