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martedì 14 febbraio 2012

ERESIE A PUNTATE. 19. LA RIFORMA E GLI ERETICI PATARINI

Nel corso dell’XI secolo il papato romano si consolidò definitivamente come punto di riferimento essenziale e guida della società medievale in genere. Questo avvenne sull’onda di un movimento passato alla storia come “La riforma ecclesiastica” nata dalla necessità diffusa di un profondo rinnovamento della Chiesa. Le cronache dell’epoca sono, infatti, ricche di lamentele sui costumi di vita di vescovi e prelati, descritti come uomini corrotti e violenti, dediti alle pratiche di simonia, di concubinato (o nicolaismo) per aggirare l’obbligo al celibato. Il nome “nicol aita” proviene da una antica setta eretica nota per gli eccessi di fornicazione, orge, riti pagani a base fortemente erotica.
Non a caso il nicolaismo del clero è collegato alle abitudini sessuali di questi prelati. Tra le cause principali di questa degenerazione diffusa della condotta morale del clero era il fatto che gran parte dell’ordinamento ecclesiastico dipendeva, o era legato a quello secolare, con concessioni e donativi da parte dei signori e dei sovrani. A questa situazione si era cercato di reagire introducendo condotte di vita più rigorose, prima di tutto nel mondo monastico, meno implicato nelle vicende politiche e sociali. Ma poiché i monasteri dipendevano comunque dall’autorità vescovile della diocesi, alla fine del X secolo, si cercò di renderli autonomi con la cosiddetta esenzione monastica. Grazie a questa concessione papale, molti monasteri formarono delle strutture federative o dipendenti da un monastero principale. Uno degli esempi più significativi di questa tendenza è il monastero di Cluny (e il movimento cluniacense), fondato dal duca di Aquitania Guglielmo Pio e posto sotto la diretta protezione papale, in modo da non subire influenze da parte dei grandi feudatari ecclesiastici e nobiliari. Il papa, a sua volta, concesse al monastero l’autorizzazione a porre sotto la propria autorità i monasteri che accettassero il modo di vivere e la regola cluniacense, che insisteva su una disciplinata vita comunitaria e sulla preghiera. Questo conferì all’abate di Cluny una grande autorità, riconosciuta da tutti i monasteri e dai vari potentati locali in cui risiedevano. Sempre strettamente connessi a questa profonda esigenza religiosa e spirituale sono anche i vari esempi di eremitismo che, con modelli spirituali differenti, erano tutti tesi all’ascesi e al raccoglimento (uno su tutti l’esempio di San Romualdo e il monastero di Camaldoli). Tutte queste spinte riformatrici ponevano l’esigenza di una guida unitaria, ma il papato si dimostrò impreparato. E fu all’impero che si dovette un primo forte impulso al movimento di riforma. Enrico III (1039-56), fedele a una politica di cesaropapismo, esercitò sulla Chiesa di Roma una maggiore pressione dei suoi predecessori, deponendo papi indegni e eleggendo pontefici tedeschi che dessero un nuovo impulso al rinnovamento religioso (particolarmente importante fu l’opera di Leone IX, 1048-54, che fece molti viaggi pastorali e concili, condannando apertamente le pratiche simoniache e il concubinato e ribadendo la preminenza della Sede romana, con la conseguente rottura con la Chiesa d’Oriente). Cambiarono anche i metodi di elezione del papa e venne stabilito che l’elezione del papa doveva essere riservata ai cardinali, escludendo, quindi, l’intervento diretto da parte di laici (compreso l’imperatore). Contemporaneamente il papato, che proprio, in quel periodo, iniziava a smarcarsi dalla tutela imperiale, trovò un importante appoggio politico con i Normanni dell’Italia meridionale, sancito nell’accordo di Melfi (1059), in base al quale Roberto il Guiscardo, riconosciuto duca di Puglia e di Calabria, si impegnava a riconoscere l’alta sovranità della Chiesa di Roma. Altri appoggi importanti risultarono essere i grandi centri urbani, come Milano e Firenze, Guglielmo di Normandia (futuro re d’Inghilterra) e i marchesi di Toscana (tra cui Matilde di Canossa). L’iniziativa papale ovviamente fu causa di un progressivo incrinarsi dei rapporti con l’impero, sia per i vari movimenti che contestavano vescovi di nomina imperiale e sia per la politica filonormanna. Il contrasto si accentuò in occasione dell’elezione al pontificato di Anselmo da Baggio (uno degli ispiratori del movimento patarino) col nome di Alessandro II (1061-73), al quale alcuni vescovi tedeschi e filoimperiali contrapposero un loro pontefice, Onorio II.

Ma cos’è il movimento dei patarini, o Pataria?

A tutti gli effetti è un movimento ereticale che prese origine nell’XI secolo dalla reazione del clero di base e dei ceti emergenti urbani di Milano, non solo quelli degli artigiani e dei mercanti, ma anche quelli più umili, nei confronti della gerarchia ecclesiastica, corrotta e simoniaca. Per questo motivo collocarlo nell'ambito delle eresie medievali potrebbe suscitare più di una perplessità. Ignoriamo l’etimologia del termine “Pataria”. Tra le varie ipotesi formulate quella più probabile è quella che la ricollega al paté (o patee) del dialetto milanese, che equivale a “straccivendolo” o “stracci”. Si tratta chiaramente di un’etimologia propagandistica e dispregiativa, introdotta dalla parte avversa, che evidenzia, comunque, un movimento principalmente a partecipazione popolare. Il movimento della Pataria si inserì in un processo di riforma della cristianità già avviato da alcuni decenni e che ebbe come sbocco inevitabile quello scontro tra Chiesa e Impero che si è soliti indicare sotto il nome di Lotta per le investiture. Nel gennaio del 1045 muore Ariberto da Intiminano, l’arcivescovo ambrosiano, già molto discusso, famoso per aver sgominato e poi giustiziato gli eretici di Monforte. Forte di una tradizione da tempo affermatasi nella città milanese, l’assemblea cittadina presenta una rosa di quattro candidati per la successione arcivescovile, che sottopone all’attenzione dell’imperatore Enrico III (1017-1056): il già citato Anselmo da Baggio, Landolfo Cotta, Arialdo da Carimate e Attone, tutti noti come uomini onesti e virtuosi. Ma Enrico, incurante delle indicazioni ricevute, preferisce favorire un esponente della nobiltà feudale, per assicurarsi a capo della arcidiocesi una persona legata agli interessi dell’Impero: Guido da Velate. Questo “cesaropapismo”, introdotto dai Carolingi, potenziato dagli Ottoni ed ereditato da Enrico si rivelò, però, un'arma a doppio taglio. Da una parte, infatti, favorì un processo di trasformazione e di riforma che portò la Chiesa a rivendicare il diritto alla propria autonomia, arrivando inevitabilmente a uno scontro aperto con l'Impero e con ogni potestà feudale e signorile tesa a condizionarne l’autonomia. Dall’altra, il sistema aveva prodotto degenerazioni tali da rendere quotidiano e usuale il mercimonio delle cariche religiose (san Pier Damiani, non a caso, ci informa che a Milano esisteva un vero e proprio tariffario per l'accesso agli ordini religiosi e alle relative prebende, compreso quello episcopale). Questo spirito di riforma, che era stato promosso dallo stesso imperatore, si era introdotto in tutta la curia pontificia e uomini come Pier Damiani, Anselmo da Baggio e Ildebrando di Soana, il futuro Gregorio VII, vedevano nella lotta alla simonia uno strumento ideale per garantirne l’indipendenza dalle intromissioni imperiali, la libertas ecclesiae, e per la rigenerazione morale della Chiesa. In un contesto del genere, e come reazione alla scelta compiuta dall’imperatore, due degli sconfitti all’elezione arcivescovile milanese, Arialdo, magister artium liberalium, di Carimate o Cucciago, e Landolfo, noto come “Cotta”, probabilmente imparentato con i nobili capitanei di Befana, dettero luogo ad una forte azione moralizzatrice. In questo furono inizialmente favoriti anche dalla prematura scomparsa dell'imperatore Enrico, che mise in difficoltà Guido da Velate. Un primo scontro “armato” tra i simpatizzanti di Landolfo e Arialdo e i loro avversari si registra in occasione della processione in onore di san Nazario, il 10 maggio del 1057. Guido da Velate, impegnato a tutelare i propri interessi presso la curia imperiale, in un primo momento non dette troppa importanza al fatto, ma quando i Patarini pretesero dal clero milanese un giuramento formale di osservare la castità, si appellò a Roma. Stessa cosa fecero, però, anche i suoi avversari e Stefano IX non vide altra soluzione, al fine di riportare un po’ di calma, che imporre la convocazione di un sinodo per discutere la situazione che rischiava di farsi sempre più complicata, dal momento che Arialdo e i suoi si rifiutavano di far rientrare in città l’arcivescovo Guido. Dopo il tentativo andato a vuoto di uccidere Landolfo Cotta mentre si recava a Roma per perorare la causa del movimento dei patarini presso papa Stefano IX (1057-1058), gran parte del popolo milanese appoggiò Arialdo contro Guido da Velate. Tra le varie forme di lotta che la reazione patarina mise in atto vi fu lo “sciopero liturgico”, il boicottaggio cioè delle funzioni religiose celebrate da preti e chierici simoniaci e “nicolaiti” (termine che deriva dalla pratica nota come nicolaismo, e alquanto diffusa all'epoca di Guido, dei religiosi che vivevano apertamente in concubinato con donne). Il confine tra ortodossia e eresia si fece labile e confuso in quanto i patarini negavano di fatto la validità dei sacramenti, che, invece, secondo la dottrina cattolica è indipendente dalla dignità del ministro. Ma essendo l’intento di Arialdo e dei suoi decisamente estraneo da motivazioni teologiche, Roma, anziché sconfessare il movimento patarinico, come parte del clero e della stessa popolazione milanese auspicava, decise di sostenerlo. Nel 1060 giunse a Milano la missione annunciata da Stefano IX e inviata dal suo successore Niccolò II (1059- 1061). Di essa faceva parte lo stesso Pier Damiani e Anselmo da Baggio, quell’Anselmo, allora vescovo di Lucca, che era stato designato alla possibile successione arcivescovile di Ariberto (e che nel 1061 venne eletto papa col nome di Alessandro II): la scelta romana di inviare queste due personalità la dice lunga sulla quella che era la reale volontà di Roma. Tra il 1061 e il 1062 morì il compagno di Arialdo, Landolfo Cotta, per complicazioni polmonari a seguito di un altro attentato alla sua vita avvenuto due anni prima mentre pregava in chiesa, e gli successe, sia pur con riluttanza, il fratello Erlembaldo. Alessandro II (ovvero Anselmo di Baggio), per affermare il primato di Roma, lo appoggiò apertamente, consegnandogli il vessillo della Croce o di San Pietro (il vexillum Petri), che sempre, da questo momento in poi, sarà presente nelle vicende della Pataria. Investito direttamente dal pontefice di questo forte riconoscimento, Erlembaldo votò tutto sé stesso nel movimento, giungendo a sfidare in campo aperto gli avversari (arrivando a imporre l’elezione del nuovo arcivescovo). Confortato da tutto questo, Arialdo acutizzò la lotta antisimoniaca, combattendo direttamente nel suo contado Guido da Velate, mentre Erlembaldo, nel 1066, recatosi nuovamente a Roma, fece ritorno con due bolle pontificie: una con la quale si scomunicava l’arcivescovo e l’altra con la quale si chiedeva al clero milanese di sottomettersi alle decisioni di Roma. La situazione politica, però, va cambiando: Enrico IV, uscito dalla minore età, nel 1065 diventa imperatore. Guido da Velate, che contava sul suo appoggio, convocò, nel giugno dell'anno successivo, un’assemblea cui parteciparono gli stessi Arialdo ed Erlembaldo. Sfruttò l’occasione per prendersi beffa della bolla di scomunica e, facendo leva sullo spirito autonomistico milanese, accusò il movimento patarino Pataria di essere asservito alla chiesa romana. Arialdo e Erlembaldo si salvarono a stento da un tentativo di linciaggio. Guido lanciò l’interdizione su Milano, finché Arialdo fosse rimasto in città, costringendo quest’ultimo a lasciare Milano. Catturato dai sicari di Guido, venne ucciso e il suo corpo fu gettato nelle acque del Lago Maggiore. Quando, alcuni mesi dopo, nel 1067, il suo corpo venne ritrovato (e la leggenda vuole che fosse miracolosamente integro), Erlembaldo, nel 1068, riuscì a ottenere da papa Alessandro II la beatificazione di Arialdo e la scomunica dell’arcivescovo. Alla morte di Guido da Velate, i suoi partigiani riuscirono a far eleggere arcivescovo Goffredo da Castiglione, designazione accettata da Enrico IV, che pretese dal candidato una congrua somma in danaro e l’impegno di sradicare la Pataria dalla città. Alessandro II reagì scomunicando Goffredo e incaricò Erlembaldo di impedirgli l’ accesso in città. Erlembaldo contrappose la candidatura di Attone, subito accettata dal neopontefice Gregorio VII (1073-1085). Gli eventi precipitarono e nel 1075, in una serie di tumulti, venne assassinato lo stesso Erlembaldo. La Pataria continuò a esistere anche dopo la morte di Erlembaldo, ma con accenti affievoliti. Alcune tematiche, tra le quali la non validità dei sacramenti, impartiti da sacerdoti simoniaci, le ritroviamo in vari movimenti contemporanei non solo a Milano e nel suo territorio, ma anche in altre città (in particolare a Firenze dove l’azione dei monaci vallombrosani, fondati da Giovanni Gualberto, si rifaceva apertamente al movimento milanese). Già nel 1089 papa Urbano II (1088-1099), il papa della prima crociata, diede un duro colpo a quella che era l’istanza principale e caratteristica dei patarini, affermando cioè che i sacramenti impartiti da preti simoniaci o corrotti erano comunque validi. Negli anni a seguire, soprattutto a partire dal XII secolo, quando sorgeranno movimenti ereticali che del rifiuto dei sacramenti e della gerarchia ecclesiastica faranno i temi principali delle loro predicazioni, movimenti che traevano origine nel tentativo dei laici di trovare una maggiore partecipazione nelle questioni religiose, la Pataria venne accostata a loro e il termine “patarino” divenne sinonimo di eretico (alla stessa stregua di cataro). La riforma religiosa evidenziò che non si trattava solo di lottare contro gli ecclesiastici corrotti, ma anche contro la prassi della designazione dei vescovi da parte dell’imperatore o del potere civile a lui legato. La piena attuazione della riforma richiedeva necessariamente l’autonomia della Chiesa nel comporre le sue scelte e designazioni. Questo comportava una forte contrapposizione tra papato e impero, focalizzata, soprattutto, sulle modalità di designazione dei vescovi, da cui il nome “lotta delle investiture”. Protagonista principale fu Ildebrando da Soana, eletto pontefice come Gregorio VII (1073-85). Nel suo Dictatus Papae (1075) ribadì con forza la superiore autorità del papato sia sulla Chiesa che sul potere civile: «Solo il Pontefice romano può a buon diritto essere considerato universale. Egli solo può deporre o stabilire i vescovi. Un suo messo, anche se inferiore di grado, é, nei concilii, superiore a tutti i vescovi e può, nei loro confronti, emettere sentenza di deposizione. Non é lecito aver rapporti o rimanere nella stessa casa con coloro che sono stati scomunicati dal Papa. Egli solo può usare le insegne imperiali. Il suo titolo è unico al mondo. Gli é lecito deporre l'Imperatore. Nessuno lo può giudicare. Egli può sciogliere i sudditi dalla fedeltà verso gli iniqui». Gregorio si scontrò con l’opposizione dell’impero e dei molti ecclesiastici fedeli alla tradizione, che affidava ai vescovi poteri religiosi e civili. Forte resistenza incontrarono i decreti principali che stabilivano la condanna di simonia e concubinato e che le abbazie e vescovadi non potessero essere conferiti per investitura laica. L’imperatore Enrico IV convocò una dieta a Worms (1076) in cui, sostenuto da tutti i vescovi tedeschi e da molti italiani, depose e scomunicò Gregorio VII. Il papa, in un sinodo nello stesso anno, reagì scomunicando a sua volta i vescovi che avevano appoggiato Enrico, compreso l’imperatore stesso, sciogliendo così i sudditi dall'obbligo di fedeltà nei confronti della corona imperiale. Questo fatto intaccò notevolmente l’autorità imperiale, in contrasto con la grande aristocrazia tedesca. Si arrivò così al famoso episodio di Canossa (1077), quando Enrico IV, vestito da penitente, chiese l’assoluzione del pontefice davanti alle porte del castello della contessa Matilde di Canossa, fedele sostenitrice di Gregorio VII. La scomunica venne annullata ma non fermò la ribellione dell’aristocrazia tedesca che depose Enrico, eleggendo al suo posto Rodolfo di Svevia. Enrico IV, riuscì comunque a risolvere in suo favore la continua lotta con i duchi tedeschi e, nel 1080, sconfessò l’atto di sottomissione di 3 anni prima. Nel corso dello stesso anno venne tenuto un concilio che rinnovò la deposizione di Gregorio VII ed elesse al suo posto l’arcivescovo di Ravenna, col nome di Clemente III. Enrico, che si era riorganizzato, scese nuovamente in Italia e sconfisse Matilde di Canossa. Dopo di che entrò a Roma per porre al soglio pontificio Clemente III (1084). Gregorio, assediato in Castel Sant’Angelo, fu tratto in salvo da Roberto il Guiscardo, ma fu costretto a abbandonare la città a causa di un’insurrezione dei romani contro le truppe normanne. Si rifugiò a Salerno, dove morì qualche mese dopo. La spinta del movimento riformatore non terminò con la sua morte ma continuò, approfittando anche delle difficoltà in cui si trovava Enrico a tenere testa ai principi tedeschi e all’opposizione di Matilde e delle città alleate e dei vescovi riformatori in Italia. A Piacenza si svolse un grande concilio (1095) che rinnovò i provvedimenti riformatori. Nel 1106, durante la Dieta di Magonza, sempre più isolato e osteggiato dai grandi vassalli tedeschi, Enrico IV abdicò a favore del figlio, che venne eletto imperatore: Enrico V (1106-25). Questi scese in Italia (1110) per muovere verso Roma e farsi incoronare dal pontefice, ottenendo, lungo la sua discesa, anche la sottomissione di Matilde e di numerose città. Nel 1111 vi fu un accordo, a Sutri, tra Enrico V e il pontefice Pasquale II, per la restituzione dei beni e delle regalie concesse in passato dall’impero alla Chiesa, in cambio della rinuncia all’investitura laica dei vescovi. Ma l’intesa durò poco e nel giro di poche settimane Enrico V costrinse il papa a incoronarlo e a concedergli la facoltà di investire vescovi. Un concilio del 1112 annullò questa concessione e nel 1116, in un momento di forti difficoltà di Enrico in Germania, Pasquale II revocò ogni accordo e lo scomunicò. Si arrivò, comunque, a un accordo tra Enrico V e papa Callisto II (1119-24), il cosiddetto concordato di Worms (1122), che consisteva in due documenti distinti, uno papale e uno imperiale, tra i cui punti salienti era senz’altro la netta distinzione tra la consacrazione religiosa, che competeva esclusivamente alla Chiesa, e l’investitura feudale, che spettava invece al sovrano. Con la separazione dei due poteri allora universalmente riconosciuti, Impero e Chiesa, fu quest’ultima a ricavarne i maggiori vantaggi, poiché l’imperatore dovette piegarsi a riconoscere la sua autonomia e un suo più alto valore spirituale, assumendo le caratteristiche di un vero e proprio organismo politico, non più limitato alla sola sfera sacerdotale, ma capace di diritto e di azione giuridica, come ad esempio possedere beni temporali (gli alti dignitari ecclesiastici continuarono comunque a essere titolari di domini e obblighi feudali). Il concordato fu approvato nel 1123 dal primo concilio ecumenico lateranense (tenuto nella basilica di San Giovanni in Laterano). Forte dell’autonomia ottenuta, dalla metà del XII secolo la Chiesa romana cominciò a assumere la fisionomia religiosa e politica che poi detenne nel corso dei secoli successivi. Non fu più solo ecclesia (comunità di vita religiosa), ma anche, se non soprattutto, curia (centro di governo), intervenendo sempre più incisivamente nella vita della cristianità. Mutarono i rapporti tra Roma e le chiese locali, con il ridimensionamento dell’autonomia di queste ultime e dei loro vescovi, e furono sempre più numerosi gli interventi “politici” del Papato per condizionare l’operato dei vari sovrani. Questo portò anche alla nascita di nuove organizzazioni di vita religiosa, con la fondazione di nuovi ordini, quali i Cistercensi (1098), dal monastero di Citeaux in Borgogna, che miravano a una restaurazione della regola benedettina originaria e a una riaffermata austerità di vita (la regola cistercense fu approvata nel 1119 e uno dei più grandi rappresentanti del movimento fu San Bernardo), e i Certosini (1084), nati da una comunità fondata da San Brunone di Colonia a Chartreuse, presso Grenoble (soggetti a una regola molto severa approvata nel 1133). La riforma portò anche dissenso religioso, soprattutto da parte di laici e di riformatori capaci di radunare intorno a sé un gran numero di simpatizzanti.

Articolo di Aldo Ciaralli. Non può essere copiato e distribuito senza il consenso dell'autore.

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