I due eserciti si incontrarono nella mattina del 7 settembre del 1191, ad Arsuf, situata 25 km a nord di Giaffa. In realtà da giorni Saladino, sultano d'Egitto, era perfettamente a conoscenza degli spostamenti dei crociati e di quel loro re, noto per il suo estro militare e l'avventatezza impavida sul campo di battaglia, che sembrava combattere più per sua vanità, amante com'era di storie di cavalieri erranti (diffuse proprio a partire dal XII secolo), invece che per la Croce o per il papa. D'altro canto la natura di Riccardo Cuor di Leone era ben nota in Europa: lo chiamavano Oc e No (“Si e No”), tanto era volubile, sempre alla ricerca di nuove gesta eroiche da compiere. Ad ogni modo, dopo una marcia estenuante di due settimane con la costa sul fianco destro, scandita peraltro da continue soste presso fonti d'acqua, dagli aiuti forniti dalla flotta cristiana e da sporadici attacchi musulmani volti a scompigliare la compattezza dell'esercito, finalmente era stata raggiunta la vera destinazione dai guerrieri di Cristo: il nemico, condotto dal “pagano nobile”, era lì, a portata di mano, e in forze. Adesso l'obiettivo non era più raggiungere Giaffa, ma vincere in una battaglia campale l'invincibile Saladino, concludere la Terza Crociata e trionfare nel nome di Cristo. Alla fine, dunque, l'epilogo del duello tra i due più grandi uomini d'armi del secolo era giunto, e là, su quella pianura costiera costellata di colline boscose, scaldata dal sole settembrino della Terrasanta, gli interessi contrapposti di Oriente e Occidente erano prossimi alla resa dei conti definitiva.
IL CAVALIERE ERRANTE
Occorre tuttavia compiere alcuni passi indietro, onde avere una profonda comprensione del percorso attraverso il quale si giunse a una simile (e drammatica) conclusione, e degli uomini che lo hanno tracciato.
Di questi ultimi, uno è Riccardo I, re d'Inghilterra, noto ai posteri con il celeberrimo appellativo di “Cuor di Leone”. Ad alcuni sarà già balzato alla mente il ritratto che ne fa Walter Scott, in Ivanhoe, dove Riccardo appare quale quello che sempre sognò di essere: un cavaliere senza macchia, che ode solo le richieste del suo popolo, e le esaudisce prontamente, o, si potrebbe dire, un eroe delle Chansons de geste. Ritratto tanto indimenticabile quanto storicamente impreciso e fuorviante (d'altro canto è un romanzo storico), come cercheremo di dimostrare, pur avendo la costante consapevolezza dell'intrinseca difficoltà di cogliere la figura storica del Cuor di Leone, inscindibile com'è dall'alone della leggenda che l'ha sempre contraddistinta, già tra i contemporanei. Riccardo nacque a Oxford, l'8 settembre 1157, figlio terzogenito del re Enrico II Plantageneto e di Eleonora di Aquitania. In quegli anni, l'Europa stava vivendo l'inizio di un mutamento radicale, poiché, sotto un profilo geopolitico, il continente assisteva, immobile, a quella che, con somma efficacia e sintesi, Pirenne ha definito “la nascita degli Stati occidentali” (Henri Pirenne, “Storia d'Europa dalla invasioni al XVI secolo”), volendosi riferire, nella generalità della definizione, soprattutto alla Francia e, ancor di più, all'Inghilterra, due Stati, questi, indissolubilmente legati da un filo fatale durante tutto il corso della Storia medievale (il culmine sarà raggiunto con la Guerra dei Cent'Anni). Il regno inglese, in particolare, ancora godeva ai tempi di Riccardo di una stabilità interna da ricondursi in larga parte a Guglielmo il Conquistatore, un re su cui fin troppo si è speculato. Infatti, sebbene alcuni ambienti della storiografia britannica sprechino quantità abnormi di inchiostro per tessere encomi storicamente insensati (oltre che nauseanti), la primissima fase della nuova monarchia fu essenzialmente una dominazione straniera, mantenuta con la spada e, spesso, la barbarie. La vera forza del nuovo Stato dunque non fu assolutamente l'ingegnoso estro politico di Guglielmo, ma, al contrario, il suo istintivo modus operandi da principe feudale (ricordiamo che prima di tutto egli era duca di Normandia, vassallo della corona francese): i re, come tradizionalmente concepiti dall'epoca carolingia, dipendevano in larga misura dall'appoggio dei grandi vassalli, viceversa questi ultimi godevano di autonomia, enorme peso politico e, soprattutto, erano ereditari, non essendo condizionata la loro elezione a scelte compiute da altri potentati. La differenza, se ben la si considera, non è da poco, in quanto è sufficiente a palesare le cause del successo sempre mal spiegato di Guglielmo e la modernità straordinaria della monarchia inglese. Per farla breve, il re inglese godeva, ed è l'unico di cui si può affermare, di un potere integro, mentre, a titolo di esempio, il monarca capetingio in Francia, almeno fino a Filippo II detto, da Rigord, Augusto, ovvero fino al 1179, si trastullava nella disgregazione politica, potendo al massimo tentare di atteggiarsi sommessamente onde non essere spodestato. Sulla scia di questo modello di governo invidiabile per qualunque monarca europeo, i successori di Guglielmo, ovvero Guglielmo II ed Enrico I, non ebbero alcuna difficoltà nella gestione statale, né opposizioni o lagnanze vagamente rilevanti. Dopo una breve fase di transizione segnata dalla morte senza eredi di Enrico I (1135) e dal regno di Stefano di Blois, fu incoronato, nel 1154, il padre di Riccardo, Enrico II, il primo dei Plantageneto (che discendeva dal Conquistatore solo per la madre Matilde, figlia di Enrico I). Durante il lungo regno di colui che diede i natali al Cuor di Leone, la tendenza centralista della monarchia inglese si accentuò al punto da aver fatto parlare alcuni storici di assolutismo. E, naturalmente, con l'esasperazione del carattere autoritario del potere del re, sorsero i primi malcontenti. L'Inghilterra, per la prima volta, doveva fare i conti con i problemi quotidiani di tutti i sovrani dell'epoca (sebbene vi fossero situazioni ben peggiori: l'Impero, per dirne una, era lacerato dalla lotta dinastica tra Hohenstaufen e la casata di Baviera). Ad ogni modo, Enrico II seppe mantenere le sue pretese intatte fino alla morte, avvenuta nel 1189, senza tuttavia rimuovere lo strisciante malcontento nelle classi più agiate. Fu con la morte del padre, in un ventre di discordie, che al trono inglese ascese Riccardo. In realtà, fino a sei anni prima, tale successione non era affatto scontata: l'erede designato, dopo la morte a soli tre anni del primogenito di Enrico II e Eleonora d'Aquitania, Guglielmo di Poitiers, era il secondo figlio, Enrico. A Riccardo, come si era soliti fare per garantire una successione senza traumi, furono attribuiti due ducati: quello di Aquitania (confluita tra i domini inglesi grazie al matrimonio di Enrico II con Eleonora) e quello di Poitiers. La svolta inattesa per il giovane Riccardo fu la morte del fratello, Enrico, nel 1183. Il fato, e nessun altro, lo volle sul trono, e così fu. Il 3 settembre 1189 fu incoronato a Westminster.
Figlio prediletto di una madre raffinata come Eleonora d'Aquitania, per tutta la giovinezza il nuovo re aveva vissuto tra trovatori e letteratura, dilettandosi egli stesso nel comporre poesie. A dir la verità, Riccardo parlava e scriveva in lingua d'oc, ed era noto a qualunque suo suddito quanto egli si sentisse più francese che inglese. La spiegazione di quanto appena detto non è da rinvenirsi tanto in una sua inclinazione all'alto tradimento, quanto piuttosto nel fatto che i re inglesi, e suo padre in particolare, avevano sempre prestato gran parte della loro attenzione ai possedimenti in territorio francese, sia per interesse strategico sia, ovviamente, economico; perciò passavano là gran parte del loro tempo. Riccardo, per via della madre, portò all'estremo suddetta tendenza. All'uomo colto, raffinato, sempre ben vestito, come dicono le fonti, si affiancava la sua indole più profonda: quella di cavaliere, guerriero instancabile, temerario combattente. Qualcuno ha definito Riccardo “il re che preferì la guerra al trono”, e non a torto: come re, antepose qualunque guerra, anche la più insignificante, alla situazione interna, per quanto inquietante stesse divenendo. Ciò va ricondotto in larga parte al fatto che fosse cresciuto in mezzo al sangue, le armi, il fango, la morte, impegnato come fu fin dalla giovinezza in ogni sorta di affare bellico, dalle lotte insieme ai fratelli contro il padre, alla cruenta guerra contro i riottosi baroni del Limosino e dell'Angoumois. I cronisti ce lo ritraggono sempre in mezzo al campo di battaglia, intento a colpire, parare, schivare, condurre ardite cariche. E vinceva, praticamente sempre. Il popolo inglese, nonostante i fulgidi successi militari, lo odiava: d'altro canto le sue continue guerre (che nella gran parte dei casi erano poco più che scaramucce), la crociata e la rivalità interminabile contro Filippo II Augusto di Francia richiedevano cospicue somme di denaro, che Riccardo non esitò a tirar fuori direttamente dalle tasche dei sudditi. La sua rigida politica fiscale abbatte la base argomentativa dei moltissimi che hanno idealizzato il confronto tra Riccardo e il fratello minore, suo successore, Giovanni (il famoso “Senzaterra”), vedendo nell'uno il nobile re di animo gentile e nell'altro il sovrano crudele, incapace e spietato. Solo al di fuori dei territori del regno inglese infatti Riccardo fu realmente venerato: una cosa era ammirarne il coraggio dall'esterno, un'altra era averlo come re e conoscere cosa significasse vivere sotto il suo regime fiscale e le continue assenze. In effetti, almeno in Inghilterra, fu un sollievo per molti quando Riccardo Cuor di Leone lasciò l'Europa nell'estate del 1190, con un poderoso esercito, diretto verso la Terrasanta. Gregorio VIII, meno di tre anni prima (il 29 ottobre 1187) aveva infatti bandito una nuova crociata, la terza, con la bolla Audita Tremendi: motivo scatenante era stata l'inarrestabile avanzata del Saladino e la caduta di Gerusalemme nelle mani dell'infedele, su cui, più avanti, ritorneremo. Federico Barbarossa, Filippo Augusto e Enrico II avevano deciso di rispondere all'appello, sebbene non molto dopo il re d'Inghilterra perì. Cosa avrebbe deciso il successore? La risposta vien da sé: la crociata era l'occasione che Riccardo aspettava da una vita. Argutamente come sempre, il Barbero scrive: “Chi in patria si è macchiato le mani di sangue e andrebbe all'inferno, quando fa la stessa cosa oltremare è un eroe” (Alessandro Barbero, “Benedette Guerre. Crociate e Jihad”). Oltretutto non si trattava di una crociata qualunque, poiché l'obiettivo era quanto di più religiosamente puro potesse esservi per un guerriero di Cristo: riconquistare il Santo Sepolcro e liberare la Città Santa. Un'eventuale vittoria avrebbe arrecato una gloria tale da elevarsi al livello dei più grandi eroi della Cristianità, i nobili principi della prima crociata, come Goffredo di Buglione, Raimondo di Saint-Gilles, Boemondo di Taranto, Tancredi...
Possiamo immaginare la suggestione che tali prospettive erano in grado di suscitare nell'animo vanaglorioso di Riccardo, unitamente all'opportunità, in caso di vittoria, di consolidare in tempi contenuti la propria posizione politica, sia internamente che esternamente. Il nuovo sovrano inglese, perciò, si era immediatamente fatto crociato. Si racconta addirittura che al momento della sua incoronazione si vollero le donne e gli ebrei esclusi dalla cerimonia, poiché si trattava dell'incoronazione di un vero guerriero di Dio.
Fu il Barbarossa a mettersi per primo alla testa della Cristianità, spinto, o, si potrebbe dire, costretto dall'imperante necessità di ristabilire la sua minacciata autorità con un conflitto estero. Il suo destino di crociato fu tanto crudele quanto quello di re: annegò durante traversata del fiume Salef, in Cilicia. Dei 100000 uomini che componevano il suo esercito, solo 300/400 giunsero in Terrasanta. Riccardo e l'eterno nemico dei Plantageneti, Filippo II di Francia, partirono solo nel luglio 1190, mettendo da parte, ma solo momentaneamente, le annose questioni insolute in territorio europeo. I due re si incontrarono a Vézelay, luogo non casuale, considerato che, come nota il Meschini, fu lì che Bernardo di Clairvaux predicò la seconda crociata; dopo i loro sentieri si separarono: il re di Francia, col suo esercito, marciò su Genova, da cui poi, sempre via mare, raggiunse Messina, per l'ultima traversata, mentre Riccardo si imbarcò, con destinazione il medesimo porto siciliano, a Marsiglia. Nel 1191, in primavera, le flotte cristiane, da Messina, fecero rotta per l'oltremare. Possiamo tuttavia azzardarci a formulare l'ipotesi che la destinazione di Riccardo fosse, almeno nei suoi piani, un'altra: l'immortalità.
IL PAGANO NOBILE
L'altra figura di cui andiamo a trattare, il Saladino appunto, non è da meno, rispetto a Riccardo Cuor di Leone, né per fama né per il tratto leggendario. Se volessimo iniziare anche qui dai riferimenti letterari, vi sarebbe al primo posto Dante, che colloca il sultano tra gli “spiriti magni”, quando scrive: “Vidi quel Bruto che cacciò Tarquinio, / Lucrezia, Iulia, Marzia e Corniglia; / e solo, in parte, vidi 'l Saladino” (Dante, “Divina Commedia”, Inferno, Canto IV, vv. 127-129). Ulteriori citazioni d'onore si ritroverebbero nel “Novellino”, nel “Decameron” del Boccaccio, e molti altri sarebbero gli esempi. Pur avendo il Saladino cacciato i cristiani da Gerusalemme, mietuto vittime e fatto prigionieri tra i crociati, sparso il sangue dei fedeli in Cristo, l'immaginario collettivo europeo ne rimase tanto segnato da attribuirgli l'appellativo di “pagano nobile”. Nell'entusiasmo rivolto in Occidente per questa cavalleresca figura, addirittura iniziarono circolare storie sul fatto che da giovane Saladino fosse stato ordinato cavaliere da un barone del regno di Gerusalemme, o che la madre fosse cristiana. In fondo, almeno per quanto concerne la mitizzazione, non fu diverso dal suo antagonista, di cui fino a poco fa parlavamo. Una fama di tal genere per un musulmano, in Europa, era cosa straordinaria, ma nel caso di Saladino una giustificazione c'era: mai si trovò condottiero nemico tanto rispettoso della parola data, tanto degno di fiducia, tanto probo. In alcune occasioni arrivò addirittura a mostrare doti consone alla più pura morale dei Vangeli: dopo l'armistizio del 1192 con i crociati, si rifiutò di vendicarsi su dei cavalieri cristiani in pellegrinaggio a Gerusalemme, nonostante molti suoi sottoposti gli ricordassero il massacro di 3000 musulmani compiuto dal Cuor di Leone dopo la riconquista di Acri.
Oltre alla virtù interiore, maturata a fondo anche attraverso gli studi di teologia portati a termine a Damasco, Yusuf ibn-Ayyub, noto come Salah ed-Din (“Integrità della religione”), godeva di un'intraprendenza politica senza eguali. Nato a Baalbek, in Siria, nel 1138, la carriera del Saladino, dopo l'infanzia, fu una continua ascensione verso la vetta, un incessante susseguirsi di successi. Oggi si direbbe che “è uno che si è fatto da solo”. Se il suo cammino poté raggiungere risultati tanto grandiosi da essere oggi considerato la figura più importante dell'Oriente arabo nel Medioevo, fu prima di tutto grazie ad un potente degli zengidi, dinastia di origine turco-selgiuchida, che lo prese sotto la sua ala: il suo nome era Nur al-Din (per gli Europei, Norandino). Questi fu atabeg (termine che identificava i governatori selgiuchidi cui veniva affidata la gestione dei territori del sultano) prima ad Aleppo, nel 1146, poi a Damasco, che conquistò nel 1154. In Siria la sua politica fu incentrata sull'eliminare l'irritante presenza dei crociati, o, per dirla alla turca, dei “franchi” (in arabo ifranj o faranj). A tal fine, indisse numerosi jihad, strumenti di indiscutibile utilità, sia perché davano un senso più profondo alla lotta armata, avvertito anche dall'esercito, sia perché ingrossavano i ranghi di volontari. L'intelligenza non mancava neanche a lui, insomma. Dopo anni di guerre (peraltro inconcludenti) con i crociati, e in particolare con il regno di Gerusalemme di Baldovino III, la sorte volle che Nur al-Din imprimesse con forza sovrumana il suo nome nella storia araba (e non solo). L'occasione si presentò allorquando nell'Egitto dei Fatimidi sorse l'ennesima contesa per la carica di visir, posizione chiave, anche se formalmente secondaria a quella di califfo: Norandino, attraverso una serie di vicissitudini che, per ragioni di spazio, dobbiamo tralasciare, arrivò a far attribuire la carica a Shirkuh, suo generale, nonché zio di Saladino, che tuttavia perì pochi mesi dopo. La scelta del successore alla carica di visir del califfato fatimide ricadde, in quel 1169, proprio su Yusuf ibn-Ayyub. Saladino aveva solo trentuno anni. A dir la verità, per quella prestigiosa posizione, altri quattro emiri più anziani erano candidati, ma l'ambizioso giovane generale ebbe la meglio. Già all'epoca in effetti vantava un “curriculum” di tutto rispetto: era stato vicegovernatore di Damasco e aveva militato, facendosi già notare per la scaltrezza, il buonsenso e, tra le altre cose, la spregiudicatezza, proprio sotto Shirkuh, suo zio, tanto influente da raggiungere la carica di visir d'Egitto, come prima si accennava. Nel 1171 un'altra morte portò enorme fortuna a Saladino: Al-Adid, colui che deteneva la sovranità nominale del califfato, morì, appena ventenne. Alcuni hanno avanzato l'ipotesi che la prematura dipartita sia da attribuirsi ad un avvelenamento dello stesso Saladino, senza tuttavia rinvenire prove irrefutabili. Il califfo abbaside di Baghdad, comunque, non esitò a investire Nur al-Din della sovranità sulla Siria e l'Egitto. Quanto a Saladino, in conseguenza di suddetto decesso, oramai deteneva un'autorità senza eguali nella terra dei Faraoni, pur rimanendo sempre subordinato a Norandino. Governò l'Egitto, a detta di certuni, in maniera irreprensibile, non solo riordinando le istituzioni e l'esercito, ma promuovendo anche centri culturali. In particolare, al Saladino è da attribuirsi la fondazione di scuole teologico-giuridiche (in arabo madrasa) al Cairo e in svariati altri insediamenti. Tentando di evitare le semplificazioni, dobbiamo esser consci che una promozione del sapere su vasta scala doveva servire, nei piani del Saladino, anche a diffondere la sunna in un territorio, come l'Egitto, a quei tempi di tradizione sciita. Dopo soli tre anni, nel 1174, la morte di Nur al-Din dovette risultare una notizia più fausta, che dolorosa. “Mors tua vita mea”, per dirla alla latina. Ancora una volta, Saladino, con l'usuale pazienza, aveva saputo attendere, ed ora poteva finalmente coronare le sue ambizioni smisurate. Senza esitazione alcuna, da rapace qual era, si proclamò “tutore” dell'erede di Nur al-Din, che aveva appena undici anni, e provvide a impossessarsi dei domini siriani, sgominando qualunque forma di opposizione. Di certo condotte come questa stridono con la sua nomea di “pagano nobile”, inducendo a dar ragione a svariati storici, come David Nicolle, che recentemente hanno voluto ridimensionare le tradizionali virtù attribuite a Saladino. Per quanto arduo sia azzardare una teoria sulla vera natura del condottiero islamico, si deve costantemente tenere presente che in quest'ultimo era presente, accanto alla parte di lui incline ad una clemenza “cesariana”, alla tolleranza, il lato di politico consumato, in grado di colpire con viva violenza per perseguire il proprio interesse. Al di là delle questioni sollevate dalla complessità della sua figura, Saladino completò l'opera di unificazione dell'universo musulmano, già iniziata da Nur al-Din. Ora sedeva sulla vetta del mondo islamico. A questo punto, restava ancora un obiettivo, il più spinoso: la cacciata dei crociati, geograficamente circondati dai suoi vasti territori. Iniziò l'attacco dal regno di Gerusalemme, dove governava un re, di cui era molto più logico prospettare la debolezza, che non la forza: egli era Baldovino IV, lebbroso e sedicenne.
Battaglia di Montgisard |
Il 25 novembre 1177 i due eserciti si incontrarono a Montgisard, presso Ramla, e là avvenne il miracolo, per i cristiani però: le fonti parlano di “una grande luce che si alzò dall'Oriente” e che abbagliò i combattenti musulmani dando la vittoria ai guerrieri di Cristo, che peraltro si trovavano in inferiorità numerica. In concreto, la vittoria sembrerebbe da attribuirsi più al disordine organizzativo in cui si fece cogliere il Saladino che non a grandi manovre tattiche. Quel che è certo, comunque, è che quel giorno l'uomo più potente del mondo musulmano fu sconfitto da un ragazzo, e dovette ripiegare. Saladino programmò una nuova offensiva solo 10 anni dopo, attendendo con la sua usuale tempistica il momento propizio. Baldovino IV infatti era morto nel 1185, lasciando sul trono Baldovino V, ancora bambino, figlio di sua sorella Sibilla. Cagionevole di salute, morì anch'egli poco meno di un anno dopo. Chi incoronare dunque? Per superare l'empasse la scelta cadde, per ovvie ragioni, su Sibilla, con l'intesa di far nominare alla nuova regina anche il nuovo re. E questa, a sua volta, scelse suo marito, Guido di Lusignano. Pare lo abbia fatto per amore, e in effetti ne dovette essere accecata: il marito, un Amleto ante litteram, tentennò quando ci voleva celerità e fu affrettato quando era richiesta ponderazione. Mentre ci si spendeva in tali questioni dinastiche, a Saladino fu offerta la perfetta occasione per prendersi la rivincita. Rinaldo di Chatillon, uomo fascinoso ma indisciplinato, signore di Kerak, attaccò, per l'ennesima volta, una carovana musulmana, facendo prigionieri i viaggiatori. La mancata liberazione di questi, tra i quali, va detto, non c'erano, come si disse, una sorella e il figlio di Saladino, diede al sultano il casus belli perfetto per riprendere il conflitto in Palestina. Era il 1187. Stavolta agì in grande, e rilanciò il jihad. Era il momento di spargere sangue nel dar al-harb, il “territorio della guerra”. La mobilitazione fu generale. Tuttavia mutò strategia: l'obiettivo non era più quello di puntare direttamente su Gerusalemme, ma anzitutto bisognava attirare in una battaglia campale i cristiani, e spazzarli via in un sol colpo. La campagna iniziò sotto il segno del trionfo, grazie alla schiacciante vittoria, alle sorgenti del Cresson, che le forze musulmane ottennero sui cristiani condotti dal gran maestro templare Girardo di Ridefort. Si comprese fin da subito, tra i crociati, che la situazione rischiava di divenire drammatica. Guido di Lusignano ordinò la chiamata alle armi per tutti coloro che nel regno potevano impugnarle. La poderosa armata cristiana che ne venne fuori si riunì a Seforia, e comprendeva 1200 cavalieri, 4000 unità di cavalleria leggera e 15-18000 fanti, tra militari di professione e persone totalmente prive di esperienza. Intanto si venne a sapere che Saladino aveva attaccato la città di Tiberiade. A questo punto la scelta per i cristiani fu tra uscire in campo aperto, come voleva il Saladino stesso, o rimanere a Seforia, ricca peraltro d'acqua. Dopo giorni di inutili esitazioni, Guido prese la decisione di cui più si sarebbe pentito: il 3 luglio 1187 i crociati si muovono verso il deserto.
Battaglia di Hattin |
Le colonne marciano scoperte, esposte a qualunque minaccia, non somigliando neanche lontanamente ad un esercito. La trappola era scattata. L'epilogo non poté che essere una tragedia, tra le più grandi dell'intera Storia medievale: il 4 luglio, presso Hattin, i cristiani, già logorati dal caldo torrido e la sete, si ritrovarono accerchiati dalle forze di Saladino. E fu un massacro. Come Canne scosse profondamente la coscienza collettiva della Roma repubblicana, come Lipsia sconvolse la Francia napoleonica, così Hattin turbò l'Occidente cristiano più di ogni altra sconfitta. Che fu di quello sciocco di Guido di Lusignano? Sopravvisse, ma cadde prigioniero nelle mani del vincitore, che peraltro, sfoggiando l'usuale clemenza verso il nemico, lo liberò ottenendo in cambio alcune piazzeforti. Poco dopo, cadde anche Gerusalemme, indifesa. La notizia della disfatta arrivò in Europa su un vascello dalle vele nere, che per definizione indicano lutto. L'impatto emotivo fu tanto forte, che papa Urbano III morì di dolore. La reazione, ad ogni modo, seppe essere energica nel mondo cristiano, per non dire addirittura violenta. Come sappiamo, Gregorio VIII indisse immediatamente la crociata, cui aderirono monarchie ora abbastanza solide da sostenere lunghi conflitti esteri. Saladino era al massimo del suo prestigio. Aveva pazientato, atteso, faticato, perfino perduto ma, alla fine, era giunto al termine del suo cammino. Da semplice soldato, seppur con buoni agganci, adesso guardava se stesso e vedeva il paradigma del sovrano, del generale, del politico. Eppure l'ambizione in lui non si arrestava mai e, senza neanche aver concluso del tutto la cacciata dei cristiani dall'Oriente, già sognava, scrutando il Mediterraneo, di “vendere tutti i beni e tutte le sostanze, raccogliere l'esercito più grande che si sia mai visto sulla faccia della terra, attraversare il mare e conquistare le terre dei cristiani che si trovano al di là del mare”.
IL DUELLO: LA TERZA CROCIATA
Riccardo Cuor di Leone affronta in duello Saladino |
Ma i sogni erano, e sono, solo sogni. Da quella placida distesa blu che Saladino osservava stava arrivando la rivincita europea, nonché l'unico avversario degno, militarmente parlando, del vincitore di Hattin. Abbiamo lasciato i crociati, e i re, proprio alla loro partenza dalla Sicilia. Verrebbe da porsi una domanda, apparentemente banale: dove erano diretti? Certamente in Terrasanta, ma, per essere precisi, ad Acri. Fu considerato il punto di partenza migliore perché là Guido di Lusignano, liberato, come sappiamo, da Saladino, cingeva d'assedio la città, che era caduta nuovamente in mano musulmana. Filippo II Augusto sbarcò il 20 aprile 1191, e, sebbene avesse trovato degli assedianti sfiniti, logori, dovette rimanere sorpreso della tenacia inaspettata di Guido e i suoi. Rinforzati, e fortificati nello spirito dalla vista di un re, i cristiani ripresero l'attacco con maggior vigore, ma fu solo con l'arrivo di Riccardo, giunto l'8 giugno, che la città finalmente cadde, il 12 luglio. Il momento, per la nostra storia, ha un certo rilievo, poiché Saladino e il Cuor di Leone hanno qui un loro primo incontro, seppur indiretto, in cui il primo fallì miseramente nell'esaudire le innumerevoli suppliche d'aiuto dei difensori, mentre il secondo in poco più di un mese concluse un assedio che pareva infinito. Come se ciò non bastasse, quando Saladino si disse impossibilitato a procurare il riscatto per i prigionieri entro il termine stabilito, Riccardo gli mise pressione: massacrò 3000 musulmani, a eccezione dei nobili. Infine il sultano cedette e fu costretto, tra le altre cose, a dargli la Vera Croce, trofeo recuperato dai musulmani nella battaglia di Hattin. Dobbiamo supporre che Riccardo la bramasse tanto per la spinta emotiva che poteva conferire alle truppe quanto per la palese valenza simbolica. In ogni caso tali calcoli politici non sono sufficienti a spiegare l'improvvisa crudeltà di Riccardo. Prenderemo per vero quel che, in proposito, dice una fonte araba: “Solo Dio ne sa di più”. Saladino dovette comprendere, e di questo possiamo pure esser certi, di trovarsi di fronte ad un nemico nuovo, in grado di essere deciso, sicuro, carismatico. Tra la sua gente si diffuse a macchia d'olio il terrore per quell'uomo feroce venuto dall'Occidente. Pare addirittura che le mamme musulmane, quando i loro bambini piangevano, minacciassero: “Guarda che viene re Riccardo!”. Nell'esercito dei cristiani, tuttavia, l'entusiasmo fu smorzato da un evento inatteso: Filippo II, il re francese, decise di lasciare la crociata, di tornare in Europa. Come spiegarlo? Si sono in proposito formulate molte teorie, la più probabile delle quali è che, siccome era morto il conte di Fiandra, di nome Filippo, il re di Francia voleva mettere le mani sui suoi strategici possedimenti. In ogni caso, quel che più a noi interessa è che la sua partenza dopo la presa di Acri ebbe come effetto principale quello di lasciare il teatro degli scontri ai due personaggi di cui ci siamo occupati. Il duello entrava nel vivo. Era chiaro che il re inglese, ottenuta una solida base a nord, avrebbe puntato ora direttamente su Gerusalemme. Le armate di Riccardo infatti, da Acri, iniziarono la marcia verso sud, puntando su Giaffa, il porto della Città Santa, con il mare sul fianco destro e lo schieramento compatto. Il Cuor di Leone esibì qui tutta la sua dote militare: nonostante la lentezza, e gli sporadici attacchi di Saladino volti a disgregare le truppe, con mano ferma, mantenne l'esercito compatto, facilitato anche dal fatto di avere solo la parte sinistra della colonna da difendere. Si procedette in questo modo fino a circa 25 km a nord di Giaffa, quando Saladino si decise a puntare tutto su una battaglia campale, nei pressi della città di Arsuf. Era la mattina di quel 7 settembre 1191 da cui la nostra narrazione è iniziata. Trovandosi la strada sbarrata, Riccardo capì che lo scontro decisivo era inevitabile. Il Cuor di Leone contava su numeri spaventosi per l'epoca: circa 40000 fanti, ivi compresi arcieri e balestrieri, e 9500 cavalieri. Se il numero poté essere tanto alto, fu anche grazie a Filippo II, il quale, nonostante il poco impegno dimostrato, lasciò parte delle sue truppe in Terrasanta, al comando di Ugo III di Borgogna. Al centro dello schieramento stavano i cavalieri crociati, direttamente al comando di Riccardo, supportati da reparti di arcieri e altre truppe appiedate; la destra era composta dai Templari, condotti dal loro Gran Maestro Robert de Sablé; sulla sinistra lo scontro fu affidato agli Ospedalieri e al loro Gran Maestro Garnier de Naplouse. Veniamo ora allo schieramento musulmano. Sebbene Saladino mettesse in campo un esercito pressappoco numeroso quanto quello cristiano, si è concordi nel ritenere che le sue forze fossero certamente più fresche di quelle crociate, e di conseguenza sensibilmente più avvantaggiate in partenza. Differenza vistosa rispetto alle truppe cristiane furono, inoltre, gli equipaggiamenti, in quanto i musulmani erano prevalentemente armati alla leggera. D'altro canto Saladino continuava ad impiegare l'antica tattica della razzia, tipica del Medio Oriente arabo, pertanto un ruolo fondamentale era rivestito dagli arcieri a cavallo, e, più in generale, dalla cavalleria. La logica militare musulmana non era mai quella di impegnarsi direttamente a fondo nello scontro, quanto piuttosto quella di separare le varie unità dell'esercito nemico tramite un tiro martellante di dardi e giavellotti e poi spazzare via ciò che restava con un assalto generale. Lo scontro ad Arsuf mise in luce i punti deboli di tale strategia. Già da dopo le nove del mattino, la colonna cristiana in marcia verso Giaffa iniziò ad essere logorata dalla pioggia furiosa di frecce, soprattutto sulla retroguardia, che, se girata verso i musulmani, era il fianco sinistro dell'esercito crociato, dunque quello degli Ospedalieri, come prima si è detto. Dobbiamo immaginarci la fatica, il sudore, la paura di soldati che continuavano a marciare nonostante il caldo soffocante, i dardi, i giavellotti, le pietre, il peso insostenibile degli armamenti e le protezioni di ferro, le urla terrificanti di un nemico che appariva e scompariva, come un fantasma. Riccardo aveva dislocato tre coppie di trombe all'inizio, al centro e alla fine della colonna, di modo che contemporaneamente si potesse dare l'ordine di girarsi verso est e caricare simultaneamente il nemico. Solo che, a suo modo di vedere, il momento giusto non arrivava. La marcia della morte continuò per più di tre o quattro ore. I balestrieri e gli arcieri tentarono per tutto il tempo di rispondere alle salve della lesta cavalleria musulmana, ma la situazione non faceva che peggiorare. I crociati erano sempre più vicini a finire nella ragnatela di Saladino, inerti com'erano di fronte ai suoi ripetuti attacchi a distanza. Gli Ospedalieri, in particolare, erano prossimi a disgregarsi del tutto. Il Gran Maestro dell'Ordine, Garnier de Naplouse, fattosi coraggio, raggiunse a tutta velocità Riccardo, chiedendogli il permesso di interrompere la marcia verso sud e compiere una carica verso il nemico, al fine di allentare la pressione. “Pazientate, non è ancora il momento” gli rispose, lapidario, il re inglese. E altre tre volte la conversazione si ripeté. Davvero non si capiva perché un militare brillante come il Cuor di Leone esitasse a prendere una decisione tattica tanto ovvia. Infine, forse per disperazione, forse per rabbia, gli Ospedalieri, pur non avendo ricevuto alcun ordine, voltano i cavalli verso il nemico e si lanciano in una carica strabiliante. Riccardo, che non volle assolutamente quell'attacco, quando lo vide, incredibilmente, lo sostenne: le trombe risuonarono nella piana e l'intero schieramento cristiano si scagliò sugli avversari con una foga impressionante. Atterriti, i musulmani non riuscivano a reagire, incalzati com'erano dai cavalieri crociati, quindi iniziarono a indietreggiare. La ritirata per i reggimenti arabi rischiava di divenire una fuga disordinata. A meno che Saladino non volesse vedere l'esercito annientato interamente, urgeva la necessità di dare respiro alle sue truppe. A tal fine, il sultano radunò attorno a sé alcune centinaia di cavalieri e si scagliò sul fianco sinistro cristiano. Inutile dire che fu respinto facilmente, ma l'obiettivo fu ugualmente raggiunto, poiché Riccardo, visto il contrattacco, ritenne pericoloso proseguire nell'inseguimento e richiamò le truppe. Ad ogni modo, la vittoria dei crociati fu totale. Verrebbe da dire che il Cuor di Leone abbia trionfato grazie a un colpo di fortuna, o comunque per merito di una vera e propria disubbidienza ai suoi ordini. Ma questo è vero solo in parte, perché sulla faccia della Terra, quel giorno, nessuno avrebbe avuto la flessibilità, i riflessi, l'intuito che dimostrò Riccardo cambiando tanto repentinamente strategia. Detto in altri termini, la vittoria non avvenne solo grazie a lui, ma mai sarebbe avvenuta senza il suo genio militare.
Saladino era sconfitto, anche se non in maniera decisiva, come all'epoca si volle dire. Come vittoria, quella di Arsuf non è neanche paragonabile ad Hattin; le forze musulmane erano ancora consistenti, e pronte a difendere Gerusalemme. Intanto Riccardo poté concludere la sua marcia su Giaffa, riconquistata rapidamente. Svernò là, in attesa di compiere il passo finale, verso la gloria eterna. Si è più volte fatta notare, in ambito storiografico, l'inspiegabile lentezza del re d'Inghilterra in questo frangente. Sprecò molto tempo prezioso infatti per fortificare Giaffa, e, nel mentre, Saladino ebbe la possibilità di preparare con accuratezza le difese di Gerusalemme. Così i due attacchi che Riccardo sferrò alla Città Santa, a gennaio e a giugno del 1192, si conclusero con delle silenziose ritirate. La verità è che, con ogni probabilità, lo stesso Cuor di Leone non credette mai davvero nella riconquista di Gerusalemme, ma non tanto per la paura dell'assedio, che ben sapeva di poter vincere con un dispiegamento completo delle sue forze al momento giusto, quanto piuttosto per le prospettiva della gestione successiva della città, del territorio, dell'amministrazione. La mancanza di personale umano e politico, unitamente all'isolamento dall'Europa, furono dai tempi della Prima Crociata un problema insormontabile per l'Oltremare latino, tanto preso sul serio da Riccardo che decise di evitare di complicare senza motivo quella che ai suoi occhi era una chiara vittoria. Il ragionamento, se lo si analizza, non va a suffragare le tesi di chi ha visto nel re inglese un uomo schiavo del bisogno di gloria; anzi può aiutare a ridare complessità, umanità ad un personaggio privato della sua legittima dimensione storica.
Il piano del Cuor di Leone allora fu un altro: venire a trattative, stavolta da una posizione di forza, almeno secondo lui. Di fatto Saladino, convinto di avere ancora una notevole forza contrattuale, volle rivedere solo questioni politiche non inerenti alla sovranità su Gerusalemme. Il trattato di pace, siglato il 2 settembre 1192, andò molto diversamente dal modo in cui Riccardo aveva pianificato. Quest'ultimo era arrivato a prospettare perfino una coabitazione politica su Gerusalemme, ottenuta con un possibile matrimonio tra la sorella Giovanna d'Inghilterra e il fratello del sultano, che gli Europei chiamavano Safadino. L'ipotesi pare suggestiva, oltreché rivelatrice di una notevole apertura mentale di Riccardo, che, d'altro canto, non era certo un ignorante. Ad ogni modo, le idee del Cuor di Leone su Gerusalemme rimasero, appunto, solo idee, prima di tutto a causa del rifiuto della stessa Giovanna di sposare un islamico, e, secondariamente, perché Saladino si mostrò restio a cedere anche di poco sulla Città Santa. L'accordo che fu concluso pare più il risultato di una lotta senza un vero vincitore: fu statuita una tregua di 3 anni e 8 mesi; Gerusalemme rimase in mano a Saladino, con la possibilità però del libero accesso per i pellegrini cristiani; inoltre il sultano riconobbe le conquiste compiute dal Cuor di Leone, in particolare Acri e Giaffa; le città di Lydda e Ramla divennero territorio comune. Riccardo, richiamato da urgenti affari sul continente, dovette ripartire dalla Terrasanta il 9 ottobre 1192, senza peraltro visitare i luoghi sacri di Gerusalemme, sebbene ora gli fosse permesso. Certi storici si sono sbilanciati, volendo attribuire a siffatta condotta il valore di un atto dimostrativo, volto a far capire al nemico che si era pervenuti ad una tregua, non alla fine della guerra e che il suo era, come si direbbe oggi, un “arrivederci”, non un “addio”. Quale che fosse il senso del disinteresse di Riccardo per i luoghi sacri Gerusalemme, non tornò mai in Terrasanta. La sua vita si concluse nello stesso modo in cui era trascorsa: sul campo di battaglia, per una balestrata nell'assedio di Chalus, nel 1199. Quanto a Saladino, non visse a lungo dopo la terza crociata. Morì infatti solo alcuni mesi dopo la tregua con il Cuor di Leone. Nelle sue ultime ore gli furono letti alcuni passi del Corano. Si racconta che alle parole “Non c'è altro Dio che Lui, in Lui ho posto la mia fiducia” (IX, 129) sorrise, poi il suo grande cuore cessò di battere. Alla fine di tutta questa storia, non è agevole incoronare un vincitore. Forse neanche c'è stato. Quel che conta è lo spessore che lo scontro tra Saladino e Riccardo Cuor di Leone ha raggiunto, sia sul piano militare, sia sul piano politico. Una prova su tutte di quanto appena detto: la trattativa fu il più grande compromesso di tutta la storia delle crociate, potenzialmente in grado di conciliare permanentemente le esigenze di cristiani e musulmani. Nascosto, in questa storia, appare allora il seme della concretizzazione di un principio utopistico, per cui ancora oggi si lotta: la tolleranza religiosa.
Articolo di Giulio Talini
Bibliografia
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