In tutta la tradizione dell’arte bizantina il ritratto fedele di Gesù lega il cristiano a un contatto emotivo, e questo contatto è fonte di aiuto e consolazione nelle difficoltà della vita. Secondo Giovanni di Damasco, i teologi non potevano prendersi la libertà di privare i fedeli di questo caloroso, emozionale contatto con la figura di Cristo, perché nel pregare davanti alle immagini sacre si instaurava un dialogo, un rapporto personale più intenso. Il cristianesimo era nato con il parto di una donna, un evento assolutamente umano e fisico; ed era stato suggellato da una morte molto dolorosa, altro fatto umano nel senso più drammatico del termine. Il Cristo solo spirituale di cui parlavano i teologi nemici delle icone nei vangeli proprio non c’era: persino dopo la Resurrezione, Gesù aveva un corpo concreto che si poteva vedere e toccare. Giovanni Damasceno dice che Gesù è una “icona fisica” del Padre (eikon physikè), un’immagine vivente e ripiena di Spirito Santo capace di avvicinare l’uomo a Dio purificandone l’anima e i pensieri. La vera immagine di Cristo conservata in Edessa fu al centro della sua lotta in difesa delle immagini sacre: se Cristo stesso aveva voluto lasciare agli uomini l’impronta del suo fisico, gli uomini non avevano alcun diritto di giudicare tale scelta. Vivendo non lontano da Edessa, e mosso da un amore ardente come quello che le sue opere riflettono, forse Giovanni visitò personalmente la preziosa reliquia di cui aveva lodato la virtù: e la descrive come un telo di grosse dimensioni, rimasto impresso come di un umore liquido. In una delle sue opere Giovanni ritiene che Gesù per crearla avesse usato il proprio mantello (imàtion), il quale era abbastanza ampio da avvolgere tutta la persona dalla testa ai piedi.
Articolo per gentile concessione della dott.ssa Barbara Frale
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