
Il brevissimo pontificato di Giovanni XXI si inserisce nel ventennio 1260-1280, in cui la Curia romana risiedette quasi ininterrottamente a Viterbo, che fu anche sede, tra l’altro, della piú lunga vacanza della sede apostolica (1268-1271). Nel XII e XIII secolo la mobilità della corte pontificia non dipese soltanto dalla volontà di sfuggire alla malaria romana, vero e proprio flagello per gli abitanti dell’Urbe durante i mesi estivi.
A fare di Viterbo la città in cui la Curia romana soggiornò piú a lungo nel Duecento fu piuttosto la presenza di numerosi bagni di acque termali. Matteo Paris ricorda, per esempio, che Gregorio IX «aveva molti calcoli, era molto vecchio e aveva bisogno di bagni in cui era solito ristorarsi a Viterbo». Non sorprende dunque che prelati benestanti abbiano preso di mira la città per investimenti fondiari. L’astronomo e matematico Campano da Novara (†1296), che fu anche cappellano e medico presso la curia pontificia, vi fece costruire un’importante dimora che abitò negli ultimi anni della sua vita. E in effetti Viterbo, che ha ospitato la corte papale piú di ogni altra località laziale o umbra, è anche la città dello Stato pontificio con il maggior numero di acque termali. In quegli anni, nella corte pontificia di Viterbo, si formò un «circolo» fra i piú eminenti dell’Occidente latino nel campo della produzione e trasmissione di opere scientifiche. Uomini di scienza di alta fama europea, come il già citato Campano da Novara, Witelo o Vitulo, celebre matematico di origine slesiana, Guglielmo di Moerbeke, Giovanni Peckham, Simone da Genova e lo stesso Pietro Ispano fecero della Curia il piú grande laboratorio culturale d’Europa per lo studio delle scienze «nuove», le scienze del corpo, elaborando, tra l’altro, le tre piú importanti opere sull’ottica prodotte nel Basso Medioevo. Questi uomini esprimono una cultura di corte per molti aspetti simile a quella della leggendaria corte federiciana, con la quale, nei decenni precedenti, avevano avuto rapporti fecondi.
In entrambe le corti, competenze in campo medico e scientifico davano un prestigio di altissimo livello e, soprattutto, troviamo in entrambe l’interesse per gli studi sulla fisiognomica, sulla prolongatio vitae, sul concetto di elixir, sugli scritti di Avicenna, senza dimenticare che sia presso la corte papale che in quella normanno-sveva c’era una profonda conoscenza della lingua e della cultura araba, elemento quest’ultimo sostanziale nel processo di formazione del pensiero scientifico e filosofico dell’Occidente latino.
L’opera piú nota del medico portoghese è un piccolo ricettario, composto intorno alla metà del XIII secolo, con ogni probabilità nel periodo in cui l’autore insegnava presso lo Studio Generale di Siena. Pietro unisce in un unico testo, ordinato nella forma a capite ad pedes («dalla testa ai piedi»), alcune centinaia di ricette ricavate dai piú conosciuti trattati medici a lui disponibili, non sempre trascritte fedelmente, indicando alla fine di ognuna il nome dell’autore e, in alcuni casi, il titolo dell’opera originaria; figurano, tra gli altri, Avicenna, Costantino Africano, Dioscoride, Galeno, Gilberto Anglico, Hali Abbas, Macer Floridus, Matteo Plateario, Plinio, Sperimentatore, Trotula e Isacco. Il titolo chiude in sé l’intento del libro, concepito come Thesaurus Pauperum, il tesoro di ogni povero.
Il futuro pontefice accompagna i lettori in un mondo in cui, per la salute del corpo si ricorre a ingredienti oggetto di sperimentazione e, al tempo stesso, ingredienti certificati dal loro uso consuetudinario. Si è disposti, se necessario, a provare il rimedio di una vetula, una «vecchietta» (termine che indica prestigio e malignità), o perfino una ricetta che il «demonio» lasciò «a una certa donna da lui sottomessa, avendo preso la forma di un uomo» (accepta forma hominis). La parola che indica la malattia, infirmitas, non conosce distinzione netta tra povero, malato o pellegrino. Il termine denota piuttosto una condizione generale di sofferenza, di debolezza, di privazione di dignità, l’infirmitas, insomma, non è una momentanea corruzione della salute, ma è la norma. In quest’opera, cosí come nella cultura medica contemporanea, la malattia è considerata la conseguenza di un disequilibrio del temperamento (complexio) della persona.
Uno dei quattro umori del corpo – sangue, flegma, bile nera, bile gialla – in eccesso o in difetto provoca un’alterazione degli elementi caldo, freddo, umido o secco. In base a questi principi gli umori in eccesso possono essere ridotti attraverso l’uso di un medicamento con qualità opposte rispetto a ciò che ha provocato la malattia. Ma è il principio della sperimentazione che permette di certificare l’efficacia di alcuni rimedi. Piú volte la terapia è affidata all’applicazione degli ingredienti per analogia (secondo il principio similia simílibus curantur): il capelvenere per la cura dei capelli, il corno destro del montone per il dolore della parte destra del capo, il sangue mestruale per la prevenzione del concepimento, ecc. La pratica sessuale in alcuni paragrafi è affrontata in modo apparentemente singolare: si legge che il grasso di maiale o di capra spalmato sul pene eccita il desiderio sessuale e aumenta il piacere della donna, che il seme della lattuga secca lo sperma e seda il desiderio e che la verbena impedisce l’erezione, rende effeminati (exfeminatus) e inabili all’atto sessuale. Un particolare verme può trasformare un uomo in un eunuco (enuchus in perpetuum) e ancora «il succo della menta immesso nella vulva, durante il coito, impedisce il concepimento».
Non mancano rimedi utili a preservare la «bellezza» del corpo. E può essere interessante sottolinearne alcuni, poiché si riferiscono a un canone estetico che, a ben vedere, non è particolarmente distante da quello attuale; tra i suggerimenti proposti, si può leggere che il legno di edera schiarisce i capelli, se usato per un solo lavaggio del capo «i capelli saranno biondi per due mesi»; oppure «se la vergine avrà unto spesso le sue mammelle, fin dall’inizio, con il succo di cicuta, esse resteranno sempre piccole, dure e sode», e ancora «per eliminare le rughe dal viso e ogni altro difetto, trita la radice secca del cetriolo selvatico, passa al setaccio e mescola con acqua».
È possibile oggi vedere in Pietro Ispano, nel percorso della sua vita terminata a Viterbo il 20 maggio del 1277, un simbolo della cultura dei secoli finali del Medioevo. Ed è anche con lui che Viterbo diviene, per la prima e unica volta, il centro piú importante di tutto l’Occidente nell’ambito del pensiero scientifico. Ma, al tempo stesso, con la sua opera piú conosciuta, il Tesoro dei Poveri, Pietro Ispano ci mostra come la storia del corpo, nel Medioevo, sia parte essenziale della sua storia globale. Come metafora di città, Chiesa, umanità; come simbolo di coesione o conflitto, tra glorificazione e umiliazione, il corpo di ogni uomo diviene uno dei principali protagonisti della società e della civiltà medievale.
Fonte Medioevo.it
Articolo di Luca Pesante tratto da Medioevo n° 183 Aprile 2012
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