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mercoledì 30 luglio 2014

IL TESORO DEL MEDICO PORTOGHESE


GiovanniXXI.jpgFu uno dei piú grandi uomini di scienza del XIII secolo e la sua fama era diffusa in tutto l’Occidente latino. Eppure papa Giovanni XXI – al secolo Pietro di Giuliano o Pietro Ispano –, autore di trattati e ricettari studiati ancora molti secoli dopo, sarà ricordato, soprattutto, per il singolare incidente che, dopo soli otto mesi di pontificato, ne segnerà la tragica morte. Nato in Portogallo, probabilmente intorno al 1220, un Petrus medicus qui dicitur Hispanus è citato, dal 1245 al 1254, in diversi documenti che lo dicono a Siena, dov’era impegnato anche nell’insegnamento della medicina presso lo Studio della città. Ma Pietro di Giuliano (noto anche come Pietro Ispano, appunto) inizia a far parte della curia pontificia soltanto a partire dal 1261, dapprima al seguito del cardinale Ottobono Fieschi (futuro papa Adriano V, suo diretto predecessore). Al 1261 risale anche un altro documento in cui, a Perugia, un «maestro Pietro medico Ispano», con altre persone, viene condannato dal podestà per falsificazione di moneta e alchimia. Nel 1273 Gregorio X lo nomina cardinale vescovo di Tuscolo, titolo con cui, nell’anno successivo, partecipa al concilio di Lione, seduto alla destra del pontefice accanto a un’altra grande figura del Duecento, citata con il nome di Bonaventura (vescovo) di Albano. Il 18 agosto 1276 Adriano V muore e, 28 giorni dopo, Pietro viene eletto a Viterbo con il nome di Giovanni XXI. Otto mesi piú tardi, il 14 maggio 1277 il neopontefice viene colpito dal crollo del tetto di una parte dell’appartamento papale di Viterbo, citata nelle fonti come «camera nova fatta da egli stesso costruire». Muore sei giorni dopo. I cronisti contemporanei videro nella morte accidentale del papa il castigo divino per non avere rispettato le decisioni del concilio, per non avere protetto i Domenicani, colpiti dalle condanne del 1277, e per le pratiche magiche a cui sembrava dedicarsi. E fu anche a causa dell’uso di sospette pratiche dell’elixir che la morte improvvisa del papa provocò stupore e fece nascere diverse leggende. Tolomeo da Lucca ricorda che «benché uomo di grande scienza, egli era precipitoso nel parlare, mite soltanto nei costumi» e siccome «era facile accedere alla sua presenza, i suoi difetti erano manifesti a tutti. E ciò è contrario all’insegnamento del Filosofo che afferma che i facta principum personalia non devono apparire al cospetto degli uomini, ma soltanto i gesti pubblici, per i quali il Principe deve rispondere di fronte al popolo». Nelle cronache del francese Guglielmo di Nangis è scritto che «papa Giovanni XXI sebbene avesse creduto di poter allungare di parecchi anni la durata della sua vita, e lo avesse persino affermato sovente di fronte a molte persone, morí improvvisamente». 
Il brevissimo pontificato di Giovanni XXI si inserisce nel ventennio 1260-1280, in cui la Curia romana risiedette quasi ininterrottamente a Viterbo, che fu anche sede, tra l’altro, della piú lunga vacanza della sede apostolica (1268-1271). Nel XII e XIII secolo la mobilità della corte pontificia non dipese soltanto dalla volontà di sfuggire alla malaria romana, vero e proprio flagello per gli abitanti dell’Urbe durante i mesi estivi.
A fare di Viterbo la città in cui la Curia romana soggiornò piú a lungo nel Duecento fu piuttosto la presenza di numerosi bagni di acque termali. Matteo Paris ricorda, per esempio, che Gregorio IX «aveva molti calcoli, era molto vecchio e aveva bisogno di bagni in cui era solito ristorarsi a Viterbo». Non sorprende dunque che prelati benestanti abbiano preso di mira la città per investimenti fondiari. L’astronomo e matematico Campano da Novara (†1296), che fu anche cappellano e medico presso la curia pontificia, vi fece costruire un’importante dimora che abitò negli ultimi anni della sua vita. E in effetti Viterbo, che ha ospitato la corte papale piú di ogni altra località laziale o umbra, è anche la città dello Stato pontificio con il maggior numero di acque termali. In quegli anni, nella corte pontificia di Viterbo, si formò un «circolo» fra i piú eminenti dell’Occidente latino nel campo della produzione e trasmissione di opere scientifiche. Uomini di scienza di alta fama europea, come il già citato Campano da Novara, Witelo o Vitulo, celebre matematico di origine slesiana, Guglielmo di Moerbeke, Giovanni Peckham, Simone da Genova e lo stesso Pietro Ispano fecero della Curia il piú grande laboratorio culturale d’Europa per lo studio delle scienze «nuove», le scienze del corpo, elaborando, tra l’altro, le tre piú importanti opere sull’ottica prodotte nel Basso Medioevo. Questi uomini esprimono una cultura di corte per molti aspetti simile a quella della leggendaria corte federiciana, con la quale, nei decenni precedenti, avevano avuto rapporti fecondi.
In entrambe le corti, competenze in campo medico e scientifico davano un prestigio di altissimo livello e, soprattutto, troviamo in entrambe l’interesse per gli studi sulla fisiognomica, sulla prolongatio vitae, sul concetto di elixir, sugli scritti di Avicenna, senza dimenticare che sia presso la corte papale che in quella normanno-sveva c’era una profonda conoscenza della lingua e della cultura araba, elemento quest’ultimo sostanziale nel processo di formazione del pensiero scientifico e filosofico dell’Occidente latino. 
L’opera piú nota del medico portoghese è un piccolo ricettario, composto intorno alla metà del XIII secolo, con ogni probabilità nel periodo in cui l’autore insegnava presso lo Studio Generale di Siena. Pietro unisce in un unico testo, ordinato nella forma a capite ad pedes («dalla testa ai piedi»), alcune centinaia di ricette ricavate dai piú conosciuti trattati medici a lui disponibili, non sempre trascritte fedelmente, indicando alla fine di ognuna il nome dell’autore e, in alcuni casi, il titolo dell’opera originaria; figurano, tra gli altri, Avicenna, Costantino Africano, Dioscoride, Galeno, Gilberto Anglico, Hali Abbas, Macer Floridus, Matteo Plateario, Plinio, Sperimentatore, Trotula e Isacco. Il titolo chiude in sé l’intento del libro, concepito come Thesaurus Pauperum, il tesoro di ogni povero. 
Il futuro pontefice accompagna i lettori in un mondo in cui, per la salute del corpo si ricorre a ingredienti oggetto di sperimentazione e, al tempo stesso, ingredienti certificati dal loro uso consuetudinario. Si è disposti, se necessario, a provare il rimedio di una vetula, una «vecchietta» (termine che indica prestigio e malignità), o perfino una ricetta che il «demonio» lasciò «a una certa donna da lui sottomessa, avendo preso la forma di un uomo» (accepta forma hominis). La parola che indica la malattia, infirmitas, non conosce distinzione netta tra povero, malato o pellegrino. Il termine denota piuttosto una condizione generale di sofferenza, di debolezza, di privazione di dignità, l’infirmitas, insomma, non è una momentanea corruzione della salute, ma è la norma. In quest’opera, cosí come nella cultura medica contemporanea, la malattia è considerata la conseguenza di un disequilibrio del temperamento (complexio) della persona. 
Uno dei quattro umori del corpo – sangue, flegma, bile nera, bile gialla – in eccesso o in difetto provoca un’alterazione degli elementi caldo, freddo, umido o secco. In base a questi principi gli umori in eccesso possono essere ridotti attraverso l’uso di un medicamento con qualità opposte rispetto a ciò che ha provocato la malattia. Ma è il principio della sperimentazione che permette di certificare l’efficacia di alcuni rimedi. Piú volte la terapia è affidata all’applicazione degli ingredienti per analogia (secondo il principio similia simílibus curantur): il capelvenere per la cura dei capelli, il corno destro del montone per il dolore della parte destra del capo, il sangue mestruale per la prevenzione del concepimento, ecc. La pratica sessuale in alcuni paragrafi è affrontata in modo apparentemente singolare: si legge che il grasso di maiale o di capra spalmato sul pene eccita il desiderio sessuale e aumenta il piacere della donna, che il seme della lattuga secca lo sperma e seda il desiderio e che la verbena impedisce l’erezione, rende effeminati (exfeminatus) e inabili all’atto sessuale. Un particolare verme può trasformare un uomo in un eunuco (enuchus in perpetuum) e ancora «il succo della menta immesso nella vulva, durante il coito, impedisce il concepimento». 
Non mancano rimedi utili a preservare la «bellezza» del corpo. E può essere interessante sottolinearne alcuni, poiché si riferiscono a un canone estetico che, a ben vedere, non è particolarmente distante da quello attuale; tra i suggerimenti proposti, si può leggere che il legno di edera schiarisce i capelli, se usato per un solo lavaggio del capo «i capelli saranno biondi per due mesi»; oppure «se la vergine avrà unto spesso le sue mammelle, fin dall’inizio, con il succo di cicuta, esse resteranno sempre piccole, dure e sode», e ancora «per eliminare le rughe dal viso e ogni altro difetto, trita la radice secca del cetriolo selvatico, passa al setaccio e mescola con acqua».
È possibile oggi vedere in Pietro Ispano, nel percorso della sua vita terminata a Viterbo il 20 maggio del 1277, un simbolo della cultura dei secoli finali del Medioevo. Ed è anche con lui che Viterbo diviene, per la prima e unica volta, il centro piú importante di tutto l’Occidente nell’ambito del pensiero scientifico. Ma, al tempo stesso, con la sua opera piú conosciuta, il Tesoro dei Poveri, Pietro Ispano ci mostra come la storia del corpo, nel Medioevo, sia parte essenziale della sua storia globale. Come metafora di città, Chiesa, umanità; come simbolo di coesione o conflitto, tra glorificazione e umiliazione, il corpo di ogni uomo diviene uno dei principali protagonisti della società e della civiltà medievale. 

Fonte Medioevo.it

Articolo di Luca Pesante tratto da Medioevo n° 183 Aprile 2012

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