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venerdì 10 febbraio 2012

ERESIE A PUNTATE: 12. L'INQUISIZIONE

L’Inquisizione, nata per combattere il catarismo, mantenne la sua logica repressiva anche nei secoli successivi nelle persecuzioni contro ebrei, moriscos, streghe, dissidenti e liberi pensatori. La vera e uniformante motivazione di fondo che ha accompagnato questa istituzione era il rifiuto della differenza, o in altre parole, della coscienza libera e individuale. Non poteva essere altrimenti in secoli in cui la religiosità non era esclusiva della spiritualità dell’individuo, ma sociale e quindi apparteneva alla collettività. La fede e le modalità con cui il singolo interpretava la propria religiosità, nella logica medievale aveva una rilevanza pubblica: per colpe del singolo poteva venire macchiata l’intera comunità.
La diversità nella fede, nelle opinioni, nei costumi e nella morale, veniva vista come un potenziale pericolo in grado di dissolvere la struttura sociale. Solo così si può interpretare il sorgere dell’Inquisizione e la portata, oltre alla durata, della sua azione. Sono secoli estranei al concetto di tolleranza e di rispetto di libertà degli individui. Per questo a partire dal XIV secolo il potere civile e l’inquisizione andarono sempre più a braccetto; al potere politico apparve chiaro che questo strumento di pressione e di repressione delle coscienze garantiva anche il controllo del dissenso politico e sociale (casi eclatanti furono il processo ai Templari e quello a Giovanna d'Arco). Questa complicità in molti casi si tradusse addirittura in un rapporto di subordinazione dell’inquisizione rispetto al potere politico. Questo fu il caso della Spagna, in cui il potere monarchico trovò proprio nell’Inquisizione un’eccezionale strumento di controllo e di pressione di tipo “poliziesco” sui sudditi. Per l’Inquisizione ciò che veramente contava, al di là dei mezzi di cui disponeva, era dimostrare che ci fosse e che fosse ben visibile il potere della Chiesa, ponendo gli individui in uno stato di piena sottomissione alla sua autorità morale e religiosa. La presenza del tribunale contava più della sua effettiva capacità operativa. Nella logica inquisitoriale era fondamentale dimostrare che chiunque poteva correre il rischio di venire posto a processo. Per fare questo erano sufficienti poche esecuzioni pubbliche e letture di sentenze dotate di una scenografia ben studiata e impressionante. Secondo questa prospettiva l’Inquisizione aveva bisogno di eretici perché era la loro persecuzione a consentire un controllo pressoché totale delle coscienze: spesso se non li trovava li creava. Quando scomparve l’eresia ecco che gli inquisitori cominciarono a identificare nuove forme di devianza che come possibili segni di eresia, come, ad esempio, costumi sessuali canonicamente non accettati, la bestemmia, usi alimentari che violano le prescrizioni ecclesiali (ad esempio il consumo di carne in particolari momenti dell’anno liturgico), il sostenere tesi non solo teologicamente eterodosse ma anche di tipo filosofico-scientifico (pensiamo al processo a Galileo Galilei), oppure il leggere libri sospetti o condannati dalla Chiesa. Accettando che ogni comportamento passibile di convinzioni o credenze eretiche giustifichi la possibilità di essere sottoposto a un procedimento inquisitoriale, ogni azione o gesto può essere perseguito. Il peccato, anche veniale, cessa di essere tale e si trasforma in una convinzione eretica. L’esplosione della caccia alle streghe, fra il XV e il XVII secolo, si spiega in gran parte proprio in conseguenza di questa logica: in questo caso l’Inquisizione, adottando come modello di devianza tradizioni popolari, riuscì ad alimentare il sistema persecutorio e, a giustificare il proprio ruolo. Come istituzione l’Inquisizione non poteva essere inattiva poiché la sua esistenza dipendeva dalla sua capacità di identificare sempre nuovi potenziali avversari (un po’ come nei moderni totalitarismi, fascismo e comunismo, in cui si creano nemici potenzialmente pericolosi proprio per giustificare la macchina repressiva dello Stato e la sua paranoia). Sradicata l’eresia alla fine del XIV secolo, l’Inquisizione la faceva nascere dove non c’era in forme nuove e mutevoli. Questo era favorito anche dal fatto che il metodo inquisitoriale era basato sul sospetto e partiva dalla presunzione di colpevolezza dell’accusato: chi veniva inquisito doveva dimostrare la propria innocenza, non viceversa, aggravato dal fatto che nella stragrande maggioranza dei casi si trattava di persone di origine umile, spesso popolani e contadini, che difficilmente potevano controbattere efficacemente alle sottili domande dei giudici. Essendo un processo che aveva il suo fondamento sul sospetto, chiunque poteva rimanere impigliato nella rete inquisitoriale. Anche per la natura dell’oggetto del giudizio: l’anima dell’indagato, le sue opinioni, idee e credenze. E nessuno poteva dirsi immune. Gli inquisitori erano dei giudici che potevano procedere d’ufficio anche in assenza d’accusa (non a caso il termine inquisizione deriva dal latino inquisitio, ovvero ricerca). Ogni tribunale era presieduto da due
inquisitori, investiti di pari potere, che agivano distintamente, assistiti da notai, aiutanti, nunzi e guardie armate (la famiglia inquisitoriale). A questi va aggiunta una rete di spie e informatori al servizio dell’officio. Gli inquisitori rendevano conto esclusivamente al papa, ed erano quindi assolutamente liberi di muoversi nelle diocesi, svincolati com’erano da ogni giurisdizione. Nel processo l’imputato, tramite giuramento, si impegnava a dire la verità alla presenza di notai e di una giuria, composta da rappresentanti del clero e da laici (non sempre, però). Tutte le deposizioni venivano registrate da notai e le testimonianze a carico dell’inquisito potevano essere invalidate qualora fosse stato comprovato un pregiudizio di avversione e rancore da parte degli accusatori. Per ottenere la confessione gli inquisitori ricorrevano a qualsiasi mezzo come interrogatori ripetuti, carcere duro e, nei casi estremi, la tortura, eufemisticamente denominata con il termine domanda, con un uso, però, meno indiscriminato rispetto ai tribunali civili dell’epoca. Quella dell’inquisitore era una figura tutt’altro che minoritaria, non solo per l’autorità conferitagli, ma anche per la preparazione culturale e teologica che doveva possedere. Non sono rari casi di carriere esemplari, come vescovi e legati papali. L’inquisitore non era solo un teologo, era un uomo dotto che aveva una grande dimestichezza con l’ambiente giuridico. Trattava tanto il Corpus Iuris, sia civile che canonico, quanto le varie decretali, canoni e concili (soprattutto di quelli Tolosa e di quello Narbonne, divenuti quasi subito punti di riferimento fissi nella procedura contro gli eretici). Le sentenze, come i manuali, richiamavano continuamente citazioni scritturistiche, bolle papali, atti di concili. La presenza dei notai era indispensabile durante gli interrogatori, per poi stendere i verbali, redatti secondo formulari precisi, traducendo in latino deposizioni, confessioni e abiure. Durante il processo l’inquisitore tentava sempre di far rientrare il caso specifico, o gli inquisiti, nelle casistiche dottrinali descritte nei manuali. Agli occhi degli inquisitori, infatti, era più rilevante stabilire il numero delle persone coinvolte, i luoghi dove si sono svolti i fatti sospetti di eresia e le relazioni interpersonali rispetto alle idee eterodosse che stavano giudicando. Più volte i manuali mettono in guardia l’inquisitore dall’entrare in discussione con i sottoposti a indagine, sia per evitare il rischio di acuire le convinzioni eterodosse dell’accusato, sia per impedire che idee pericolose si diffondessero presso chi, fino ad allora, era stato estraneo. Il fatto che ci fosse un processo e degli inquisiti stava a significare che l’eresia era già stata identificata e classificata. I manuali erano anche rigidi nello stabilire i tempi e i modi dell’inchiesta; comunque l’inquisitore aveva di un’ampia libertà di movimento per comporre le tessere a sua disposizione e incastrare le varie testimonianze con i capi d’accusa. Gli elenchi di coloro che erano stati inquisiti per eresia venivano letti pubblicamente e periodicamente durante le prediche degli inquisitori, che ricorrevano anche al sostegno delle confraternite, nate nel Duecento, in particolare dopo il moto dell’Alleluia, come strumenti antiereticali e per incanalare le forme di pietà laiche. Terminato il processo veniva emessa una sentenza, previa la consultazione della giuria e l’approvazione del vescovo di quella diocesi, letta in pubblico e perciò detta Sermo generalis. Lo scopo principale di un inquisitore era (o doveva essere) la correzione e il riavvicinamento dell’eretico alla fede cattolica e farlo rientrare in seno alla Chiesa. In genere si cercava di dare al “reo” la possibilità di emendarsi, e, a questo scopo, gli inquisitori tendevano a comminare penitenze come pellegrinaggi, multe, la pubblica fustigazione e la crocesignatura. Nel caso di sanzioni economiche, il ricavato doveva essere diviso in tre parti: una per l’inquisitore e i suoi famigli, una per la corte papale, una per il comune che forniva la collaborazione necessaria all’inquisitore, per custodire gli inquisiti, e, eventualmente, la legna per il rogo. Nei casi più gravi si poteva arrivare alla confisca dei beni, alla consegna al braccio secolare, cioè al rogo, o al “muro”, il carcere perpetuo. Ovviamente durante il processo non era prevista alcuna forma di difesa da parte dell’accusato, né alcuna possibilità di ricorrere in appello. Ma è anche vero che la procedura inquisitoriale prevedeva delle commissioni di giuristi, per lo più laici, i “consilia sapientum”, che coadiuvavano l’inquisitore durante il processo. Nonostante il loro parere non fosse vincolante, non sono rari i casi di pareri divergenti e in aperto contrasto tra questi consiglieri e l’inquisitore. E a onor del vero, sebbene sia opinione comune il contrario, va comunque detto che solo una piccola percentuale dei processi si concludeva con la condanna al rogo, riservata agli eretici pertinaci e ai relapsi, coloro, cioè, che erano già stati giudicati colpevoli di eresia in passato, ed essendo tornati ai loro errori, ritenuti non degni di fiducia (questo valeva anche per le ossa dei defunti in caso di processo postumo). Non mancarono, ovviamente, gli abusi e gli atti di crudeltà. Famosi sono i roghi di 250 catari a Montsegur, nella Linguadoca, e di quasi altri 200 catari nell’arena di Verona nel 1278, catturati a Sirmione, come l’impiccagione e il rogo di 100 valdesi a Graz in Austria nel 1397. lo scopo per cui venne creata l’inquisizione fu, chiaramente, quello di individuare ed estirpare l’eresia, intervenendo sia sull’individuo che su gruppi di persone. L’azione giudicante e penale dell’inquisitore si muoveva su due piani: il recupero, quindi il convincimento personale, dell’eretico e la manifestazione pubblica del suo pentimento, o abiura, oppure della sua condanna. Praticamente senza eccezioni, il processo veniva sempre innescato dall’esterno, da una denuncia o da voci giunte all’inquisitore. La sua azione coinvolgeva persone cadute in qualche modo nel sospetto e non era di suo interesse approfondire le posizioni dottrinali degli inquisiti, ma accertare comportamenti indice di una eresia, come la frequentazione con eretici e rapporti, conversazioni, colloqui e contiguità con persone, in altre sedi, già giudicate eretiche. Per questo motivo gli atti dei processi si assomigliano tutti e finiscono con il ridursi ad un elenco di persone, sospette o manifestamente eretiche, con le quali l'inquisito ha avuto rapporti. Lo scopo dell’attività inquisitoriale era esclusivamente di accertamento e di repressione, non quello di convincere l’eretico a cambiare opinione. All'inquisitore non interessava discutere con l'accusato di eresia riguardo i problemi di fede, ma sapere dall’eretico che stava inquisendo la sua decisione di conformarsi o meno ai mandata ecclesiae, e rinunciare al suo passato. Non era il suo compito stabilire cosa fosse eresia: altri lo avevano già fatto prima di lui e per lui. Piuttosto il suo scopo era quello di incasellare il comportamento dei sospetti nelle griglie già disegnate. Tutti i manuali inquisitoriali mettono in guardia il giudice dall’entrare in dialogo con gli eretici sulla loro dottrina. Discutere era un errore perché l’eresia era male e basta e non poteva avere dimora. Ma se il cardine del processo era l’azione repressiva, dobbiamo ridimensionare l’idea generalizzata di torture e roghi che la storiografia ci ha lasciato. Infatti, rilevanti non furono tanto le pene corporali inflitte ai condannati, quanto piuttosto le sanzioni economiche comminate e la confisca dei beni, che colpivano anche i parenti e gli eredi. In questo modo non solo gli eretici si ritrovavano privati delle loro possibilità economiche, ma venivano infamati e socialmente isolati. L’oggetto della repressione, l’ex-eretico redento, doveva divenire un esempio di fede cattolica, frequentando assiduamente le celebrazioni liturgiche, giurando un’obbedienza cieca al papa e alla Chiesa di Roma e, soprattutto, promettere una collaborazione totale per la denuncia d’ogni persona sospetta d’eresia. Per questo motivo si spiegano i numerosi passaggi di “pentiti” da movimenti ereticali all’altra parte: inquisitori che erano stati eretici, membri della famiglia inquisitoriale e informatori (un esempio su tutti è quello del domenicano Raniero Sacconi che, nel 1250, dichiarò apertamente, nel suo scritto antieterodosso, di essere stato “un tempo eresiarca” prima di divenire un frate predicatore). L’inquisizione attraverso umilianti autodafè e penitenze, che prima di tutto avevano un fine persuasivo prima che punitivo, pretendeva un’adesione pubblica degli eretici al conformismo religioso, obbligandoli a riconoscere apertamente e davanti alla collettività il loro errore, sempre attraverso una ritualità solenne e toccante. Anche la pena rientrava in quest’ottica esemplare, come, ad esempio, la crocesignatura, l’applicazione, cioè, di una croce, di solito di colore giallo, sul mantello, oppure l’obbligo di sostare, in veste di penitente, alle porte della chiese nelle festività solenni. In questo modo, l’eretico, per mezzo delle penitenze alle quali era costretto, non solo faceva il suo ritorno nel “gregge del Signore”, ma diventava addirittura un modello di perfezione cristiana attraverso il pentimento, sacrificio e la mortificazione di sé. 

Articolo scritto da Aldo Ciaralli. Non può essere copiato nè distribuito senza il consenso dell'autore

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