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venerdì 10 febbraio 2012

ERESIE A PUNTATE: 14. LA CROCIATA ALBIGESE - MONTSÉGUR - DISTRUZIONE DEI CATARI

Il pretesto che venne adottato per muovere la crociata albigese nel 1208, che tante conseguenze porterà nei decenni successivi, non solo nella Linguadoca, ma in gran parte dell’Europa cristiana, fu l'assassinio del legato pontificio Pietro di Castelnau. Fino ad allora Innocenzo III (1198-1216) aveva adottato una linea morbida nei confronti dei catari, fatta di missioni di monaci cistercensi che diedero vita ad interventi più di forma che di sostanza, come la rimozione di quei prelati la cui azione risultava inefficace e la cui vita destava scandalo, oppure organizzando pubblici dibattiti. Anche le missioni nel 1207-1208 di famosi predicatori come Domenico di Guzman (1170-1221) e Diego d'Azevedo, vescovo di Osma, per arginare la diffusione dei catari, non approdarono ad alcun risultato concreto. Anzi alcuni eretici, come Guilhabert de Castres, uscirono a testa alta nei dibattiti pubblici in cui si cercava di confutare il dualismo cataro.
Con l’omicidio del legato papale e monaco cistercense Pietro di Castelnau a Saint-Gilles nel 1208, al quale forse non era estraneo lo stesso Raimondo VI, che era stato scomunicato dal legato stesso nell’anno precedente, il pontefice trovò la giustificazione che andava da tempo cercando per risolvere una volta per tutte la questione catara: quel fatto dimostrò che gli eretici non insidiavano solo la Chiesa, ma la stessa esistenza pacifica e civile. Bandì, quindi, la crociata che prenderà il nome di albigese, da Albi (anche se in questa città i catari non erano più numerosi che altrove). Alla Crociata parteciparono nobili dell'Ile-de-France e della Francia settentrionale, come il Duca di Borgogna ed il Conte di Nevers, ed avventurieri senza scrupoli, attratti sia dall'indulgenza dai peccati promessa dal papa a chiunque vi avesse preso parte, che, e soprattutto, dalle possibilità di saccheggio e conquista. L'esercito crociato, guidato da Simon de Montfort, che mosse contro la Linguadoca contava circa 20.000 cavalieri, con decine di migliaia di uomini al seguito; un’accozzaglia di credenti e mercenari, soldati e malviventi privi di scrupoli. Ma quella che nelle intenzioni del re di Francia Filippo Augusto doveva risolversi in una rapida spedizione punitiva e che vedeva, nella crociata, l’occasione per estendere il proprio potere su un' area, quella occitana, che da sempre era riuscita a mantenere una sua indipendenza politico-istituzionale, si trasformò in una vera e propria guerra, destinata a durare a lungo, oltre vent’anni. La prima città ad essere conquistata fu Beziers, il 22 luglio 1209. Fu un bagno di sangue. Il legato papale Arnaud Amaury, abate di Citeaux, interrogato dai suoi su come fosse possibile distinguere gli abitanti cattolici da quelli catari, pronunciò la famosa e, purtroppo, tremenda frase: “uccideteli tutti, Dio saprà riconoscere i suoi”. Gli stessi legati pontifici nella lettera che inviarono a Innocenzo III per informarlo della conquistata la città scrissero: “poiché i nostri non guardarono a dignità o al sesso o all'età, in quasi ventimila furono passati per le armi. Fatta così una grandissima strage di uomini, la città fu saccheggiata e bruciata: in questo modo la colpì il mirabile castigo divino”. Stessa sorte toccò a Carcassonne, dove fu imprigionato e morì in carcere il visconte Raimond-Roger di Trencavel. Simon de Montfort continuò la campagna militare e l’anno successivo conquistò una serie impressionante di città e borghi: Agen, Albi, Castres, Fanjeaux, Gaillac, Lavaur, Mirepoix, Moissac,
Montégut, Montferrand, Montrèal, Pamiers, Puivert, Saint Antonin, e Termes (per citare alcuni tra quelli più importanti). Tutti questi centri conobbero il crudele copione del saccheggio e dei roghi, dove vennero bruciati, in maniera barbara e sommaria, centinaia eretici. Un episodio per tutti: la conquista di Lavaur nel 1211 con il rogo di ben 400 catari (o presunti tali) e l'uccisione di Giraude di Lavaur, una nobile e sorella del comandante della guarnigione, stimata da tutti i suoi concittadini, anche cattolici, gettata in un pozzo e lapidata a morte dai crociati. Ogni signore locale che prese parte alla lotta, per la sopravvivenza del suo casato, passava per un faydit, ovvero eretico o protettore di eretici, e i suoi terreni venivano confiscati e spartiti tra i crociati. Nel 1212 intervenne nella crociata, prendendo le difese dei tolosani, il re d'Aragona, Pietro I (1177- 1213), cognato di Raimondo, conte di Tolosa, anche perché molte delle terre investite dalla campagna militare almeno formalmente facevano parte del regno d’Aragona. Pietro era un sovrano cattolico, aveva appena sconfitto i mori a Las Navas de Tolosa: il suo intervento era volto non a difendere l’eresia, ma le terre, i diritti e lo stile di vita della Francia meridionale, con cui aveva legami di lingua e di cultura. All'assalto della città di Muret, occupata dai crociati, però, Pietro fu ucciso. Durante l'assedio della città di Tolosa del 1217-1218, fu invece Simon de Montfort a venire ucciso con una pietra lanciata da una donna. Gli successe al comando della crociata suo figlio, Amaury de Montfort, ottenendo, però, scarsi successi. Nelle operazioni militari intervenne, allora, direttamente anche il re di Francia Luigi VIII il Leone (1223-1226), sostenuto con decisione da Papa Onorio III (1216-1227), che obbligò lo stesso Amaury di donare tutte le terre conquistate alla corona di Francia. Alla fine nel 1229, Raimondo VII di Tolosa (1222-1249) spossato da una guerra che aveva sconvolto il Mezzogiorno della Francia, accettò la pace, mediata da Bianca di Castiglia, madre del nuovo re francese, il re minorenne Luigi IX (1226-1270), poi ratificata con il trattato di Meaux. Raimondo riuscì a conservare solo parte delle sue terre; il resto venne ceduto alla corona di Francia. Fu costretto a
dichiarare la sua fedeltà al re e, soprattutto, a negare ogni forma di protezione ai suoi sudditi di dottrina catara. Il crimine di eresia venne equiparato con quello di lesa maestà, obbligando di fatto il potere civile a collaborare col potere ecclesiastico nella ricerca e nella condanna di chi si fosse posto contro la fede. Dopo la pace di Meux, terminate le operazioni sul campo militare entrarono in campo gli inquisitori domenicani e francescani, la cui attività antiereticale e repressiva era stata ufficializzata nel 1233 dal Papa Gregorio IX (1227-1241) come Inquisitio hereticae pravitatis. Le chiese catare del Sud francese furono decapitate e i perfetti sopravvissuti furono costretti a trovare rifugio nell' esilio o nella clandestinità, sempre insidiati dal timore che qualcuno potesse denunciarli. Sulla spinta di questa attività inquisitoriale, il vescovo cataro Guilhabert di Castres chiese protezione a Raimon de Péreille che lo accolse, con un esiguo numero di perfetti, a Montségur. A questi si aggiunse anche un gruppo di feudatari cacciati dai loro possedimenti, i “faydits”, nobili e cavalieri, che non perdevano occasione per compiere azioni di disturbo. Montségur, divenuto nelle generazioni future simbolo del movimento cataro stesso e mito per esoteristi e mistici di ogni risma, era una rocca, di proprietà di Raimondo di Péreille, vassallo del conte di Foix, situata sulla sommità di una zona impervia ed isolata, sul confine tra le terre dei conti di Tolosa e di Foix, nei pressi di un povero villaggio di montanari pirenaici e lontana dalle principali vie di comunicazione. La sua fama si deve all’eroica resistenza che l’ultima comunità catara d’Occitania seppe offrire nel 1244, con il sacrificio finale di tutti gli occupanti del castello. Per un decennio la popolazione della fortezza e del piccolo villaggio abbarbicato sui pendii della montagna visse in maniera abbastanza tranquilla. La guerra era terminata e gli unici problemi potevano venire dall’Inquisizione, che, però, era in grado fare ben poco nei loro confronti. La rocca, costruita su
pendici rocciose e con una sola via d'accesso, da sud-ovest, era, infatti,  pressoché inespugnabile, e poteva essere conquistata solo da un esercito numeroso e dopo un lungo assedio. In breve tempo Montségur divenne un centro di diffusione e di riferimento per il movimento cataro dove perfetti e cavalieri, con le loro famiglie, potevano rifugiarvisi per sfuggire alle repressioni. Tra il villaggio e il castello, trovò rifugio una comunità di forse quattro o cinquecento persone. Essendo i suoi abitanti per la maggior parte catari, o simpatizzanti, si sviluppò a Montségur una vita spirituale vivacissima: vi giungevano pellegrini in visita ai perfetti, a volte vecchi o malati per ricevere il consolamentum. Ma l’ospitalità offerta agli eretici non poteva passare inosservata. E procurò a Raimon de Péreille la scomunica e, cosa ben più grave, la condanna in contumacia per eresia, con il conseguente esproprio dei beni, costringendolo così ad unirsi agli abitanti del castello. L’opera repressiva e “normalizzatrice” che, nel frattempo, veniva attuata dagli inquisitori incontrò una diffusa ostilità un po’ in tutta l’Occitania. A seguito di una serie di processi presieduti dagli inquisitori di Tolosa, nel 1242 i faydits compirono numerose incursioni, la più grave ed eclatante ad Avignonnet, dove due inquisitori domenicani (Arnauad Guilhelm de Montpellier e Étienne de Narbonne) e il loro seguito furono massacrati. Questo fu il pretesto per scatenare, nel maggio del 1243, l’assedio della rocca di Montségur, da dove provenivano e dove si erano rifugiati gli autori del complotto e con loro altre decine di persone, compresa la guarnigione, guidati dal vescovo cataro Bernard Marty. Per evitare una nuova crociata, il conte di Foix si dichiarò immediatamente al fianco della corona di Francia, e al conte Raimondo VII di Tolosa non restò che rispettare il giuramento di fedeltà al re Luigi IX, impegnandosi in prima persona ad estirpare gli ultimi focolai del catarismo sulle sue terre, e, in primo luogo, portare l’assedio a Montségur, che durò per oltre un anno, dall’estate del 1243 al marzo del 1244. Pierre Roger di Mirepoix e la sua guarnigione, nella speranza che alla fine Raimondo sarebbe giunto a far togliere l'assedio, riuscirono a tenere a bada una forza soverchiante. Ma quando un drappello degli assedianti riuscì a scalare la fortezza superando il precipizio sotto la Roc de la Tour, sorprendendo i difensori e creando una testa di ponte in cima alla montagna, fu chiaro a tutti che la situazione volgeva al suo drammatico epilogo. Gli assedianti, agli ordini del siniscalco di Carcassonne, Hugues de Arcis, conquistarono il castello nel marzo del 1244 e bruciarono sul rogo ben duecento persone che si erano rifiutate di abiurare (la località dell'esecuzione ancora oggi rievoca il ricordo di quei tragici fatti: Pratz dels crematz, ovvero prato dei bruciati). Questo sancì in pratica l'atto finale della guerra contro i catari dell’Occitania. Dopo questi fatti il catarismo non scomparve del tutto, ma venne fortemente ridimensionato. In parte si salvò dandosi alla clandestinità, in parte emigrò nell'Italia centro-settentrionale. Con la crociata
albigese che nulla o poco aveva di guerra di religione ma piuttosto di affermazione, venne soppressa anche la civiltà occitana, la cosiddetta civiltà della lingua d’Oc, dopo un “santo” fratricidio. In Italia il momento decisivo, per le sorti del movimento cataro, fu il cosiddetto “moto dell' Alleluia”, che, intorno al 1233, per la prima volta vide attivamente impegnati i membri dei nuovi ordini mendicanti, domenicani e francescani, in una campagna moralizzatrice e pacificatrice nelle città italiane, in particolare quelle del centro-nord. Condannando duramente il lusso ed invitando a superare discordie e lotte intestine, si posero le basi per ottenere un largo consenso, che risultò indispensabile per la lotta contro eretici ed eresie, prima fra tutte quella catara. I predicatori ortodossi, francescani e domenicani, non si limitarono ad enunciare i propri messaggi, ma agirono affinché i contenuti delle loro prediche si traducessero in altrettante norme da inserire negli statuti comunali. Le realtà che non si piegavano, Comuni o potentati signorili, vennero minacciate con la scomunica e l’interdetto, rendendo di fatto intere città e borghi corresponsabili dell'eresia che si voleva condannare e reprimere. Questo avrebbe comportato l’interruzione delle celebrazioni liturgiche e dell’amministrazione dei sacramenti, condizione inaccettabile per una qualsiasi comunità medievale. Nella legislazione comunale l’eresia,
infatti, non venne percepita come un pericolo se non dopo il terzo decennio del secolo XIII e solo dopo i moti dell’Alleluia, e per la capillare predicazione degli ordini mendicanti, il crimine di eresia venne inserito negli statuti cittadini, comunque con riluttanza e non in maniera uniforme (gli statuti comunali di molte città, come Firenze o Modena, ad esempio, recepirono norme antieterodosse solo alla fine del secolo). La svolta è segnata dagli statuti di Brescia del 1230, che vennero presi negli anni successivi come modello anche dai comuni di Padova, Verona, Vicenza, Treviso, Bologna, Ferrara. Anche l'imperatore Federico II, ispirandosi ai concili antieretici, intervenne nella questione cominciando a considerare la persecuzione degli eretici come una questione di diritto pubblico, oltre che ecclesiastico. E stabilì, in una serie di editti, via via più crudeli, che la pena per i dissidenti religiosi doveva essere la confisca dei beni, poi l'esilio, poi la prigione a vita, ed infine il rogo. In parallelo all’attività repressiva, gli ordini mendicanti si assunsero il compito di fare un’ampia opera di propaganda per ridare credibilità alle istituzioni ecclesiastiche, stabilendo rapporti privilegiati con i ceti eminenti e con comportamenti di alta visibilità sociale e morale. E per instradare i fedeli nella loro opera normalizzatrice, furono impiegati simboli vincenti, come il mito dei nuovi santi, in particolare Francesco d'Assisi, e forme di comunicazione altamente suggestive, quale la predicazione basata sugli exempla (brevi narrazioni con messaggi immediati e diretti). Per isolare i movimenti ereticali ed ottenere consenso, i frati impiegarono la forza della parola. Ecco che le loro chiese divennero idealmente una piazza (i modelli architettonici dell’ordine dei predicatori e quello dei minori prevedono ampie chiese di un’unica navata) e, quando non furono sufficienti a contenere la folla, si ricorse alle piazze cittadine. Una delle conseguenze dell'Alleluia fu anche l'impulso dato alle confraternite per venire incontro alla domanda di partecipazione dei laici senza, però, prendere i voti. Erano una via di mezzo tra una condotta di vita laicale e quella dei religiosi, ordini mendicanti o monaci. Nate per scopi spirituali e religiosi, le confraternite divennero presto uno strumento della lotta politica del Papato e della parte guelfa contro le fazioni ghibelline e, quindi, impegnate attivamente anche nella lotta contro l’eresia. Quando all'inizio degli anni trenta del XIII secolo iniziò la campagna repressiva della Chiesa, che nel frattempo si era dotata di nuovi procedimenti giurisdizionali (l’istituzione dell’Inquisizione) ed organizzativi (gli ordini mendicanti), i catari, e gli altri movimenti ereticali, furono costretti ad un arretramento senza, però, comprendere appieno la forza d’urto che era riuscita a mettere in atto la Chiesa. L'Alleluia fu il primo segnale, insieme alla costituzione di un “tribunale della fede” (affidato prima ai frati Predicatori, e poi, alcuni anni dopo, anche ai frati Minori), che la repressione sarebbe stata d'allora in poi sempre più raffinata e istituzionale, e con una diffusione capillare. Le file dei catari conobbero le prime defezioni e qualcuno di loro passò nell’ordine domenicano divenendo inquisitore dei fratelli di un tempo, dimostrando, in questo modo, la possibilità di una “redenzione” dall' eresia, e di svolgere una vita al servizio della Chiesa anche per chi se ne era allontanato. Un esempio è il domenicano Raniero Sacconi che nel 1250 dichiarò apertamente, nel suo scritto antieterodosso, di essere stato “un tempo eresiarca” prima di divenire un frate predicatore. Sempre in questo contesto è la canonizzazione del frate Pietro di Verona dell' ordine dei Predicatori, che la tradizione vuole di famiglia catara ed ucciso nel 1252 a causa della sua attività inquisitoriale per mano di sicari assoldati dagli eretici che stava sottoponendo ad indagine. La chiesa cattolico-romana, attraverso torture e roghi, umilianti autodafé pubblici, che avevano essenzialmente un fine persuasivo prima che punitivo, pretendeva un’adesione pubblica degli eretici al conformismo religioso, obbligandoli a riconoscere pubblicamente il loro errore. Dimostrazione di una completa conversione era ovviamente la collaborazione con il “tribunale della fede” e fornire il maggior numero di informazioni possibili sugli eretici incontrati e sulle persone conosciute. All'inquisitore non interessava discutere con l'accusato di eresia riguardo i problemi di fede, ma sapere dall’eretico che stava inquisendo la sua decisione di conformarsi o meno ai mandata ecclesiae, alle decisioni della Chiesa
cattolica, rinunciando al suo passato. Per questo gli interrogatori degli imputati erano protetti dal segreto ma gli atti finali, come la lettura delle sentenze e le esecuzioni, erano resi pubblici, mediante una ritualità solenne ed emotivamente toccante. Il catarismo, colpito dalla crociata albigese e dall’attivismo etico-religioso-sociale degli ordini mendicanti, progressivamente si isolò in sé stesso, estraniandosi rispetto al contesto sociale che proprio in quegli anni stava mutando (sono gli anni della definitiva affermazione della borghesia). Il fine ultimo dei catari era la liberazione delle anime imprigionate nella materia, senza mostrare, però, nessun interesse per ciò che riguardasse la vita quotidiana e terrena, per loro ontologicamente malvagia. La morale ascetica che i perfetti catari proponevano ai credentes era riservata a un gruppo ristretto. Per questi motivi, nel corso degli anni, si erose il consenso intorno alla loro ricerca di perfezione evangelica perché visti come qualcosa di estraneo, di altro, rispetto alla domanda di partecipazione delle nuove classi sociali (è nel corso del Duecento, infatti, che si afferma definitivamente il concetto del Purgatorio, grazie anche e soprattutto al ceto borghese e mercantile). Il clima mutò decisamente dopo le vittorie di Carlo d'Angiò a Benevento e Tagliacozzo e la conseguente affermazione della lega guelfa, fornendo i presupposti per una persecuzione dell’eresia ad ampio
respiro. Il punto culminante della persecuzione contro i catari in Italia fu la spedizione a Sirmione nel 1276, che soppresse uno dei principali rifugi, dove si erano radunati molti perfetti della chiesa di Bagnolo e con loro anche il vescovo cataro di Tolosa in esilio e che, per molti aspetti, richiamò la vicenda di Montségur. La spedizione, organizzata da Timidio Spongati di Verona, ebbe un effetto devastante: Sirmione che non era in grado di tenere testa agli Scaligeri, dovette consegnare i catari. Circa centosettanta persone vennero arrestate sul posto, mentre altre, fuggite, vennero catturate più tardi. Tutti i perfetti, circa duecento, vennero poi bruciati su un immane rogo nell’Arena di Verona nel febbraio 1278. Questo atto sancì la fine del catarismo anche in Italia che, agli inizi del XIV secolo, tranne alcune sacche di sopravvivenza, ma del tutto marginali, conobbe il suo tramonto definitivo, fino ad essere definitivamente debellato dall’attività repressiva degli inquisitori.

Articolo di Aldo Ciaralli. L'articolo non può essere pubblicato nè distribuito senza il consenso dell'autore

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