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mercoledì 1 febbraio 2012

ERESIE A PUNTATE: 5. LUMEN FIDEI

Per Tommaso, la vera felicità si può ottenere solo dopo la morte. E se la beatitudine è il godimento che deriva dalla visione beatifica di Dio, si capisce che la vita terrena deve essere vissuta in funzione di quella ultraterrena. Tuttavia, è possibile anche nel mondo che conosciamo una qualche felicità, sia pure imperfetta, perché, grazie al lumen fidei, la contemplazione, abbiamo una percezione di quel Dio che vedremo a faccia a faccia nell’aldilà. Tommaso afferma, quindi, che la felicità terrena, pur incompleta, è possibile e richiede tutti quei beni, e solo quei beni, che sono irrinunciabili per la vita spirituale. In Tommaso l’anima ha decisamente preso il posto dell’uomo e l’aldilà della vita terrena ed è chiaro che nella visione tomistica la vita contemplativa dà luogo ad una beatitudine maggiore della vita attiva mondana.
È evidente che il modello teoretico di Tommaso riflette la scelta di vita che l’aquinate ha compiuto, la vita domenicana, totalmente dedicata alla preghiera, allo studio e all’insegnamento della verità. Questo desiderio di divinizzazione, che trova il suo compimento nell’aldilà, ha provocato una radicale svalutazione, non solo della corporeità ma di tutta la vita terrena nel suo complesso. E l’effetto è stato che per molto tempo, più che ad impegnarsi per migliorare questo mondo, la spiritualità cristiana ha esortato i credenti a "disprezzare i beni terreni e ad amare quelli celesti", come diceva il messale rimasto in vigore fino alla riforma liturgica sostenuta dal concilio Vaticano II. Sebbene Tommaso si ispiri alla costruzione filosofica di Aristotele e getti sul mondo uno sguardo più benevolo di quello dei suoi contemporanei, la sua teologia resta marchiata dal pessimismo agostiniano. La sua teologia, inoltre, non parla dell’amore, il tema centrale nel Vangelo, ma di conoscenza e contemplazione. Come Agostino, anche Tommaso ritiene che "pochi sono gli uomini che attingono la salvezza" (Somma teologica I, 23, 7). Sulla vita umana, dunque, incombe l’eredità del peccato originale, e quindi la dannazione eterna. È un fatto innegabile che la catechesi cristiana per secoli abbia infuso nei credenti un morboso senso di colpa e un intenso terrore dell’inferno. Tutto questo non solo nel medioevo, ma anche nell’età moderna. Secondo questo sistema teoretico, Dio ha creato un mondo dove Adamo ha potuto peccare, ma non ha creato il male. In altre parole Dio non ha voluto il dilagare del male, lo ha solo permesso, ed essendo Dio onnipotente e buono, in questo mondo il bene nel complesso è e sarà prevalente rispetto al male e da esso, attraverso l’opera della Redenzione, sarà possibile ricavare un bene anche maggiore (il peccato non è più una responsabilità dell’individuo, ma è collettivo, è del genere umano in quanto tale). Da qui discende che il male, pur essendo qualcosa di negativo, può essere occasione di bene, anzi è proprio dal male che possono derivare molte forme di bene. E non pochi teologici, medievali e non, hanno sostenuto la necessità dei poveri e dei bisognosi per redimere, attraverso opere caritatevoli, la cattiva coscienza dei ricchi.

Articolo scritto da Aldo Caralli. Non è permesso copiare e distribuire il presente testo senza il consenso dell'autore

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