La nostra storia comincia nel IV d.C., un secolo nel quale la penisola italiana viene attraversata da un forte cambiamento politico e sociale e caratterizzata dall'incontro tra modelli culturali diversi. In questo momento, determinato dal passaggio tra tarda antichità e altomedioevo, si sviluppa l’istituzione benedettina, un'esperienza monastica identificata col nome di San Benedetto. La Regula pianificava l’intera giornata dei monaci attraverso la determinazione dell’hora canonica. Obbedienza e silenzio erano gli strumenti fondamentali dei precetti, richiesti e talvolta imposti con pene corporali (vindicta corporalis) e perfino con la scomunica. I monaci erano chiamati ad alzarsi persino in piena notte per pregare, leggere e cantare i salmi. A turno venivano chiamati per lavorare nell’orto, in cucina e nello scriptorium. Anche i pasti rappresentavano un aspetto importante della Regola e variavano per quantità e orario di somministrazione a secondo della stagione, del lavoro e della salute del monaco. Lo scopo era dunque quello di organizzare la vita monastica, di controllare attraverso l’alimentazione la vita spirituale dei monaci e aiutarli a raggiungere la perfezione della loro dedizione a Dio. Per più di due secoli la Regola non fu né resa nota, né applicata ad eccezione delle allusioni ad opera di Gregorio Magno nei suoi Dialogi. Soltanto nell’VIII diventa la più ricercata ed apprezzata dagli ordini: infatti, è durante la monarchia franca, con Carlo, Ludovico il Pio e l’abate Benedetto di Aniane nel cosiddetto “monachesimo d’impero”che la Regola venne imposta e diffusa in tutto il Regno. E l'archeologia cosa ha scoperto a riguardo? Le indagini condotte sui complessi monastici altomedievali hanno notevolmente ampliato le conoscenze riguardo soprattutto gli impianti e le strutture cultuali affrontate con un nuovo tipo di approccio focalizzato verso la contestualizzazione territoriale in un’ottica archeologica più estesa e ragionata a seconda del territorio e del periodo storico. Solo di recente in Italia l’archeologia ha rivolto la propria attenzione verso possibili indagini nei monasteri, a differenza di quelle svolte in Europa che hanno contribuito a migliorarne la conoscenza e a ricoprire un ruolo fondamentale nell’archeologia medievale. Nella penisola italiana sono quasi duecento i monasteri studiati, ma di certo uno dei più grandi progetti di scavo in questo senso è quello del monastero di San Vincenzo al Volturno in Molise. Dati significativi arrivano anche dalle ricerche condotte presso l’abbazia di Novalesa (TO), dal monastero di S. Michele alla Verruca (PI),di Nonantola (MO) e presso quello di San Severo a Classe (RA). Questi dati hanno permesso l’arricchimento del quadro delle conoscenze su quello che è uno dei fenomeni di maggior portata e più ricchi di valenze del mondo post-classico, sul quale, per contro, l’indagine archeologica, per ragioni diverse, non aveva avuto in passato uno sviluppo adeguato all’importanza del tema. Ma parliamo di Capitanata, parliamo di Gargano, uno dei maggiori santuari della cristianità medievale. Purtroppo non è possibile rintracciare informazioni ben definite nel periodo precedente al XII, ma a partire da questo secolo abbiamo invece una serie di carte e memorie riguardanti fondazioni e donazioni più recenti. Monte Sant'Angelo, la cittadina custode della sacra grotta, si presenta sicuramente una delle più ricche e attive “città” meridionali a partire dall' XI secolo e in particolare sotto il dominio del conte normanno Enrico. Vita e floridezza si manifestano nell'erezione di edifici monastici e chiese, come ci suggerisce lo studioso Leccisotti riportando ne “Le colonie cassinesi in Capitanata” un passo dello storico Angelillis, il quale ci racconta che secondo la tradizione più di cento erano i luoghi sacri e gli ospizi che erano sorti fuori e dentro le mura di questa città. Un esempio raffinato di monastero benedettino in questa località è l'Abbazia di Santa Maria edificata agli albori del XII secolo sulla vetta del colle di Pulsano. Da sempre luogo frequentato dai monaci, anacoreti, eremiti, venne fondato, nel 591, un primitivo monastero ad opera del papa Gregorio Magno sui resti di un antico tempio oracolare pagano in cui venivano radunate ed organizzate forme di vita monastica già preesistenti. Fu affidato dapprima ai monaci di S. Equizio, legato alla famiglia Anicia cui Gregorio Magno apparteneva, mentre nel X secolo, per un breve periodo, passò sotto la giurisdizione cluniacense. In questi secoli, sotto l'impulso della comunità pulsanese, le valli circostanti vennero popolandosi di uomini accomunati da un'unica sete di ricerca di Dio, nel radicale rifiuto della vita materiale e nella volontà di elevarsi a Dio attraverso il digiuno e la preghiera. Eressero gli eremi, piccole cellette costituite talvolta da una semplice grotta lungo la parete scoscesa del pendio del vallone, o da solitarie abitazioni su dirupi impervi e inaccessibili. Distrutto dai saraceni, il monastero fu ricostruito agli inizi del XII (precisamente nel 1129) dal celebre pellegrino Giovanni da Matera, al quale “una donna, degnissima di venerazione per l’aspetto di serena pietà, con la mano gli indicò dove dovesse andare per edificare una chiesa”. Secondo il canone iconografico sarebbe la Madre Odigitria, “colei che indica la via”, la perpetua custode di Pulsano, che in seguito sarebbe sempre stata venerata con grandissima devozione dalle popolazioni locali, anche nei periodi di abbandono da parte dei monaci. Da qui in poi si vedrà il rifiorire della vita monastica eremitica con la nascita di un ordine monastico autonomo, la congregazione dei poveri Eremiti pulsanesi. Chiamati “gli scalzi” per la loro di abitudine di camminare senza calzature, la congregazione venne organizzata e strutturata dai primi diretti successori di Giovanni da Matera, gli abati Giordano e Gioele. La piccola congregazione pulsanese, connotata da tratti di spiccata originalità, seguiva la regola di San Benedetto in maniera molto rigida, ma si basava anche sulla tradizione monastica orientale, in particolare sulle norme di vita dei monaci Basiliani delle grotte della Murgia: si astenevano dalla carne e dal vino (che potevano consumare solo in particolari giorni dell'anno), indossavano la cocolla, un abito di panno di lana color corda, che terminava con un cappuccio a punta, detto "schema", imprimendo un nuovo impulso all'ideale monastico attraverso una vocazione pauperistica e di ritorno al lavoro manuale. Colti e operosi soprattutto in architettura, edificarono chiese e monasteri in molti altri luoghi fuori del Gargano: per esempio in Toscana, in Basilicata e addirittura in Dalmazia.
Immagine tratta da Wikipedia, Autore: Filippo Gurgoglione
Articolo di Maria Teresa Gatto. Tutti i diritti riservati.
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