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giovedì 28 febbraio 2013

GERARDO, SCALA E ORDINE DI MALTA


Principi reali e mitici cavalieri sembrano essere doverosamente alla base di tutte le più antiche fondazioni. E anche di moltissime case aristocratiche. Persino principi e re sono andati alla ricerca di antenati sempre più importanti, gareggiando tra loro per precedenze, distinzioni di protocollo, magnificenza di titoli. In epoche in cui i sovrani erano soliti chiamarsi "fratello", sembrava per loro necessario dimostrare di appartenere a famiglie di uguali origini e antichità. Ivan IV, erede dell'ideologia imperiale bizantina, aveva imposto il segreto di Stato sulla sua genealogia per timore di inopportuni commenti. "Nel 1521 (…), il gran principe Vasilij III aveva rifiutato di chiamare fratelli i nuovi regnanti, ovvero Federico II di Danimarca-Norvegia e Gustavo I Vasa di Svezia. Per i russi, il re eletto di Svezia, discendente da una famiglia della nobiltà minore, non era neppure un nobile ma un mercante; il sovrano di Danimarca un re di "sale e acqua" . Nel 1559, quando gli emissari di Cristiano III, nuovo re di Danimarca, cercarono di imporre un trattamento di parità tra lo zar e il loro sovrano, i boiari rifiutarono persino di discutere la questione, insistendo perché il loro re si rivolgesse allo zar chiamandolo padre e non fratello" (1). La parola mercante sarebbe ricorsa insistentemente e in tono dispregiativo nelle conversazioni delle classi alte fino a tutto Ottocento. Re provenzali, imperatori germanici, nebulosi sovrani barbari sono stati proclamati avi più o meno credibili di famiglie regnanti che avrebbero aiutato duchi e marchesi rinascimentali come i Medici, i Farnese o i Gonzaga a scavalcarsi fra loro per di avere i primi posti nelle cerimonie e negli ingressi trionfali della Corte imperiale. E sovente antenati sempre più importanti non solo si si reclamavano ma si alternavano e sostituivano. Avi di diversa origine etnica entravano ed uscivano dagli alberi genealogici per aiutare gli scopi politici dei regnanti e le loro ambizioni; come fecero i Savoia, sostenitori di ascendenze galliche o italiche, a seconda delle convenienze del momento e le loro mire espansive in Italia. Le famiglie nobili hanno cercato a loro volta di percorrere gradini che portassero sempre più in alto nella scala sociale, pur di rendersi uguali persino ai sovrani agli occhi dell'opinione pubblica. I del Balzo che arriveranno a cingere la Corona titolare di Costantinopoli, nonostante già nobilissimi per storia familiare e importanti alleanze matrimoniali, non disdegneranno di lasciar diffondere, tra le ipotesi delle loro origini, anche la tradizione di una discendenza dai re di Arles o la leggenda di derivare da Baldassarre, uno degli evangelici Re Magi, traendo per questo un esile spunto dalla cometa raffigurata nello stemma (2).
Non sono soltanto i grandi nobili a percorrere ed occupare i diversi livelli della società servendosi di un'abile manipolazione della storia. Già in pieno Medioevo il fermento causato dal successo delle proprie attività era in grado, infatti, di muovere ambizioni che vanno al di là della speranza di guadagno. I mercanti amalfitani che viaggiavano in tutto il bacino del Mediterraneo, e che operavano a stretto contatto, in particolare nella Terra Santa, con vescovi, guerrieri, principi musulmani, e quindi con i figli ed eredi delle più grandi famiglie di Francia, Inghilterra, Provenza ed Italia, devono aver trovato necessario indorare le proprie ascendenze. Dopo aver armato, inviato e richiamato navi cariche di merci europee ed esotiche, guadagnato somme ingentissime, edificato palazzi, chiese, cappelle nelle città di origine, lungo le coste e i pendii della loro terra non ancora erosa e devastata da maremoti e da tempeste, devono aver creduto opportuno competere con i figli degli antichi clienti gareggiando con loro grazie a liste di illustrissimi avi.
Del resto, in tante occasioni, fin dai tempi dei primi commerci non devono essere stati pochi i grandi mercanti padroni di palazzi, depositi colmi, navi e cofani pieni di monete, a guardare con sentimenti di sufficienza proprio i grandi nobili che si erano rovinati con la speranza di conquistare un ruolo sociale acquistando anche le merci che garantissero un migliore tenore di vita ma che avevano un prezzo altissimo e che per la grande richiesta erano destinati a costare sempre di più. A partire dal XIII secolo, tutta l'aristocrazia che si affacciava sul bacino della Schelda, per esempio, era indebitata con prestatori e borghesi delle città (3). E i più importanti sovrani europei prendevano a prestito danaro dai banchieri italiani. E' una storia che si ripeterà più volte con mutati protagonisti, nei secoli successivi.
Il danaro, però, non fa la nobiltà, e dunque si rendeva necessario provvedere a procurarsela. La scalata sociale è graduale, nei secoli passati, e in genere occorre molta pazienza per occupare le cariche pubbliche, quelle nobilitanti, far comprendere alla comunità che non si è più solo il figlio o il nipote del mercante ma un uomo in grado di amministrare, trattare e imparentarsi con i potenti. E dunque un lungo spazio intergenerazionale deve essere lentamente e impercettibilmente riempito. Anche nel caso dei borghesi e dei mercanti, l'aggiustamento delle ascendenze e l'invenzione di antenati inesistenti costituisce allora un espediente di indubbia riuscita, tale non solo da abbreviare i lunghi tempi dell'ascesa sociale ma da far credere che gli arricchiti tornino semplicemente a rioccupare nella società il posto adeguato che ad essi spetta come discendenti di illustri proavi.
Ho parlato di attesa talvolta secolare. E dunque i più accorti tra i nuovi nobili non potevano servirsi solo di libri scritti da amici ed eruditi compiacenti che troppo lentamente diffondevano notizie sulle loro origini redatte con gli opportuni aggiustamenti. Per essere ammessi fra i cavalieri di Ordini che richiedevano fondate prove di nobiltà, per sfondare le resistenze di lettori critici e di aristocratici troppo curiosi, era necessario talvolta persino un piano più sottile, subdolo e spregiudicato. Un piano semplicissimo ove si potesse corrompere la persona giusta: il falso.
Con pazienza, con l'inchiostro preparato e adoperato da un bravo scrivano, si cercavano i registri parrocchiali più antichi, i protocolli di compravendita, le pergamene medievali. Si sfogliavano le pagine fino a individuare spazi utili fra un atto e l'altro, vuoti liberi nelle pagine. E tutti questi pochi centimetri venivano riempiti con aggiunte di cognomi, nomi di personaggi inesistenti, di immaginifici nonni e bisnonni qualificati come nobili. Oppure venivano assunti indebitamente le denominazioni di case nobili e si "aggiustavano" le annotazioni, in modo da farle figurare con i nomi della propria famiglia. Si trattava di veri falsi di cui l'opinione pubblica non immaginava neppure l'esistenza. Eppure, l'imbroglio doveva essere noto ad alcuni, e fra questi non mancò chi ebbe anche il coraggio di protestare con sdegno per quanto era accaduto e ancora accadeva ai suoi tempi.
Fu il canonico minorese Pompeo Troiano (1666-1738), da esperto diplomatico e studioso, a rivelare e a denunciare con veemenza questi "aggiustamenti". "Qui m'è conveniente, o Lettore -scrive l'ecclesiastico- avvertirti (spinto dal zelo che sempre ho avuto delle nobilissime famiglie), vedendo io in questa nostra età corrotta, che un plebeo malnato acquistando qualche ricchezza per via di fortuna, vuol anco arrollarsi il titolo di nobile per via d'ingegno e salir al posto sublime ove non potè giungere per natura" (4). Pompeo lamentava anche il fatto che da troppo tempo si consentiva a persone che non ne avevano avuto diritto di assumere indebitamente i cognomi di famiglie nobili. E' l'abitudine già diffusa fra la clientela al tempo dei Romani. Per la classe patrizia sembrava quasi un titolo d'onore che tanta gente portasse il proprio cognome, a dimostrazione del numero di parenti, servi, contadini, vicini e fedeli su cui si poteva contare e che garantiva un larghissimo ossequio. E basta scorrere gli elenchi telefonici campani per renderci conto di quante famiglie portino oggi lo stesso cognome di famiglie nobili con cui non hanno alcuna parentela. Tutto questo, prosegue Troiano, avveniva a causa della "corruttela degli antichi nobili, i quali mentre vivevano, permettevano che la loro gente plebea et infima si fregiasse del titolo delle loro casate (il che come s'andasse non so discernerlo), bensì alcuni l'applicano a dipendenza de' bastardi, altri de' schiavi" (5).
Ed ecco la spiegazione che ancora Pompeo offre di queste attività sotterranee che venivano largamente organizzate ai suoi tempi: l'ingresso nell'Ordine di Malta. "Non vorrei dunque -egli scrive- che essendosi indotta questa mal'usanza tra' mortali, un scalzo et un straccione nato tra' vili, havesse in alcun tempo ad inalzarsi a tant'altezza, che arrivasse a gabbare la nobilissima religione di Malta con pretendere l'habito, e di servirsi di simili memorie" (6). "Scusami se la mia penna si trasporta a far tal disgressione, perché la corruttela de' tempi hodierni la conducono a far tutto ciò, tanto più ch'io veggo in questa nostra età, che non solo altri si servono ingiustamente di memorie effettive di famiglie mancate ch'erano nobili, e del medesimo cognome, ma anco altri vitiano le scritture, e particolarmente de' Reggistri Reali, ne' quali si vedono rasi i cognomi delle famiglie patritie già spente, havendono procurato di farci aggiungere i loro e fattoci fabricar'in tutto le famiglie false, con tali astutie, che ne' cognomi veri antichi vi hanno cassato una lettera ponendoci un'altra diversa, per far diversificare la casata" (7).
Tra le famiglie del patriziato locale, i Sasso si adeguano a questo "effetto di dimostrazione" per compiere il passo qualitativo che potrebbe equipararli ai nobili più antichi. Essi scelgono la via tradizionale: quella dell'individuazione di un personaggio storico che potrebbe essere collocato nel proprio albero genealogico. E poiché non devono sussistere dubbi sul fatto che siano stati in Terra Santa all'epoca in cui fu costituito il primo nucleo dei Cavalieri gerosolimitani, niente di meglio che inserire proprio uno tra questi primitivi Cavalieri fra i più illustri componenti della Casa.  
Una tale presenza poteva non solo certificare un loro antico status; ma aprire le porte di un Ordine le cui insegne conferiscono una prova definitiva di nobiltà. E' ben conosciuto quanto la famiglia Sasso si sia impegnata in una artificiosa quanto insostenibile costruzione di prove inconsistenti. Lo stesso Franco Cardini, negli atti di un convegno riguardante proprio Scala, ebbe modo di chiarire se esistessero o no possibilità che il Gerardo considerato institutor dei Cavalieri fosse uno solo, se non si confondesse con altri due o tre Ospitalieri che portavano lo stesso nome, se  effettivamente si chiamasse Sasso e se fosse stato originario di Scala. Con parole estremamente corrette egli affermò che tali possibilità non esistevano: "Sotto il profilo storico, salvo il rinvenimento -in teoria sempre e comunque possibile- di nuovi e risolutori documenti, tanto l'affermazione quanto la negazione di quel che tradizionalmente si dice sono scelte entrambe oziose" (8).
L'attività "genealogica" dei Sasso non è un caso unico. I d'Afflitto, pure assurti a notevole rilevanza sociale, una volta arrivati nel novero delle famiglie patrizie locali vollero identificare le proprie origini e quelle del proprio cognome con la figura di un Santo molto venerato nel Medioevo, quale protettore dei cacciatori e dei boschi, senza altra prova se non la devozione familiare nei suoi confronti. Così, a loro avviso, le afflizioni che potevano ricordarsi con il cognome parlante, erano da identificarsi con le sofferenze patite da S.Eustachio durante il martirio, confortati in queste ipotesi da Autori acritici e datati come il Crollalanza, il de Lellis e il Mazzella (9). Oppure, con tesi ancor più suggestiva ma ugualmente riconducibile allo stesso intento, la denominazione de Afflicto sarebbe discesa dalla parola "fritto", sempre per ricordare il modo in cui fu martirizzato il Santo, rinchiuso in un bue di bronzo infuocato, e quindi "fritto" (10). Purtroppo, è ben conosciuto il vero etimo a base del cognome: una parola latina quindi dialettizzata che ha dato vita a un toponimo. Ossia "filictum", da felceto, una tra le molte denominazioni di origine contadina, adottata da una famiglia di Capri che è già ricordata nel X-XI secolo (11).
Per offrire un contributo alla soluzione del problema, credo che però si possa esplorare ancora un altro campo che è rimasto poco indagato fino a questo momento. Mi riferisco allo studio onomastico del nome di Gerardo, su cui mi sono già brevemente soffermato in un articolo di alcuni anni fa (12). Già allora scrivevo che l'unico Gerardo campano che io abbia trovato in regesti di documenti coevi al "fondatore" dell'Ordine riguardano un Gerardo Osborni, figlio di un Ardoino, che viveva nel giugno 1129 ad Aversa, ed era "di genere franco" (13).
Il nome del presunto antenato dei Sasso non appare dunque amalfitano. Gli onomastici degli Amalfitani e degli abitanti della costa, per tutto il Medioevo sembrano piuttosto essere Benedetto, Costantino, Giovanni, Gregorio, Leone, Lupino, Mansone, Marino, Mastalo, Mauro, Orso, Pantaleone, Pardo, Pietro, Sergio, Stefano, Taddeo, Tauro. Sono nomi che spesso costituiscono le solide dimostrazioni delle radici etniche o culturali bizantine. Esistono già nello stesso periodo, tuttavia, alcuni Ademari, Alberto, Cioffo, Giosolfio, Landolfo: gli onomastici di derivazione longobarda che filtrano dal vicinissimo principato salernitano erede della Longobardia Minor. E quanto significativi sono poi i nomi che evocano l'Oriente stesso e i viaggi che vi erano condotti, ancora imposti a persone che si chiamano Antiochia, Caterina (che ricorda i pellegrinaggi dalla Terra Santa al santuario del Sinai), Galotto ("galeotte si chiamavano le agili navi su cui si avventuravano i mercanti), Gierosolima.
Non c'è traccia di un Gerardo nei regesti dei sopravvissuti documenti che riguardano Amalfi, Ravello, Minori (14).  
Certamente Sasso è, invece, un cognome che può essere considerato del tutto amalfitano. E non c'è bisogno di cercare per esso derivazioni lontane, come potrebbe supporsi nel caso di un richiamo fonetico con la Nazione sassone. Del resto, anche qualche famoso personaggio medievale cognominizzato "de Saxo" sembra aver tratto il cognome da un casale prossimo alla sua dimora, anziché discendere da un mitico guerriero germanico. Mi riferisco a quel Girardus de Saxo, capofazione romano che fu forse parente e poi fiero avversario del famoso papa Benedetto IX, colui che rassegnò per tre volte le dimissioni dal Trono pontificio. Il cognome di questo Sasso (Saxum), lungi anche in questo caso dall'essere riconducibile alla Sassonia, viene fatto derivare dalla località omonima presso Cerveteri, non lontana da Galeria, i cui conti, nemici del deposto Benedetto IX, avevano anche il controllo del non lontano castello di Sasso (15).
Anche nel nostro caso potremmo non andare molto lontano. I "sassi" contrassegnavano nel Medioevo località rocciose rinvenibili ovunque. La toponomastica locale li assegnava con o senza altre specifiche come caratteristica di un determinato territorio, e così ovunque la denominazione rimaneva fissata per sempre o lentamente poteva essere diluita nelle successive memorie. Come non ricordare i "saxa thebenna" che Jacopo Sannazzaro menziona nella sua Elegia in lode di Cassandra Marchese (16)? Il Poeta parla del monte Tobenna nel prossimo Picentino, sulle cui pendici passeggiava da ragazzo, facendo memoria dei suoi speroni e dei macigni che vi affiorano. La costa amalfitana, che doveva essere spesso contrassegnata da costoni rocciosi anche prima dei violenti terremoti che mutarono parte della sua orografia, si presta bene ad ospitare località che nel periodo medievale potevano designarsi come "sassi", e di qui passare a definire il nome della famiglia che le abitava o possedeva. E un toponimo con questa caratteristica si ritrova ancora proprio nel territorio di Scala: "sotto lo Sasso", località ricordata in una mappa catastale ottocentesca e che certo ha mutuato la denominazione da un'antica abitudine di indicare il luogo (17).
Famiglia locale, cognome locale. Ma di un Gerardo originario dell'area non sembra che esistano tracce se non quelle artificiali lasciate centinaia di anni dopo la sua presunta esistenza. Un po' come i dipinti che raffigurano personaggi dell'antichità su cui gli artisti lavoravano d'immaginazione.

Note

(1) Cf. I. DE MADERIAGA, Ivan il Terribile, Torino 2006, p. 116.

(2) Cf. B. CANDIDA GONZAGA, Memorie delle famiglie nobili delle province meridionali d'Italia, II, Napoli 1875, p. 8.

(3) Cf. H.PIRENNE , Storia economica e sociale del Medioevo, Milano 1967, p.144.

(4) Cf. P. TROIANO, Reginna Minori trionfante, Minori 1985, p. 126.

(5) Ibidem.

(6) Ibidem.

(7) Id., pp. 126-127.

(8) Cf. F. CARDINI, L'Ordine gerosolimitano e la figura di fra Gerardo Sasso, in Scala nel Medioevo, Amalfi 1996, p. 88.

(9) Cf. S. AMICI, Araldica medievale scalese, in Scala nel Medioevo, cit., p. 309.

(10) Ibidem.

(11) Cf. G.GARGANO, I primi tempi della Civitas Scalensis e la formazione del patriziato locale, in Scala nel Medioevo, cit., p. 105.

(12) Cf. C. CURRO', E se Gerardo Sasso non fosse nato a Scala? In Eco Magazine, settembre 1998.

(13) Ibidem.

(14) Cf. Le pergamene degli Archivi vescovili di Amalfi e Ravello (I-IV), Napoli 1952-1959; Le pergamene dell'Archivio arcivescovile di Amalfi, Massalubrense 1981; Le pergamene dell'Archivio vescovile di Ravello, Napoli 1983; Le pergamene dell'Archivio vescovile di Minori, Minori 1987.

(15) Cf. F. MARAZZI, voce Gerardo, in Treccani.it   

(16) Cf. J. SANNAZZARO, III.

(17) Cf. V. AVERSANO, Osservando i toponimi di Scala: parole e cose di una geografia "estrema", in Scala nel Medioevo, cit., p.135.

Articolo presente sul Sito Italia Medievale

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