-Elogio della Follia-
Erasmo
da Rotterdam
Alcuni giorni fa, tornando
dall’Italia in Inghilterra, per non sprecare in chiacchiere banali il tempo che
dovevo passare a cavallo, preferii riflettere un poco sui nostri studi comuni e
godere del ricordo degli amici tanto dotti e cari, che avevo lasciato qui. Fra
i primi che mi sono tornati alla mente c’eri tu, Moro carissimo. Anche da
lontano il tuo ricordo aveva il medesimo fascino che esercitava, nella consueta
intimità, la tua presenza che è stata, te lo giuro, la cosa più bella della mia
vita. Visto, dunque, che ritenevo di
dover fare ad ogni costo qualcosa, e che il momento non sembrava adatto a una
meditazione seria, mi venne in mente di tessere un elogio scherzoso della
Follia. "Ma quale capriccio di
Pallade - ti chiederai - ti ha ispirato un’idea del genere?" In primo
luogo, il tuo nome di famiglia, tanto vicino al termine morìa, quanto tu sei
lontano dalla follia. E ne sei lontano a parere di tutti. Immaginavo inoltre
che la mia trovata scherzosa sarebbe piaciuta soprattutto a te, che di solito
ti diletti in questo genere scherzi, non privi, mi sembra, di dottrina e di
sale, perché nella vita di tutti i giorni fai in qualche modo la parte di
Democrito. Sebbene, infatti, per singolare acume d’ingegno tu sia tanto lontano
dal volgo, con la tua incredibile benevolenza e cordialità puoi trattare
familiarmente con uomini d’ogni genere, traendone anche godimento.
Quindi, non solo accoglierai di
buon grado questo mio modesto esercizio retorico, per ricordo del tuo amico, ma
anche lo prenderai sotto la tua protezione; dedicato a te, non mi appartiene
più: è tuo.
È probabile, infatti, che non
mancheranno voci rissose di calunniatori ad accusare i miei scherzi, ora di una
futilità sconveniente per un teologo, ora di un tono troppo pungente per la
mansuetudine cristiana; e grideranno che prendo a modello la commedia antica e
Luciano, mordendo tutto senza lasciare scampo. Vorrei però che quanti si
sentono offesi dalla scherzosa levità del mio tema, si rendessero conto che non
sono l’inventore del genere, e che già nel passato molti grandi autori hanno
fatto lo stesso. Tanti secoli fa, Omero cantò per scherzo "la guerra dei
topi con le rane", Virgilio la zanzara e la focaccia, Ovidio la noce.
Policrate incorrendo nelle critiche di Ippocrate fece l’elogio di Busiride,
Glaucone quello dell’ingiustizia, Favorino di Tersite, della febbre quartana,
Sinesio della calvizie, Luciano della mosca e dell’arte del parassita. Sono
scherzi l’apoteosi di Claudio scritta da Seneca, il dialogo fra Grillo e Ulisse
di Plutarco, l’asino di Luciano e di Apuleio, e il testamento - di cui ignoro
l’autore - del porcello Grunnio Corocotta menzionato anche da san Girolamo.
Lasciamo perciò che certa gente, se crede, vada fantasticando che, per svago, a
volte, ho giocato a scacchi, o, se preferisce, che sono andato a cavallo di un
lungo bastone. Certo, è una bella ingiustizia concedere a ogni genere di vita i
suoi svaghi, e non consentirne proprio nessuno ai letterari, soprattutto poi
quando gli scherzi portano a cose serie, e gli argomenti giocosi sono trattati
in modo che un lettore non del tutto privo di senno può trarne maggior profitto
che non da tante austere e pompose trattazioni. Come quando con mucchi di
parole si tessono le lodi della retorica o della filosofia, o si fa l’elogio di
un principe, o si esorta a fare la guerra ai Turchi, mentre qualcuno predice il
futuro, o va formulando questioncelle di lana caprina. In realtà, come niente è
più frivolo che trattare in modo frivolo cose serie, così niente è più
gradevole che trattare argomenti leggeri in modo da dare l’impressione di non
avere affatto scherzato. Di me giudicheranno gli altri; eppure se la
presunzione non mi accieca completamente, ho fatto sì l’elogio della Follia, ma
non certo da folle. Quanto poi all’accusa di spirito mordace, rispondo che si è
sempre concessa agli scrittori la libertà d’esercitare impunemente la satira
sul comune comportamento degli uomini, purché non diventasse attacco rabbioso.
Per questo mi meraviglia tanto di più la delicatezza delle orecchie d’oggi, che
riescono a sopportare ormai solo titoli solenni. In taluni, anzi, trovi una
religione così distorta che passano sopra alle più gravi offese a Cristo prima
che alla minima battuta ironica sul conto di un pontefice o di un principe,
soprattutto poi se entrano in gioco i loro privati interessi. D’altra parte,
uno che critica il modo di vivere degli uomini così da evitare del tutto ogni
accusa personale, si presenta come uno che morde, o non, piuttosto, come chi
ammaestra ed educa? E, di grazia, non investo anche me stesso con tanti
appellativi poco lusinghieri? Aggiungi che, chi non risparmia le sue critiche a
nessun genere di uomini, dimostra di non avercela con nessun uomo, ma di
detestare tutti i vizi. Se, dunque, ci sarà qualcuno che si lamenterà d’essere
offeso, sarà segno di cattiva coscienza o per lo meno di paura. Satire di
questo genere, e molto più libere e mordenti, troviamo in san Girolamo, che
talvolta fece anche i nomi. Io non solo non ho mai fatto nomi, ma ho adottato
un tono così misurato che qualunque lettore avveduto si renderà conto che mi
sono proposto la piacevolezza piuttosto che l’offesa. Né ho seguito l’esempio
di Giovenale: non ho mai smosso l’oscuro fondo delle scelleratezze; ho cercato
di colpire quanto è risibile piuttosto che le turpitudini. Se poi c’è ancora
qualcuno che nemmeno così è contento, ricordi almeno questo: che è bello essere
vituperati dalla Follia e che avendola introdotta a parlare, dovevo rimanere
fedele al personaggio. Ma perché dire queste cose a te, avvocato così
straordinario da difendere in modo egregio anche cause non egregie? Addio,
eloquentissimo Moro, e difendi con zelo la tua Morìa.
dalla campagna, 9 giugno 1508
1 Qualsiasi cosa dicano di me i
mortali - non ignoro, infatti, quanto la Follia sia portata per bocca anche dai
più folli - tuttavia, ecco qui la prova decisiva che io, io sola, dico, ho il
dono di rallegrare gli Dèi e gli uomini. Non appena mi sono presentata per
parlare a questa affollatissima assemblea, di colpo tutti i volti si sono illuminati
di non so quale insolita ilarità. D’improvviso le vostre fronti si sono
spianate, e mi avete applaudito con una risata così lieta e amichevole che
tutti voi qui presenti, da qualunque parte mi giri, mi sembrate ebbri del
nettare misto a nepènte degli Dèi d’Omero, mentre prima sedevate cupi e ansiosi
come se foste tornati allora dall’antro di Trofonio. Appena mi avete notata,
avete cambiato subito faccia, come di solito avviene quando il primo sole
mostra alla terra il suo aureo splendore, o quando, dopo un crudo inverno,
all’inizio della primavera, spirano i dolci venti di Favonio, e tutte le cose
mutando di colpo aspetto assumono nuovi colori e tornano a vivere visibilmente
un’altra giovinezza. Così col mio solo presentarmi sono riuscita a ottenere subito
quello che oratori, peraltro insigni, ottengono a stento con lunga e lungamente
meditata orazione.
2 Perché poi io sia venuta qui
oggi, e vestita in modo così strano, lo saprete fra poco, purché non vi annoi
porgere orecchio alle mie parole: non quell’orecchio, certo, che riservate agli
oratori sacri, ma quello che porgete ai ciarlatani in piazza, ai buffoni, ai
pazzerelli: quell’orecchio che il famoso Mida, un tempo, dedicò alle parole di
Pan. Mi è venuta infatti voglia d’incarnare con voi per un po’ il personaggio
del sofista: non di quei sofisti, ben inteso, che oggi riempiono la testa dei
ragazzi di capziose sciocchezze addestrandoli a risse verbali senza fine, degne
di donne pettegole. Io imiterò quegli antichi che per evitare l’impopolare appellativo
di sapienti, preferirono essere chiamati sofisti. Il loro proposito era di
celebrare con encomi gli Dèi e gli eroi. Ascolterete dunque un elogio, e non di
Ercole o di Solone, ma il mio: l’elogio della Follia.
3 Certamente, io non faccio alcun
conto di quei sapientoni che vanno blaterando dell’estrema dissennatezza e
tracotanza di chi si loda da sé. Sia pure folle quanto vogliono; dovranno
riconoscerne la coerenza. Che cosa c’è, infatti, di più coerente della Follia
che canta le proprie lodi? Chi meglio di me potrebbe descrivermi? a meno che
non si dia il caso che a qualcuno io sia più nota che a me stessa. D’altra
parte io trovo questo sistema più modesto, e non di poco, di quello adottato
dalla massa dei grandi e dei sapienti; costoro, di solito, per una falsa
modestia, subornano qualche retore adulatore, o un poeta dedito al vaniloquio,
e lo pagano per sentirlo cantare le proprie lodi, e cioè un sacco di bugie.
Così il nostro fiore di pudicizia drizza le penne come un pavone, alza la
cresta, mentre lo sfacciato adulatore lo va paragonando, lui che è un
pover’uomo, agli Dèi, e lo propone quale modello assoluto di virtù, lui che da
quel modello sa di essere lontanissimo. Insomma, veste la cornacchia con le
penne altrui, fa diventare bianco l’Etiope, e di una mosca fa un elefante. Io
invece seguo quel vecchio detto popolare secondo il quale, chi non trova un
altro che lo lodi, fa bene a lodarsi da sé.
Ora, tuttavia, devo esprimere la
mia meraviglia per l’ingratitudine, o, come dire?, per l’indifferenza dei
mortali. Tutti mi fanno la corte e riconoscono di buon grado i miei benefici,
eppure, in tanti secoli, non si è trovato nessuno che desse voce alla
gratitudine con un discorso in lode della Follia, mentre non è mancato chi con
lodi elaborate ed acconce, e con grande spreco di olio e di sonno, ha tessuto
l’elogio di Busiride, di Falaride, della febbre quartana, delle mosche, della
calvizie, e di altri flagelli del genere.
4 Da me ascolterete un discorso
estemporaneo e non elaborato, ma tanto più vero. Non vorrei però che lo
riteneste composto per farvi vedere quanto sono brava, come usa il branco dei
retori. Costoro, come sapete, di un’orazione su cui hanno sudato trenta lunghi
anni - e qualche volta l’ha fatta un altro - giurano che l’hanno buttata giù, e
magari dettata, in tre giorni, quasi per svago. A me, invece, è sempre piaciuto
moltissimo dire tutto quello che mi salta in mente.
Nessuno, perciò, si aspetti da me
che, secondo il costume di codesti oratori da strapazzo, definisca la mia
essenza, e tanto meno che la distingua analizzandola. Sono infatti cose di
malaugurio, sia porre dei confini a colei il cui potere è sconfinato, sia
introdurre delle divisioni in lei, il cui culto è oggetto di così universale
consenso. D’altra parte perché una definizione, che sarebbe quasi un’ombra e
un’immagine, quando potete vedermi con i vostri occhi?
5 Sono come mi vedete,
quell’autentica dispensatrice di beni che i Latini chiamano Stulticia e i Greci
Morìa.
Che bisogno c’era di dirvi tutto
questo, come se il mio volto non bastasse, come dice la gente, a mostrare chi
sono? come se, pretendendo qualcuno ch’io sia Minerva o Sofia, non bastasse a
smentirlo il mio sguardo, che, senza bisogno di parole, è lo specchio più
schietto dell’animo. Da me è lontano ogni trucco; non simulo in volto una cosa,
mentre ne ho un’altra nel cuore. Sotto ogni rispetto sono a tal punto
inconfondibile, che non possono tenermi nascosta nemmeno quelli che si arrogano
la maschera e il titolo della Saggezza, e se ne vanno in giro come scimmie
ammantate di porpora o come asini vestiti della pelle del leone. Eppure, per
accorti che siano nel fingere, le orecchie di Mida, spuntando fuori da qualche
parte, li tradiscono. Ingrati, per Ercole, sono anche quelli che, appartenendo
in pieno alla mia parte, si vergognano a tal segno di fronte alla gente del mio
nome, che lo attribuiscono genericamente agli altri come un grave insulto.
Essendo in realtà costoro pazzi da legare proprio quando vogliono sembrare
sapienti come Talete, potremo senz’altro chiamarli a buon diritto MORO-SOFI.
6 Anche in questo, infatti,
intendo imitare i retori del nostro tempo, che si credono proprio degli Dèi se,
a mo’ delle sanguisughe, mostrano due lingue, e considerano una grande impresa
inserire nel discorso latino, come in un intarsio, qualche paroletta greca, che
magari era proprio fuori posto. Se poi fanno loro difetto termini esotici,
tirano fuori da pergamene ammuffite quattro o cinque termini arcaici con cui
rendere oscuro il testo al lettore. Così chi riesce a capire è più soddisfatto
di sé, e chi non capisce ammira tanto di più quanto meno capisce. Tra gli
eletti piaceri dei nostri contemporanei, infatti, c’è anche questo: esaltare
tanto di più una cosa, quanto più è straniera. I più ambiziosi ridono e
applaudono e, come gli asini, muovono le orecchie, dando ad intendere agli
altri di avere capito tutto. È proprio così. Ritorno all’argomento.
7 Il nome mio lo sapete, miei
cari... Quale attributo aggiungerò? Quale, se non Arcifolli? Con quale altro
più nobile appellativo potrebbe la dea Follia chiamare i suoi iniziati? Ma
poiché non a molti sono ugualmente noti i miei maggiori, con l’aiuto delle Muse
tenterò di parlarne.
Non il Caos, né l’Orco, né
Saturno, né Giapeto, né alcun altro di questi Dèi decrepiti e fuori moda, fu
mio padre, ma Pluto lui solo, [il dio della ricchezza], padre degli uomini e
degli Dèi, con buona pace di Esiodo, di Omero e dello stesso Giove. Un suo
cenno, ora come sempre, mette sottosopra cielo e terra. Il suo arbitrio decide
della guerra e della pace, degli imperi, dei consigli, dei giudizi, dei comizi,
dei matrimoni, dei trattati, delle alleanze, delle leggi, delle arti, delle
cose scherzose e di quelle serie; da lui dipendono tutti gli affari pubblici e
privati degli uomini. Senza il suo aiuto, tutta la folla degli Dèi, dei poeti,
e, oserò dire, perfino le stesse divinità maggiori, o non esisterebbero, o
vivacchierebbero alla meglio, di briciole. Chi incorre nella sua ira, neppure
Pallade potrebbe aiutarlo. Chi, invece, ne gode il favore, potrebbe trarre in
catene lo stesso Giove col suo fulmine. Di tale padre io mi glorio. E questo
padre non mi generò dal suo cervello, come Giove la fosca e crudele Pallade, ma
dalla ninfa Neotete [la Giovinezza], di tutte la più graziosa e lieta. E non mi
generò nell’uggioso vincolo del matrimonio - in cui nacque il famoso fabbro
zoppo ma, ed è molto più dolce, in un amplesso d’amore, come dice il nostro
Omero. Né, a scanso d’equivoci, mi generò quel Pluto di Aristofane, già mezzo
morto e già cieco, ma quello in pieno vigore, fervente di giovinezza, e non
solo di giovinezza, ebbro soprattutto di schietto nettare che aveva
generosamente bevuto al banchetto degli Dèi.
8 Se poi volete anche sapere dove
sono nata, visto che oggi nel valutare il grado di nobiltà attribuiscono la
massima importanza al luogo dove si sono messi fuori i primi vagiti: ebbene, io
non sono nata nell’errante Delo, non tra i flutti del mare, non in grotte
profonde, ma proprio nelle Isole Fortunate, dove tutto cresce senza seme né
aratro. Là non esiste fatica, vecchiaia, malattie; nei campi non asfodeli,
malva, squilla, lupini o fave, e simili piante da poco.
Da ogni parte ti accarezzano gli
occhi e il naso moly, panacea, nepènte, maggiorana, ambrosia, loto, rose,
viole, giacinti - i giardini d’Adone. Nata fra queste delizie, non ho
cominciato la vita nel pianto; subito ho sorriso dolcemente a mia madre.
Al sommo figlio di Crono non
invidio la capretta nutrice; ad allattarmi con le loro mammelle sono state due
graziosissime ninfe, Mete l’Ebbrezza, figlia di Bacco, e Apedia l’Ignoranza,
figlia di Pan. Le vedete qui con me, nel gruppo di tutte le altre mie compagne
e seguaci, delle quali se, per Ercole, vorrete sapere i nomi, da me li
sentirete solo in greco.
9 Quella che vedete con le
sopracciglia inarcate è senz’altro Filautia; quella che sembra ridere con gli
occhi, e che batte le mani, è Colacìa; quella mezza addormentata e vinta dal
sonno si chiama Lete; quella appoggiata sui gomiti e con le mani intrecciate si
chiama Misoponia; l’altra, cinta da un serto di rose, e tutta cosparsa di
profumi, Hedonè; Anoia questa, dai mobili sguardi lascivi. Quella dalla pelle
splendente e dal corpo rigoglioso si chiama Trufè. Tra le fanciulle potete
vedere anche due Dèi: Como e Ipno, il dio del sonno profondo. Col fedele aiuto
di questa mia corte io signoreggio su tutte le cose, e sono sovrana degli
stessi sovrani.
10 Vi ho detto origine,
educazione, compagni. Ora, perché a qualcuno non paia senza fondamento la mia
pretesa al titolo di dea, drizzate le orecchie e ascoltate di quanta utilità io
sia agli Dèi e agli uomini, e quanto si estenda il mio potere. Se, infatti, non
senza saggezza qualcuno ha scritto che essere un dio proprio questo significa:
giovare ai mortali; se a buon diritto sono stati accolti nel consesso degli Dèi
coloro ai quali i mortali debbono il vino, il grano, e simili beni; perché io
non dovrei a buon diritto essere ritenuta e proclamata l’alfa degli Dèi, dal
momento che io, io sola, sono a tutti prodiga di tutto?
11 lnnanzitutto, che cosa può
esserci di più dolce e prezioso della vita? ma a chi, se non a me, riportarne
la desiderata origine? Non l’asta di Pallade dal padre possente, né l’egida di
Giove adunatore di nembi, generano e propagano la stirpe umana. Lo stesso padre
degli Dèi e re degli uomini, al cui cenno trema l’Olimpo intero, quando vuol
fare quello che poi fa sempre, e cioè generare dei figli, deve deporre quel suo
famoso fulmine a tre punte, deve spogliarsi del titanico sembiante con cui
spaventa a suo piacimento tutti gli Dèi, e, come un povero commediante
qualsiasi, deve assumere la maschera di un altro personaggio. Quanto agli
stoici che si credono così vicini agli Dèi, datemene uno che sia stoico magari
tre o quattro volte, o, se volete, stoico mille volte! Anche lui dovrà deporre,
se non la barba che è l’insegna della sapienza (comune, a dir il vero, con i
caproni), certamente il suo sussiego. Dovrà spianare la fronte, mettere da
parte i suoi princìpi adamantini, e abbandonarsi un poco a qualche leggerezza e
follia. Se vuole davvero diventare padre, insomma, anche quel saggio deve
chiamare me, proprio me.
E perché, dal momento che sto
chiacchierando con voi, non essere più esplicita, secondo il mio costume? È
forse con la testa, col volto, col cuore, con la mano, con l’orecchio (parti
considerate tutte oneste) che si generano gli Dèi e gli uomini? No davvero!
propagatrice del genere umano è quella parte così assurda e ridicola che non si
può neppure nominare senza ridere. Quello è il sacro fonte a cui tutto attinge
la vita, quello e non la tetrade pitagorica. E, ditemi, quale uomo vorrebbe
porgere il collo al capestro del matrimonio se prima, secondo la consuetudine
di codesti saggi, ne considerasse gli svantaggi? Quale donna accosterebbe un
uomo, se conoscesse e avesse in mente i pericolosi travagli del parto, e i
fastidi di allevare i figli? Perciò se dovete la vita al matrimonio, e il
matrimonio ad Anoia del mio seguito, comprenderete quello che dovete a me.
D’altra parte quale donna dopo la prima esperienza vorrebbe riprovarci, se non
ci fosse ad assisterla la presenza di Letes? Venere medesima, protesti pure
Lucrezio, non negherebbe mai che senza l’aiuto della mia divinità la sua forza
sarebbe insufficiente e inutile. Perciò è da quella nostra ebbrezza giocosa che
sono nati i filosofi severi, a cui ora sono subentrati quelli che il volgo
chiama monaci, e i re ammantati di porpora, i pii sacerdoti, i pontefici, tre
volte santissimi. E infine anche tutto quel consesso degli Dèi dei poeti, così
affollato che a stento può contenerlo l’Olimpo, pur vasto che sia.
12 Eppure sarebbe ben poco
dovermi il seme e la fonte della vita, se non dimostrassi che quanto vi è di
buono nella vita è anch’esso un mio dono. E che cos’è poi questa vita? e se le
togli il piacere, si può ancora chiamarla vita? Avete applaudito! Lo sapevo
bene, io, che nessuno di voi era così saggio, anzi così folle - no, è meglio
dire saggio, da non andare d’accordo con me. Del resto neppure questi stoici
disprezzano il piacere, anche se dissimulano con cura e se, di fronte alla
gente, rovesciano sul piacere ingiurie sanguinose; in realtà solo per
distogliere gli altri e goderne di più, loro stessi. Ditemi, per Giove, quale
momento della vita non sarebbe triste, difficile, brutto, insipido, fastidioso,
senza il piacere, e cioè senza un pizzico di follia? E di questo è degno
testimone il non mai abbastanza lodato Sofocle con quelle sue splendide parole
di elogio per me: "Dolcissima è la vita nella completa assenza di
senno".
Ma è tempo di esaminare a parte
tutta la questione.
13 E, tanto per cominciare, chi
non sa che la prima età dell’uomo è per tutti di gran lunga la più lieta e
gradevole? ma che cosa hanno i bambini per indurci a baciarli, ad abbracciarli,
a vezzeggiarli tanto, sì che persino il nemico presta loro soccorso? Che cosa,
se non la grazia che viene dalla mancanza di senno, quella grazia che la
provvida natura s’industria d’infondere nei neonati perché con una sorta di
piacevole compenso possano addolcire le fatiche di chi li alleva e conciliarsi
la simpatia di chi deve proteggerli? E l’adolescenza che segue l’infanzia,
quanto piace a tutti, quale sincero trasporto suscita, quali amorevoli cure
riceve, con quanta bontà tutti le tendono una mano!
Ma di dove, di grazia, questa
benevolenza per la gioventù? di dove, se non da me? È per merito mio che i
giovani sono così privi di senno; è per questo che sono sempre di buon umore.
Mentirei, tuttavia, se non ammettessi che appena sono un po’ cresciuti, e con
l’esperienza e l’educazione cominciano ad acquistare una certa maturità, subito
sfiorisce la loro bellezza, s’illanguidisce la loro alacrità, s’inaridisce la
loro attrattiva, vien meno il loro vigore. Quanto più si allontanano da me,
tanto meno vivono, finché non sopraggiunge la gravosa vecchiaia, la molesta
vecchiaia, odiosa non solo agli altri, ma anche a se stessa. Nessuno dei
mortali riuscirebbe a sopportarla se, ancora una volta, impietosita da tanto
soffrire non venissi in aiuto io, e, a quel modo che gli Dèi della fiaba di
solito soccorrono con qualche metamorfosi chi è sul punto di perire, anch’io,
per quanto è possibile, non riportassi all’infanzia quanti sono prossimi alla
tomba, onde il volgo, non senza fondamento, usa chiamarli rimbambiti. Se poi
qualcuno vuol sapere come opero questa trasformazione, neppure su questo farò
misteri.
Conduco i vecchi alla fonte della
mia ninfa Lete, che sgorga nelle Isole Fortunate - il Lete che scorre agli
Inferi è solo un esile ruscello. Lì, bevute a grandi sorsi le acque dell’oblio,
un poco alla volta, dissipati gli affanni, torneranno bambini.
Ma delirano ormai, non ragionano
più! Certo. È proprio questo che significa tornare fanciulli. Forse che essere
fanciulli non significa delirare e non avere senno? e non è proprio questo, il
non aver senno, che più piace di quella età? Chi non vivrebbe come mostro un
bambino con la saggezza di un uomo? Lo conferma il diffuso proverbio:
"Odio il bambino di precoce saggezza". E chi, d’altra parte, vorrebbe
rapporti e legami di familiarità con un vecchio che alla lunga esperienza di
vita unisse pari forza d’animo e acutezza di giudizio?
Così, per mio dono, il vecchio
delira. E tuttavia questo mio vecchio delirante è libero dagli affanni che
travagliano il saggio; quando si tratta di bere, è un allegro compagno; non
avverte il tedio della vita, che l’età più vigorosa sopporta a fatica.
Talvolta, come il vecchio di Plauto, torna alle tre famose lettere [AMO], che
se fosse in senno ne sarebbe infelicissimo. Invece per merito mio è felice,
simpatico agli amici, piacevole in compagnia. Del resto anche in Omero il discorso
scorre dalla bocca di Nestore più dolce del miele, mentre amare sono le parole
di Achille; e, sempre in Omero, i vecchi che se ne stanno seduti insieme sulle
mura parlano con voce soave. In questo senso sono superiori alla stessa
infanzia, che è sì deliziosa, ma non parla, e, priva della parola, manca del
principale diletto della vita, che è quello di una schietta conversazione.
Aggiungi che ai vecchi piacciono moltissimo i bambini, e altrettanto ai bambini
i vecchi, "perché il dio spinge sempre il simile verso il simile". In
che differiscono, infatti, se non nelle rughe e negli anni che nel vecchio sono
di più? Per il resto, capelli sbiaditi, bocca sdentata, corporatura ridotta,
desiderio di latte, balbuzie, garrulità, mancanza di senno, smemoratezza,
irriflessione: in breve, sotto ogni altro aspetto si accordano. Quanto più
invecchiano, tanto più somigliano ai bambini, finché, come bambini, senza il
tedio della vita, senza il senso della morte, abbandonano la vita.
14 Paragoni ora chi vuole questo
mio beneficio con le metamorfosi operate dagli altri Dèi. E non sto a ricordare
quello che fanno quando li possiede l’ira; parlo di coloro che godono di tutta
la loro benevolenza: li trasformano di solito in alberi, uccelli, cicale, e
perfino in serpenti, come se il diventare altro non fosse proprio un morire.
Io, invece, restituisco il medesimo uomo al periodo migliore della vita, al più
felice. Se i mortali si guardassero da qualsiasi rapporto con la saggezza, e
vivessero sempre sotto la mia insegna, la vecchiaia neppure ci sarebbe, e
godrebbero felici di un’eterna giovinezza.
Non vi accorgete che gli uomini
austeri, dediti a studi filosofici, o impegnati in faccende serie e difficili,
in genere sono già vecchi prima di essere stati davvero giovani, e questo per
le preoccupazioni e per il costante e teso dibattito mentale, che un po’ alla
volta esaurisce gli spiriti e la linfa vitale?
Al contrario, i miei bei matti
sono tutti grassottelli, lustri, senza una ruga, proprio come quelli che
chiamano porcelli d’Acarnania, immuni, per certo, da qualunque disturbo senile,
a meno che non si trovino a subire in qualche misura il contagio dei saggi,
come capita, poiché la vita non consente mai una completa felicità.
Valida testimonianza di tutto
questo è il diffuso proverbio secondo cui solo la Follia è capace di prolungare
la giovinezza, altrimenti fuggevolissima, e di tenere lontana la molesta
vecchiaia. Sicché, non a torto, si è fatto l’elogio del detto popolare del
Brabante: mentre altrove, di solito, l’età porta saggezza, qui più s’invecchia
e più matti si diventa. Non c’è popolazione, infatti, più incline di questa a
un giocondo abito di vita e meno portata ad avvertire la tristezza della
vecchiaia. Loro vicini, e dal punto di vista geografico e da quello del costume,
sono i miei Olandesi - e perché, poi, non dovrei chiamarli miei, se mi sono
così devoti da essersi meritato un soprannome [di folli] di cui non si
vergognano per nulla, che anzi ne traggono il loro vanto principale?
Vadano pure gli stoltissimi mortali
a cercare le Medee, le Circi, le Veneri, le Aurore, e non so quale fonte che
restituisca loro la giovinezza, quando io sola posso, e sono solita farlo. Sono
io che possiedo quel filtro miracoloso con cui la figlia di Memnone prolungò la
giovinezza di Titone suo avo. Sono io quella Venere per la cui grazia Faone
ringiovanì a tal segno da essere amato follemente da Saffo. Sono mie le erbe,
se ve ne sono, miei gli incantesimi, la fonte che non solo risuscita la
giovinezza svanita, ma, meglio ancora, la mantiene per sempre. Perciò, se siete
tutti d’accordo su questo, che niente è meglio della giovinezza, e niente più
odioso della vecchiaia, vi rendete conto, io credo, di quello che dovete a me,
che, fugato un male tanto grande, conservo un così grande bene.
15 Ma perché parlo ancora dei
mortali? Passate in rassegna tutto il cielo, e possa chiunque infamare il mio
nome se si troverà un solo Dio non privo di grazia e di pregio che non sia
sotto la protezione del mio nume. Infatti, perché Bacco è sempre il chiomato
efebo? proprio perché, pazzo ed ebbro, passa tutta la vita in conviti, balli,
canti e giochi, e non ha proprio nulla a che fare con Pallade. A tal punto
rifugge dal desiderare la fama di sapiente, da compiacersi di un culto fatto di
beffe e di scherzi. Né trova offensivo quel detto che gli attribuisce il
soprannome di fatuo, e che suona: "più pazzo di Morico". E cambiarono
il suo nome in Morico perché i contadini, nella loro sfrenata allegria, erano
soliti impiastricciare di mosto e di fichi freschi il suo simulacro, che lo
ritraeva seduto alle soglie del tempio.
D’altra parte, quali lazzi non
scaglia contro di lui l’antica commedia? O Dio pazzo, dicono, degno parto d’una
coscia! Ma chi non preferirebbe essere questo Dio fatuo e dissennato, sempre
allegro, sempre giovane, sempre generoso di svaghi e di piaceri per tutti,
piuttosto che quel tortuoso Giove, temuto da tutti, o Pan che tutto va
devastando con i terrori che diffonde, o Vulcano avvolto di scintille e sempre
nero del fumo della sua fucina, o Pallade medesima dallo sguardo sempre torvo,
terribile con la Gorgone e la lancia? Perché Cupido è, invece, sempre
fanciullo? Perché? se non per la sua leggerezza, per la sua incapacità di fare
o pensare qualcosa di assennato. Perché la bellezza dell’aurea Venere è sempre
in fiore? Perché è mia parente e conserva nell’aspetto il colore di mio padre.
Per questa ragione Omero la chiama "l’aurea Afrodite". Inoltre,
stando ai poeti, o agli scultori loro emuli, ride sempre. E quale nume i Romani
venerarono più di Flora, madre di tutti i piaceri? Se poi si andasse ad
esaminare un po’ meglio, attraverso Omero e gli altri poeti, la vita anche
degli Dèi ritenuti più austeri, si scoprirebbe che tutto è pieno di follie. E
perché poi ricordare le imprese degli altri, quando si conoscono così bene gli
amori e i sollazzi dello stesso Giove tonante? Quando la fiera Diana, dimentica
del sesso nella sua esclusiva passione per la caccia, muore tuttavia d’amore
per Endimione?
Preferirei però che gli Dèi se le
sentissero cantare da Momo, come una volta accadeva piuttosto spesso. Ma ora lo
hanno scaraventato sulla terra con Ate perché le sue sagge critiche
disturbavano la loro felicità. Né alcun mortale si degna di offrirgli
ospitalità; tanto meno poi c’è posto per lui alle corti dei prìncipi, dove però
è sempre ospite d’onore la mia Colacìa, che va d’accordo con Momo come
l’agnello coi lupi.
Allontanato lui, gli Dèi
folleggiano molto più liberamente e gradevolmente, e se la passano bene
davvero, come dice Omero, senza che nessuno li critichi. Quali scherzi
scurrili, infatti, non alimenta il Priapo di legno di fico? quali divertimenti
non procura Mercurio con i suoi furti ed i suoi trucchi? Perfino Vulcano, al
banchetto degli Dèi, si è abituato alla parte del buffone, facendo ridere il
simposio ora con la sua andatura zoppicante, ora con i suoi frizzi, ora con le
sue facezie. Anche Sileno, il vecchio mandrillo, uso a danzare il cordace,
balla con Polifemo la TRETANELO’ [il ballo dei Ciclopi], mentre le Ninfe
danzano a piedi nudi. I Satiri dal piede caprino rappresentano le atellane, e
Pan fa ridere tutti con le sciocche cantilene che gli Dèi preferiscono al canto
delle Muse, specialmente quando il vino comincia a farsi sentire. Ma perché
raccontare ora ciò che fanno gli Dèi alla fine del banchetto dopo una buona
bevuta? Follie tali che io stessa, per Ercole, non riesco a tenermi dal
riderne.
A questo punto è meglio ricordare
Arpocrate [il dio del silenzio]: che può succedere che qualche Dio di Corico
sia in ascolto mentre narriamo fatti che neppure Momo ha potuto rivelare
impunemente.
16 È tempo ormai di seguire
l’esempio di Omero lasciando da parte gli Dèi e tornare sulla terra per vedere
fino a qual punto gioia e fortuna vi si trovino solo per mio dono.
In primo luogo osservate con
quanta previdenza la natura, madre e artefice del genere umano, ebbe cura di
spargere dappertutto un pizzico di follia. Se, infatti, secondo la definizione
stoica, la saggezza consiste solo nel farsi guidare dalla ragione, mentre, al
contrario, la follia consiste nel farsi trascinare dalle passioni, perché la
vita umana non fosse del tutto improntata a malinconica severità, Giove infuse
nell’uomo molta più passione che ragione: press’a poco nella proporzione di
mezz’oncia ad un asse. Relegò inoltre la ragione in un angolino della testa
lasciando il resto del corpo ai turbamenti delle passioni. Quindi, alla sola
ragione contrappose due specie di violentissimi tiranni: l’ira, che occupa la
rocca del petto e il cuore stesso che è la fonte della vita, e la concupiscenza
che estende il suo dominio fino al basso ventre. Quanto valga la ragione contro
queste due agguerrite avversarie ce lo dice a sufficienza la condotta abituale
degli uomini: la ragione può solo protestare, e lo fa fino a perderci la voce,
enunciando i princìpi morali; ma quelle, rivoltandosi alla loro regina, la
subissano di grida odiose, finché lei, prostrata, cede spontaneamente
dichiarandosi vinta.
17 Tuttavia, poiché l’uomo, nato
per far fronte agli affari, doveva ricevere in dote un po’ più di un’oncia di
ragione, Giove, per provvedere debitamente, mi convocò perché lo consigliassi,
come su tutto il resto, anche a questo proposito; e il mio pronto consiglio fu
degno di me: affiancare all’uomo la donna, animale, sì, stolto e sciocco, ma
deliziosamente spassoso, che nella convivenza addolcisce con un pizzico di
follia la malinconica gravità del temperamento maschile. Platone, infatti,
quando sembra in dubbio circa la collocazione della donna, se fra gli animali
razionali o fra i bruti, vuole solo sottolineare la straordinaria follia di
questo sesso. E, se per caso una donna vuole passare per saggia, ottiene solo
di essere due volte folle, come se uno volesse, contro ogni ragionevole
proposito, portare un bue in palestra. Infatti raddoppia il suo difetto chi,
distorcendo la propria natura, assume sembianza virtuosa. Come, secondo il
proverbio greco, la scimmia è sempre una scimmia, anche se si ammanta di
porpora, così la donna è sempre una donna, cioè folle, comunque si mascheri.
Non però così folle, voglio
credere, da prendersela con me perché la giudico folle, io che sono folle, anzi
la Follia in persona. Le donne, infatti, se ponderassero bene la questione,
anche questo dovrebbero considerare come un dono della Follia: il fatto di
essere, sotto molti aspetti, più fortunate degli uomini. In primo luogo hanno
il dono della bellezza, che giustamente mettono al disopra di tutto, contando
su di essa per tiranneggiare gli stessi tiranni. Quanto all’uomo, di dove gli
viene l’aspetto rude, la pelle ruvida, la barba folta, e un certo che di
senile, se non dalla maledizione del senno? Le donne, invece, con le guance
sempre lisce, con la voce sempre sottile, con la pelle morbida, danno quasi
l’impressione d’una eterna giovinezza. Ma che altro desiderano poi in questa
vita, se non piacere agli uomini quanto più è possibile? Non mirano forse a
questo, tante cure, belletti, bagni, acconciature, unguenti, profumi; tante
arti volte ad abbellire, dipingere, truccare il volto, gli occhi, la pelle? C’è
forse qualche altro motivo che le faccia apprezzare dagli uomini più della
follia? Che cosa mai non concedono gli uomini alle donne? Ma in cambio di che,
se non del piacere? E il diletto da nient’altro viene se non dalla loro follia.
Che questo sia vero non si può negare solo che si pensi a tutte le sciocchezze
che un uomo dice quando parla con una donna, a tutte le stupidaggini che fa
ogni volta che si mette in testa di ottenerne i favori. Ecco da che fonte
sgorga il primo e principale diletto della vita.
18 Ma ci sono uomini,
specialmente tra i vecchi, che alla donna preferiscono il bere; per loro il
sommo piacere sta nei simposi. Altri pensano che possa esservi un lauto
banchetto senza donne; però una cosa è certa, che senza un pizzico di follia
non può esservi banchetto ben riuscito. A tal punto che, se non c’è già
qualcuno capace di far ridere con la sua follia, autentica o simulata, si
chiama un buffone a pagamento, o un allegro parassita, che, con le sue comiche,
ossia folli battute, dissipi il silenzio e la noia del simposio. A che scopo
infatti riempirsi il ventre di tanti dolciumi, leccornie e ghiottonerie, se
anche gli occhi, le orecchie e l’anima intera, non si nutrissero di risa, di
scherzi, di facezie? ma cibi del genere posso ammannirli solo io. D’altra parte
anche quei riti conviviali, come sorteggiare il re del convito, giocare ai
dadi, invitare al brindisi, gareggiare intorno ad un tavolo a cantare e bere a
turno, passarsi il mirto cantando, ballare, far pantomime, non sono stati
inventati dai sette sapienti della Grecia ma da me, per la felicità dell’umana
specie.
Tutte le cose di questo genere
hanno un tratto comune: che quanto più partecipano della follia tanto più
rallegrano la vita dei mortali, che, se fosse triste, neanche meriterebbe di
essere chiamata vita. E triste risulterà senz’altro, se non le toglierai di
dosso l’innato tedio con questo tipo di divertimenti.
19 Forse taluni trascureranno
anche questo genere di piacere e saranno paghi dell’amore e della familiarità
degli amici, affermando che l’amicizia vale più di tutto: l’amicizia, un bene
non meno necessario dell’aria, del fuoco, dell’acqua; tanto soave che se togli
l’amicizia togli il sole; infine tanto nobile - ammesso che la cosa ci riguardi
- che gli stessi filosofi non esitano a ricordarla fra i beni fondamentali. Ma
che succede se dimostro che anche di questo bene così grande sono io la poppa e
la prora? Io lo dimostrerò non col sofisma del coccodrillo, non coi soliti
cornuti o con altre simili dialettiche sottigliezze, ma alla buona, facendovi
toccare la cosa con mano.
Orbene, chiudere gli occhi,
ingannarsi, essere ciechi, illudersi a proposito dei difetti degli amici,
amarne e apprezzarne come qualità alcuni dei vizi più evidenti, non è forse
qualcosa di molto vicino alla follia? C’è chi bacia il neo dell’amica, chi
trova incantevole il polipo di Agna; il padre dice del figlio strabico che ha
il vezzo di ammiccare. Tutto questo, io domando, che è, se non pura follia?
Ripetano a gran voce che è follia: eppure essa sola è capace di promuovere e
cementare le amicizie. Parlo dei comuni mortali, nessuno dei quali nasce senza
difetti: il migliore è chi ne ha meno; quanto poi a quei famosi saggi che hanno
il piglio di Dèi, tra loro l’amicizia, o non nasce affatto, o è qualcosa di
cupo e scostante, limitata poi a pochissimi (non oso dire che non include
proprio nessuno), perché la maggior parte degli uomini ha un pizzico di follia,
anzi non c’è nessuno che, in un modo o in un altro, non abbia le sue stranezze,
e non c’è amicizia se non tra persone simili. Se, infatti, tra questi uomini
austeri si desse una volta uno scambievole affetto, non sarebbe per nulla
stabile e durerebbe ben poco, nascendo tra uomini difficili e più oculati del
necessario, capaci di cogliere i difetti degli amici con l’occhio acuto
dell’aquila e del serpente di Epidauro. Quando però si tratta dei loro difetti,
come ci vedono poco! e come ignorano la parte della bisaccia che portano dietro
le spalle! Perciò, dato che la natura dell’uomo è tale che nessuno è immune da
gravi difetti (aggiungi la grande varietà di caratteri e di studi, le tante
cadute, i tanti errori, i tanti casi della vita mortale), come potranno questi
Arghi gustare anche solo per un’ora le gioie dell’amicizia se non interverrà
quella che i Greci chiamano EUETHEIA, termine felice da tradursi con follia, o
con indulgente semplicità? Del resto, non è forse del tutto cieco quel Cupido,
che è artefice e padre di ogni legame? E come il brutto gli appare bello, così
fa in modo che anche a ciascuno di voi sembri bello ciò che gli è toccato in
sorte, che il vecchio ami la sua vecchia, e il ragazzo la sua ragazza. Sono
cose che accadono a ogni piè sospinto e che muovono il riso; eppure sono
proprio queste cose ridicole il fondamento di una società che vive con gioia.
20 Quanto si è detto
dell’amicizia a maggior ragione vale per il matrimonio, che altro non è se non
un legame per la vita tra singoli individui. Dio immortale, quanti divorzi, o
fatti anche peggiori dei divorzi, non si avrebbero dappertutto, se la domestica
convivenza del marito con la moglie non si rafforzasse nutrendosi di
adulazioni, di scherzi, d’indulgenza, di errori, di dissimulazioni, tutte cose
che appartengono al mio seguito. Quanto matrimoni ci sarebbero, se il fidanzato
saggiamente s’informasse dei passatempi a cui già molto prima delle nozze si
dedicava la sua verginella così delicata e pudica in apparenza. E, a
celebrazione avvenuta, quanti ne durerebbero, se tante imprese delle mogli non
rimanessero ignorate per la negligenza e la sciocchezza dei mariti! E anche
questo, a buon diritto, è da attribuirsi alla Follia, a cui si deve se il
marito ama la moglie e la moglie il marito, se in casa regna la pace, se il
vincolo dura.
Si ride del cornuto, del cervo (e
quanti altri nomi non gli si danno!), quando asciuga con i baci le lacrime
dell’adultera. Ma quanto meglio lasciarsi ingannare così che rodersi di gelosia
e volgere tutto in tragedia!
21 Insomma, senza di me nessuna
società, nessun legame potrebbe durare felicemente. Il popolo si stancherebbe
del principe, il servo del padrone, la serva della padrona, il maestro dello
scolaro, l’amico dell’amico, la moglie del marito, il locatore del locatario,
il compagno del compagno, l’ospite dell’ospite, se volta a volta non
s’ingannassero a vicenda, ora adulandosi, ora facendo saggiamente finta di non
vedere, ora lusingandosi col miele della Follia. So che queste vi sembrano
enormità; ma ne sentirete di più belle.
22 Di grazia, chi odia se stesso
come potrà amare qualcuno? chi è interiormente combattuto, potrà forse andare
d’accordo con altri? potrà, chi è sgradito e molesto a se stesso, riuscire
gradevole a un altro? Nessuno, credo, lo affermerebbe, se non fosse un pazzo
più pazzo della Follia stessa. Pertanto, se non ci fossi più io, lungi dal
sopportare il prossimo, ognuno, inviso a se stesso, proverebbe disgusto di sé e
delle sue cose. La Natura, infatti, in molte cose matrigna piuttosto che madre,
ha posto nell’animo dei mortali, soprattutto se appena più intelligenti, il
seme di questo male: scontento di sé e ammirazione per gli altri. Di qui il
venire meno e l’estinguersi di tutte quelle squisite doti che sono il profumo
della vita. A che giova infatti la bellezza, il massimo dono degli Dèi
immortali, se deve esser lasciata sfiorire? A che la giovinezza, se deve
intristire per il veleno di senili malinconie? Infine, in tutti i casi della
vita, come potrai agire in modo conveniente nei tuoi o negli altrui confronti
(agire come conviene non è solo la prima regola dell’arte, ma di tutta la nostra
condotta), se non ti sarà propizia Filautìa, che a buon diritto tengo in conto
di sorella, tanto validamente mi presta il suo aiuto in ogni occasione? Se
piaci a te stesso, se ti ammiri, questo è proprio il colmo della follia; ma
d’altra parte, dispiacendo a te stesso, che cosa potresti fare di bello, di
gradevole, di nobile? Togli alla vita l’amor proprio e subito la parola suonerà
fredda sulle labbra dell’oratore, il musicista non piacerà a nessuno con le sue
melodie, l’attore si farà fischiare con la sua mimica, il poeta e le sue muse
saranno irrisi, sarà tenuto a vile il pittore con la sua arte, si ridurrà alla
fame il medico con le sue medicine. Alla fine invece di Nireo sembrerai
Tersite, invece di Faone, Nestore, invece di Minerva una scrofa, invece di un
forbito oratore, uno che non balbetta neanche una parola; invece di un distinto
cittadino, un rozzo contadino. Se vuoi poter essere raccomandato agli altri,
devi proprio cominciare col raccomandarti a te stesso; devi essere il primo a
lodarti, e non senza una punta di adulazione.
Infine, poiché la felicità
consiste soprattutto nel voler essere ciò che si è, qui interviene col suo
aiuto la mia Filautìa, facendo in modo che nessuno sia scontento del proprio
aspetto, carattere, schiatta, posizione, educazione, Patria, tanto che né un
irlandese si cambierebbe con un italiano, né un tracio con un ateniese, né uno
scita con un abitante delle Isole Fortunate. O singolare bontà della natura che
in tanta varietà di cose, stabilì un regime di uguaglianza! Dove scarseggia coi
suoi doni, là, è solita aggiungere una dose maggiore di amor proprio. Ma che
sciocchezza ho detto! Proprio questo è il più grande dei suoi doni.
23 Ora dovrei aggiungere che
nulla di grande si può intraprendere senza la mia spinta, perché è a me che si
deve l’invenzione di ogni nobile arte. Forse che non sia la guerra la fonte e
il coronamento di ogni celebrata impresa? E che c’è di più pazzesco
dell’impegnarsi, per non so quali cause, in un confronto da cui,
immancabilmente, ognuna delle due parti trae più danno che guadagno? Dei
caduti, poi, neanche si parla, quasi fossero gente di Megara. Quando le schiere
in armi si fronteggiano e le trombe intonano il loro rauco suono, a che
servono, di grazia, i sapienti esauriti dagli studi, col loro sangue povero e
privo di calore, e che a malapena tirano il fiato? C’è bisogno di gente ben
piantata; con moltissima audacia e pochissimo cervello. A meno che non si
preferisca arruolare Demostene, tanto vile soldato quanto grande oratore, che,
seguendo il consiglio d’Archiloco, appena vide il nemico fuggì abbandonando lo
scudo.
La prudenza, obiettano, in guerra
ha grandissimo peso. Lo riconosco; ma lo ha in chi comanda; e si tratta di
prudenza militare, non filosofica; per il resto, l’impresa tanto egregia della
guerra è affidata a parassiti, ruffiani, briganti, sicari, contadini,
imbecilli, debitori e altri rifiuti del genere; non a filosofi da tavolino.
24 Della cui totale inutilità sul
piano pratico è testimone lo stesso Socrate che l’oracolo d’Apollo giudicò -
con poco senno, del resto - il solo sapiente: quando tentò d’impegnarsi in non
so quale faccenda pubblica, fu costretto a ritirarsi fra il generale dileggio.
Anche se del tutto sciocco non si dimostrò quando rifiutò il titolo di sapiente
che attribuì solo a Dio, e quando sostenne che il saggio non deve occuparsi di
politica; e meglio avrebbe fatto a consigliare di tenersi lontani dalla
sapienza, se si vuol vivere da uomini.
D’altra parte, quando fu
processato, che cosa se non la sapienza lo costrinse a bere la cicuta? Infatti
mentre andava filosofando di idee e di nuvole, mentre misurava il salto delle
pulci, mentre ammirava la voce delle zanzare, non imparava nulla di ciò che
riguarda la vita di tutti i giorni. In aiuto del maestro, sull’orlo di una
condanna capitale, interviene il discepolo Platone, difensore così egregio che,
turbato dal rumoreggiare della folla, a malapena riesce a pronunciare qualche
frase smozzicata. E che dire di Teofrasto? come avrebbe mai potuto animare i
soldati in guerra, lui che, levatosi a parlare, ammutolì di colpo come se
d’improvviso avesse visto un lupo? Isocrate, pavido per natura, non osò mai
aprire bocca. Marco Tullio, il padre della romana eloquenza, abitualmente,
preso da poco dignitoso tremore, esordiva balbettando, come un ragazzino.
Quintiliano vede in questo la prova dell’oratore di valore, che misura le
difficoltà; ma non farebbe meglio a dire che la sapienza è un ostacolo a
condurre in porto le faccende pratiche? Che faranno costoro quando si dovrà ricorrere
alle armi, se si perdono d’animo così quando si combatte semplicemente a
parole?
Nonostante questo, a Dio
piacendo, si esalta il famoso detto di Platone, che fortunati saranno gli Stati
se a reggerli saranno chiamati i filosofi, o se i reggitori si daranno alla
filosofia. Se, invece, consulterai gli storici, troverai che il concentrarsi
del potere nelle mani di un filosofastro o di un letterato è la peggiore
sciagura che possa colpire uno Stato. E mi pare lo attestino bene i due Catoni:
uno dei quali turbò la pace della repubblica romana con le sue pazze denunce;
l’altro, mentre difendeva con un eccesso di saggezza la libertà del popolo
romano, la mise del tutto a soqquadro. Aggiungi a questi i Bruti, i Cassi, i
Gracchi, e Cicerone stesso, che allo stato romano fece tanto male quanto
Demostene a quello ateniese. Quanto a Marco Antonio, ammesso che fosse un buon
imperatore (potrei contestarlo, perché, dedito come era alla filosofia, per
questa stessa fama si era fatto prendere a noia dai concittadini) ammesso
tuttavia che lo fosse, certamente, lasciando dietro di sé il figlio che lasciò,
danneggiò lo Stato più di quanto non gli avesse giovato col suo governo. Questa
categoria, infatti, di uomini dediti allo studio della filosofia, di solito ha
pochissima fortuna in ogni cosa, ma soprattutto nei figli che mette al mondo;
penso sia la provvidenza della natura a volere impedire che questo malanno
della filosofia si diffonda più largamente fra gli uomini. Così risulta che
Cicerone ebbe un figlio degenere, e che Socrate, il famoso filosofo, ebbe
figli, com’è stato scritto non del tutto a torto, "più simili alla madre
che al padre", e cioè stolti.
25 Comunque, se fossero come
asini davanti a una lira solo riguardo ai pubblici affari, ci si potrebbe
passare sopra; il guaio è che sono altrettanto incapaci in ogni altra occasione
della vita. Invita a pranzo un sapiente: disturberà col suo cupo silenzio, o
con le sue noiose questioncelle. Invitalo alla danza: diresti che balla come un
cammello. Portalo ad uno spettacolo: basterà la sua espressione a guastare il
divertimento alla gente e, come il saggio Catone, sarà costretto a lasciare il
teatro perché non può spianare il cipiglio. Se per caso capiterà durante una
conversazione, sarà come il lupo della favola. Se c’è da fare un acquisto, un
contratto, insomma qualcuna delle cose indispensabili alla vita di ogni giorno,
questo sapiente ti sembrerà un pezzo di legno, non un uomo. A tal punto è
incapace di rendersi utile a se stesso, alla patria, ai suoi, perché inesperto
delle faccende usuali e perché tanto lontano dal giudizio corrente e dalle
accettate consuetudini. Quindi, per forza, si fa anche odiare, per questa sua
grande diversità di vita e di intendimenti. Tra i mortali, infatti, che cosa
mai si fa che non trabocchi di follia, e che non sia opera di folli in un mondo
di folli? Perciò, se qualcuno volesse opporsi da solo a tutti, io gli
consiglierei di ritirarsi, come Timone, in un deserto, per godervi, da solo, la
propria saggezza.
26 Ma, per tornare all’argomento
proposto, quale forza, se non l’adulazione, raggruppò nella città quegli uomini
primitivi, simili ai sassi e alle querce? Questo solo vuole indicare la famosa
cetra di Anfione e di Orfeo. Cosa mai riportò alla concordia cittadina la plebe
romana che già stava per spingersi ad atti irreparabili? Forse un discorso
filosofico? Nemmeno per sogno! Al contrario, fu il ridicolo e puerile apologo
del ventre e delle altre membra. Altrettanto si dica dell’analogo apologo di
Temistocle, della volpe e del riccio. E quale discorso di un sapiente avrebbe
potuto raggiungere l’efficacia della famosa cerva immaginata da Sertorio, o
della trovata dei due cani, dello spartano Licurgo, o dell’altra ridicola
storia, sempre di Sertorio, sul modo di strappare i peli dalla coda del
cavallo? Per non parlare di Minosse e di Numa: entrambi governarono la stolta
moltitudine con invenzioni favolose. È con simili sciocchezze che si fa presa
su quella grossa e potente bestia che è il popolo.
27 Viceversa, quale città ha mai
fatto sue le leggi di Platone e di Aristotele, o i precetti di Socrate?
Che cosa persuase i Deci a votarsi
spontaneamente agli Dèi Mani? Che cosa trascinò nella voragine Quinto Curzio,
se non la vanagloria, dolcissima sirena (ma quanto esecrata dai sapienti!).
Che c’è infatti di più sciocco,
dicono, di un candidato che lusinga il popolo in tono supplichevole, che compra
i voti, che va in cerca degli applausi di tanti stolti, che si compiace delle
acclamazioni, che si fa portare in giro in trionfo, come una statua da mostrare
al popolo, che fa collocare nel foro il proprio simulacro di bronzo? Aggiungi la
sfilza dei nomi e dei soprannomi, gli onori divini tributati a un uomo
insignificante, il fatto che si dà il caso di tiranni scelleratissimi elevati
con pubbliche cerimonie alla gloria dell’Olimpo. Sono autentiche manifestazioni
di follia, e per riderci sopra non basterebbe un solo Democrito. Chi lo nega?
Tuttavia, proprio di qui sono nate le grandi imprese degli eroi, levate al
cielo dall’opera di tanti letterati. Questa follia genera le città; su di essa
poggiano i governi, le magistrature, la religione, le assemblee, i tribunali.
La vita umana non è altro che un gioco della Follia.
28 Quanto poi alle arti, cosa mai
se non la sete di gloria ha suscitato nell’animo umano la brama d’inventare e
tramandare ai posteri tante discipline ritenute nobili? Furono uomini davvero
stoltissimi quelli che hanno creduto valesse la pena di conquistare a prezzo di
tante faticose veglie quella fama di cui niente può essere più vano. Ma intanto
voi dovete alla Follia tante cose e così egregie della vita, e, ciò che soprattutto
conta, la follia altrui fa la vostra cuccagna.
29 C’è, ora, qualcosa di cui
stupirsi se, dopo essermi attribuita la fortezza e l’operosità, rivendicherò
anche la saggezza? qualcuno potrebbe dire che è come accoppiare l’acqua e il
fuoco. Eppure credo che riuscirò anche in questo purché voi, come prima, mi
prestiate benevola attenzione. In primo luogo, se la saggezza si fonda
sull’esperienza, a chi meglio conviene fregiarsi dell’appellativo di saggio? Al
sapiente che, parte per modestia, parte per timidezza, nulla intraprende, o al
folle che né il pudore, di cui è privo, né il pericolo, che non misura,
distolgono da qualche cosa? Il sapiente si rifugia nei libri degli antichi e ne
trae solo sottigliezze verbali. Il folle affronta da vicino le situazioni coi
relativi rischi e così acquista, se non erro, la saggezza. Cosa, questa, che
sembra avere visto, benché cieco, Omero, quando dice: "Il folle capisce i
fatti". Sono due infatti i principali ostacoli alla conoscenza delle cose:
la vergogna che offusca l’animo, e la paura che, alla vista del pericolo,
distoglie dalle imprese. La follia libera da entrambe. Non vergognarsi mai e
osare tutto: pochissimi sanno quale messi di vantaggi ne derivi.
Perché, se preferiscono attingere
quella sapienza che consiste nel saper giudicare delle cose, state a sentire,
vi prego, quanto ne sono lontani coloro che si spacciano per sapienti. In primo
luogo, com’è noto, tutte le cose umane, a guisa dei Sileni di Alcibiade, hanno
due facce affatto diverse. A tal segno che sulla faccia esteriore, come dicono,
vedi la morte, mentre, se guardi dentro, scopri la vita; e, viceversa, al posto
della vita scopri la morte, al posto del bello il brutto, della ricchezza la
miseria, dell’infamia la gloria, della dottrina l’ignoranza, del vigore la
debolezza, della generosità l’abiezione, della letizia la malinconia, della
prosperità la sventura, dell’amicizia l’inimicizia, del salutare il nocivo: in
breve, se apri il Sileno, trovi di tutte le cose l’opposto. Se poi qualcuno
giudica troppo filosofico questo discorso, mi spiegherò, come suol dirsi, più
alla buona.
Chi negherà che un re è ricco e
potente? Eppure, se manca del tutto dei beni dell’animo, se non è mai contento
di nulla, è davvero il più povero di tutti. Se poi il suo animo è una sentina
di vizi, è addirittura uno schiavo abietto. Lo stesso ragionamento si potrebbe
fare anche per gli altri. Ma accontentiamoci dell’esempio proposto. A che
scopo? domanderà qualcuno. State a sentire dove voglio arrivare.
Se uno tentasse di strappare la maschera
agli attori che sulla scena rappresentano un dramma, mostrando agli spettatori
la loro autentica faccia, forse che costui non rovinerebbe lo spettacolo
meritando di esser preso da tutti a sassate e cacciato dal teatro come un
forsennato? Di colpo tutto muterebbe aspetto: al posto di una donna un uomo; al
posto di un giovane, un vecchio; chi prima era un re, d’improvviso diventa uno
schiavo; chi era un Dio, ad un tratto appare un uomo da nulla. Dissipare
l’illusione significa togliere senso all’intero dramma. A tenere avvinti gli
sguardi degli spettatori è proprio la finzione, il trucco. L’intera vita umana
non è altro che uno spettacolo in cui, chi con una maschera, chi con un’altra,
ognuno recita la propria parte finché, ad un cenno del capocomico, abbandona la
scena. Costui, tuttavia, spesso lo fa recitare in parti diverse, in modo che
chi prima si presentava come un re ammantato di porpora, compare poi nei cenci
di un povero schiavo. Certo, sono tutte cose immaginarie; ma la commedia umana
non consente altro svolgimento.
A questo punto, se un sapiente
caduto dal cielo si levasse d’improvviso a gridare che il personaggio a cui
tutti guardano come a un Dio e a un potente, non è neppure un uomo, perché come
le bestie si lascia dominare dalle passioni, che spontaneamente asservito a
padroni così numerosi e turpi, è l’ultimo degli schiavi; e, se ad un altro che
piange il padre morto ordinasse di ridere perché il padre, finalmente, ha
cominciato a vivere, dato che questa vita altro non è che morte; e se chiamasse
plebeo e bastardo un terzo che mena vanto di una nobile nascita, ma che è ben
lontano dalla virtù, unica fonte di nobiltà: se allo stesso modo parlasse di
tutti gli altri, non agirebbe costui proprio in modo da sembrare a tutti pazzo
da legare? Nulla di più stolto di una saggezza intempestiva; nulla di più fuori
posto del buon senso alla rovescia. Agisce appunto contro il buon senso chi non
sa adattarsi al presente, chi non adotta gli usi correnti, e dimentica persino
la regola conviviale: o bevi o te ne vai, e vorrebbe che una commedia non fosse
più una commedia. Invece, per un mortale, è vera saggezza non voler essere più
saggio di quanto gli sia concesso in sorte, fare buon viso all’andazzo generale
e partecipare di buon grado alle umane debolezze. Ma, dicono, proprio questo è
follia. Non lo contesterò, purché riconoscano in cambio che questo è recitare
la commedia della vita.
30 Quanto al resto, Dèi
immortali, parlerò o tacerò? E perché mai dovrei tacere cose più vere della
verità? Ma forse, in così grave frangente, meglio sarebbe chiamare in aiuto
dall’Elicona le Muse che i poeti sono soliti invocare anche troppo spesso per
vere sciocchezze. Assistetemi dunque per un poco, figlie di Giove, finché non
dimostri che nessuno senza la guida della follia può accedere alla sapienza, a
quella che chiamano la rocca della felicità.
In primo luogo, è pacifico che
tutte le passioni rientrano nella sfera della follia: ciò che distingue il
savio dal pazzo è che questi si fa guidare dalle passioni, mentre il primo ha
per guida la ragione. Perciò gli stoici spogliano il sapiente di tutte le
passioni come fossero delle malattie. Tuttavia questi elementi emotivi, non
solo assolvono la funzione di guide per chi si affretta verso il porto della
sapienza, ma nell’esercizio della virtù vengono sempre in aiuto spronando e
stimolando, come forze che esortano al bene. Anche se qui fieramente leva la
sua protesta Seneca, col suo stoicismo integrale, negando al sapiente ogni
passione. Ma così facendo distrugge anche l’uomo e crea al suo posto un Dio di
nuovo genere, che non è mai esistito e non esisterà mai; anzi, per parlare
ancora più chiaro, scolpisce la statua di un uomo di marmo, privo
d’intelligenza e di qualunque sentimento umano. Perciò, se lo desiderano, si
godano pure il loro saggio, che potranno amare senza rivali, e dimorino con lui
nella Repubblica di Platone, o, se preferiscono, nel mondo delle idee, o nei
giardini di Tantalo.
Chi, infatti, non sfuggirà con
orrore come spettro mostruoso un uomo così fatto, sordo ad ogni naturale
richiamo, incapace d’amore o di pietà, come "una dura selce o una rupe
Marpesia"? Un uomo cui non sfugge nulla, che non sbaglia mai, ma che con
l’occhio acuto di Linceo tutto vede, tutto pesa con assoluta precisione, nulla
perdona; solo di sé contento, lui solo ricco, lui solo sano, lui solo re, lui
solo libero. Per dirla in breve, lui solo tutto (e solo a suo giudizio); senza
amici, pronto a mandare all’inferno gli stessi Dèi, e che condanna come
insensato e risibile tutto ciò che si fa nella vita. Eppure quel perfetto
sapiente è proprio un animale fatto così. Ma, di grazia, se si dovesse decidere
con i voti, quale città lo vorrebbe come magistrato, quale esercito lo
designerebbe come capo? Quale donna vorrebbe o sopporterebbe un simile marito,
quale anfitrione un simile convitato, quale servo un padrone con questi
costumi? Chi non preferirebbe un uomo qualunque, uno della folla dei pazzi più
segnalati, che, pazzo com’è, possa comandare o obbedire ad altri pazzi,
attirando la simpatia dei suoi simili, che poi sono tanti? Gentile con la
moglie, gradito agli amici, buon commensale; uno con cui si possa convivere,
che, infine, non ritenga estraneo a sé niente di ciò che è umano? Ma ormai del
sapiente ne ho abbastanza. Perciò torniamo a parlare degli altri vantaggi che
offro.
31 Supponiamo che potendo
spaziare da una specola sublime con lo sguardo tutt’attorno - come, secondo i
poeti, fa Giove - uno veda quante avversità minaccino la vita, quanto infelice
e miserabile sia la nascita, quanto faticosa l’educazione, e tutte le offese
cui va incontro la fanciullezza, tutti gli affanni della gioventù, e com’è
pesante la vecchiaia, come amara la fatale morte; tutta la schiera delle
malattie, dei vari accidenti, l’incalzare delle contrarietà: nulla mai che sia
immune da un amaro veleno; per non dire di quei mali che l’uomo subisce
dall’uomo, come la povertà, la prigionia, l’infamia, la vergogna, la tortura,
le insidie, il tradimento, le ingiurie, i processi, le frodi. Ma dire tutto è
come mettersi a contare i granelli di sabbia. Certo non spetta a me, dire qui
per quali colpe gli uomini abbiano meritato questa sorte, o quale Dio irato li
abbia costretti a nascere tanto infelici. Chi rifletta a tutto questo non sarà
forse portato ad approvare l’esempio, pur così penoso, delle vergini di Mileto?
E quali sono soprattutto gli uomini che, per disgusto della vita, si sono dati
la morte? Non sono forse quelli che alla sapienza si erano accostati di più?
Tralasciando Diogene, Senocrate, i Catoni, i Cassi, i Bruti, prendiamo il
famoso Chirone che, potendo diventare immortale, preferì cercare spontaneamente
la morte. Credo vi sia chiaro che cosa accadrebbe se la sapienza si
diffondesse; sarebbe necessario altro fango e un secondo Prometeo capace di
plasmare altri uomini. Io, invece, puntando ora sull’ignoranza e ora sulla
spensieratezza, a volte facendo dimenticare i malanni, a volte suscitando
speranze di cose favorevoli, esaltando i piaceri con qualche stilla di miele,
in così grandi malanni, sono così soccorrevole che nessuno vuole lasciare la vita,
neppure quando il filo delle Parche è già esaurito e la vita stessa viene meno.
Anzi chi ha minori motivi di restare in vita, tanto più ama vivere, tanto è
lontano dall’essere comunque sfiorato dal tedio della vita.
Si deve certo a me, se si vedono
in giro tanti vecchi annosi quanto Nestore, vecchi che non hanno più neppure
volto d’uomo, balbuzienti, svaniti, sdentati, canuti, calvi, o, per dirla con
Aristofane, lerci, curvi, miseri, rugosi, senza capelli, senza denti, lascivi,
ma a tal segno amanti della vita e tanto inclini a fare i giovinetti, che ora
si tingono i capelli, ora nascondono la calvizie con una parrucca e ora si
servono di denti presi a prestito magari da un porco; mentre c’è tra loro chi
si strugge d’amore per una fanciulla e, in fatto di amorose sciocchezze, dà
punti anche a un ragazzino. Che vecchi rammolliti, già pronti per il cataletto,
sposino giovinette, anche se prive di dote e destinate a fare la gioia di
altri, è cosa ormai così frequente da costituire quasi motivo di vanto.
Ma nulla c’è di più spassoso di
certe vecchie praticamente già morte tanto sono decrepite, a tal punto
cadaveriche da sembrare reduci dagl’inferi, ma che hanno sempre sulle labbra il
ritornello: "la vita è bella"; fanno ancora le vezzose; mandano sentore
di capra - come dicono i Greci; conquistano a caro prezzo un qualche Faone,
s’imbellettano di continuo, stanno sempre allo specchio, si sfoltiscono i peli
del pube, ostentano le vecchie mammelle avvizzite, sollecitano con tremuli
mugolii il desiderio che vien meno, bevono, si inseriscono nelle danze delle
fanciulle, scrivono bigliettini amorosi. Sono cose di cui tutti ridono come di
indubbie follie; ed hanno ragione: ma loro, le vecchie, sono tanto contente di
sé, nuotano in un mare di delizie, gustano dolcezze senza fine, sono felici: e
tutto per merito mio. Vorrei che chi giudica queste cose degne d’irrisione
riflettesse un po’: è meglio trascorrere nella follia una vita colma di
dolcezza, o andare cercando, come suol dirsi, una trave a cui impiccarsi?
Che la loro condotta sia
giudicata comunemente vergognosa, ai miei pazzi non importa proprio nulla:
nemmeno se ne accorgono, o, se ne hanno sentore, non ne tengono nessun conto.
Prendersi un sasso in testa, questo sì che fa male. La vergogna, l’infamia, il
disonore, le offese, nuocciono nella misura in cui fanno soffrire. Per chi non
se la prende, non sono neppure un male. Che t’importa se tutti ti fischiano, se
tu ti applaudi? Che questo ti sia possibile lo devi alla sola Follia.
32 Mi pare di sentire protestare
i filosofi: l’infelicità, dicono, è proprio qui, nell’essere prigionieri della
Follia, sbagliare, vivere nell’inganno, nell’ignoranza. Ma essere uomo è
appunto questo. Né riesco a capire perché parlino d’infelicità: così siete
nati, educati, formati: questa è la sorte comune a tutti. Nessuno è infelice
quand’è in armonia con la propria natura, a meno di compiangere l’uomo perché
non può volare con gli uccelli, né camminare a quattro zampe con gli altri
mammiferi, o perché, a differenza dei tori, non è armato di corna. Da tal punto
di vista chiameremo infelice anche un bellissimo cavallo perché non sa di
grammatica e non mangia dolciumi, infelice il toro in quanto negato agli
esercizi della palestra. In realtà, come non è infelice il cavallo che ignora
la grammatica, così non è infelice l’uomo per la sua follia, che è conforme
alla sua natura.
Ma ecco che quegli esperti del
ragionamento tortuoso tornano alla carica. È dono peculiare dell’uomo, dicono,
la conoscenza scientifica, di cui si serve per compensare con l’ingegno ciò che
la natura gli ha negato. Come se fosse verosimile che la natura, così sollecita
nei confronti delle zanzare e perfino delle erbette e dei fiorellini, avesse
tirato via solo nella creazione dell’uomo, rendendogli necessarie quelle scienze
che Theuth, col suo genio ostile al genere umano, inventò per nostra somma
iattura: tanto inadatte a renderci felici che anzi contrastano col loro
presunto fine, come con eleganza sostiene in Platone un re molto saggio a
proposito dell’invenzione dell’alfabeto. Le scienze dunque sono penetrate fra
gli uomini, insieme alle altre calamità della vita mortale, per opera di coloro
da cui partono tutti i malanni, i demoni che ne hanno anche derivato il nome,
in greco DAEMONES, ossia "coloro che sanno". La gente semplice
dell’età dell’oro, del tutto priva di dottrina, viveva sotto l’unica guida
della natura e dell’istinto. Che bisogno c’era della grammatica, quando tutti
parlavano la stessa lingua e niente altro si chiedeva se non di capirsi l’un
l’altro? A che la dialettica, se non c’era contrasto di opposte posizioni? A
che la retorica, se nessuno intentava cause al prossimo? E che bisogno c’era
della giurisprudenza, se non c’erano quei cattivi costumi che, senza dubbio,
hanno fatto nascere le buone leggi? Erano troppo religiosi per scrutare con
empia curiosità i misteri della natura, la grandezza, i moti, gl’influssi delle
stelle, le cause riposte delle cose, giudicando vietato ai mortali il tentativo
di conoscere più di quanto era loro concesso. Lo stolto desiderio di andare a
cercare cosa ci fosse di là dal cielo non passava neppure per la mente. Col
graduale esaurirsi dell’età dell’oro, dapprima, come ho detto, dai demoni del
male furono inventate le scienze, ma poche, e limitate a pochi. Poi, i Caldei con
la loro superstizione, e quei perdigiorno dei Greci coi loro interessi svagati,
moltiplicarono a dismisura queste autentiche torture della mente. Con la sola
grammatica ce ne sarebbe già di troppo per il tormento di una vita intera.
33 Tuttavia tra queste scienze le
più pregiate sono le più vicine al senso comune, cioè alla Follia. I teologi
fanno la fame, i fisici soffrono il freddo, gli astrologi sono derisi, i
dialettici non contano nulla, mentre un solo medico vale quanto molti uomini.
In questa professione quanto più uno è ignorante, avventato, leggero, tanto più
è considerato dagli stessi prìncipi con tanto di corona in testa. La medicina,
infatti, specialmente come viene esercitata oggi dai più, si riduce, come la
retorica, a una forma di adulazione. Il secondo posto, con un brevissimo
stacco, spetta ai legulei - e starei per dire il primo; la loro professione,
per non esprimere pareri personali, è irrisa per lo più dai filosofi, fra il
generale consenso, come un’arte da asini. Tuttavia gli affari, dai più grandi
ai più piccoli, sono a discrezione di questi asini. I loro latifondi si
estendono, mentre il teologo, dopo essersi documentato su tutti gli aspetti
della divinità, rosicchia lupini, impegnato in una guerra continua con cimici e
pidocchi.
Ma, se le arti più fortunate sono
quelle più affini alla Follia, più fortunati fra tutti sono coloro che riescono
a tenersi lontani da qualunque disciplina per seguire la sola guida della
natura che in nessuna parte è manchevole, a meno che non pretendiamo di
oltrepassare i confini della nostra sorte mortale. La natura odia gli artifici:
fortunato chi è rimasto immune dalla contaminazione delle arti.
34 Orsù, non vedete che fra le
varie specie animali se la passano meglio di tutte proprio le più lontane dalle
arti, quelle che hanno per unica maestra e guida la natura? che c’è di più
felice o mirabile delle api? E dire che non hanno neppure tutti i sensi. Come
potrebbe un architetto realizzare qualcosa di simile alle loro costruzioni?
quale filosofo mai fondò una Repubblica come la loro? Il cavallo, invece,
poiché è simile all’uomo dal punto di vista dei sensi ed è diventato suo
compagno, è anche partecipe delle umane calamità. Non di rado, vergognandosi di
perdere in gara, si sfianca nella corsa; in guerra, assetato di vittoria, viene
colpito e morde la polvere insieme al cavaliere. Per non parlare del morso,
degli sproni aguzzi, della stalla dove è quasi prigioniero, del frustino, del
bastone, delle redini, del cavaliere, per dirla in breve, di tutta la tragica
schiavitù a cui si è votato spontaneamente nel tentativo di vendicarsi a ogni
costo del nemico emulando gli eroi. Quanto più invidiabile la condizione delle
mosche e degli uccellini, che vivono alla giornata obbedendo solo al naturale
istinto, sempre che lo consentano le insidie degli uomini! Gli uccelli,
infatti, chiusi in gabbia e ammaestrati a imitare la voce umana, quanto si
allontanano dal primitivo splendore! A tal segno, sotto tutti i rispetti, il
prodotto di natura è migliore di quello che l’arte ha adulterato.
Perciò non loderò mai abbastanza
il gallo in cui si reincarnò Pitagora che, essendo stato tutto, filosofo, uomo,
donna, re, principe, privato cittadino, pesce, cavallo, rana e, credo, anche
spugna, nessun animale, tuttavia, giudicò più disgraziato dell’uomo, perché,
mentre tutti gli altri sono contenti dei loro limiti naturali, soltanto l’uomo
tenta di oltrepassare i confini della sua condizione.
35 E tra gli uomini, sotto molti
punti di vista, antepone i semplici ai dotti e ai grandi. Molto più saggio di
Ulisse, simbolo della scaltrezza, Grillo che preferì di grugnire in un porcile
piuttosto che andare con lui incontro a tante calamità. Mi pare la pensi così
anche Omero, padre delle favole, che, mentre di continuo dice gli uomini miseri
e travagliati, e a più riprese chiama infelice Ulisse con la sua proverbiale
avvedutezza, non usa mai questo termine parlando di Paride, o di Aiace, o di
Achille. Perché mai? Soltanto perché, quell’astuto inventore di trucchi agiva
solo sotto la spinta di Pallade, e, quanto mai sordo a ogni richiamo della
natura, era tutto cervello.
Perciò i più lontani dalla
felicità sono tra i mortali quelli che aspirano alla sapienza, doppiamente
stolti perché, dimentichi della loro condizione di uomini, si atteggiano a Dèi
immortali e, a somiglianza dei giganti, dichiarano guerra alla natura valendosi
di ordigni costruiti dalla loro perizia; i meno infelici, invece, sembrano
quelli che restano più vicini all’istinto e alla stupidità dei bruti, né
tentano mai di oltrepassare le capacità dell’uomo. Proverò anche a dimostrarlo,
e non con gli entimèmi degli stoici, ma con qualche esempio alla portata di
tutti. Per gli Dèi immortali, vi è forse al mondo qualcosa di più felice di
quella specie di uomini chiamati volgarmente scimuniti, stolti, fatui,
sciocchi? appellativi, a mio parere, onorevolissimi. Dirò anzi una cosa che, se
a prima vista può sembrare una sciocchezza ed un’assurdità, in fondo è di una
verità indiscutibile.
Loro, innanzitutto, non hanno
paura della morte, male, per Giove, non trascurabile. Non li tormentano rimorsi
di coscienza; non li turbano le storie degli spiriti dei defunti; non hanno
paura delle apparizioni; non si crucciano per il timore di mali incombenti; non
entrano in ansia nella speranza di beni futuri. Insomma, non sono in balìa dei
mille affanni a cui è esposta la nostra vita. Ignorano la vergogna, il timore,
l’ambizione, l’invidia, l’amore. Infine, chi più si avvicina alla stupidità dei
bruti - ne sono garanti i teologi - è anche immune dal peccato. Ed ora, mio
sciocchissimo saggio, vorrei che tu mi esternassi tutti gli affanni che notte e
giorno tormentano il tuo animo e facessi un bel mucchio di tutti i tuoi guai;
alla fine capiresti quanto gravi mali ho risparmiato ai miei folli. Aggiungi
che, non solo vivono in perpetua letizia, scherzando, canterellando, ridendo,
ma offrono anche a tutti gli altri, dovunque vadano, motivi di piacere,
scherzo, divertimento e riso, come se la benevolenza divina proprio a questo li
avesse votati: a rallegrare la tristezza della vita umana. Perciò, mentre gli
uomini provano, caso per caso, sentimenti diversi verso i loro simili, nei
confronti di questi pazzi nutrono senza eccezione sentimenti amichevoli: li
vanno a cercare, li nutrono, li stringono in una sorta di caldo abbraccio e,
all’occorrenza, li soccorrono, non tenendo in nessun conto quanto possono dire
o fare. Nessuno desidera fargli del male. Persino le bestie feroci li
risparmiano, istintivamente consapevoli della loro innocenza. Infatti sono
davvero sacri agli Dèi, e a me in particolare. Perciò, a buon diritto, sono da
tutti onorati.
36 Grandi re, tanto se ne
dilettano, che alcuni di loro, nemmeno per un’ora, possono farne a meno né a
tavola né a passeggio. Non di poco preferiscono questi buffoni agli austeri
filosofi, che tuttavia sono soliti mantenere per ragioni di prestigio. Perché
poi li preferiscano, non mi sembra un mistero, né deve destare stupore; quei
saggi, per i prìncipi, sono solo apportatori di tristezza; talora fidando nella
loro dottrina, non si peritano di sfiorare quelle orecchie delicate con qualche
pungente verità. I buffoni, invece, offrono ai prìncipi la sola cosa che questi
desiderano con tutta l’anima: delizie come passatempo, scherzi, risate,
divertimenti. E non dimenticate anche questa non trascurabile dote dei folli:
solo loro sono schietti e veritieri.
E che c’è mai di più lodevole
della verità? Anche se in Platone un detto d’Alcibiade attribuisce la verità al
vino e ai fanciulli, si tratta tuttavia di un elogio che, in assoluto, spetta
soprattutto a me. Ne fa fede Euripide che a me si riferisce col celebre detto:
"Il folle dice cose folli". Il folle porta scritto in faccia, e
traduce in parole, tutto quanto ha nel cuore. I saggi, invece, sempre secondo
Euripide, hanno due linguaggi: quello della verità e quello dell’opportunismo.
È loro caratteristica mutare il nero in bianco, spirando dalla medesima bocca
ora il freddo ora il caldo, avendo in fondo al cuore tutt’altro da quello che
dicono nei loro artefatti discorsi. Nella loro fortuna i prìncipi a me sembrano
sotto questo rispetto molto sfortunati: non hanno nessuno che dica loro la
verità, e sono costretti ad avere come amici degli adulatori.
Ma, si potrebbe osservare, le
orecchie dei prìncipi detestano la verità e proprio per questo rifuggono dai
saggi, nel timore che qualcuno di lingua più sciolta osi dire cose vere
piuttosto che gradevoli. Così è: i re non amano la verità. Tuttavia proprio
questo si volge mirabilmente in vantaggio per i miei folli: da loro si
ascoltano con piacere, non solo la verità, ma anche indubbie insolenze, a tal
punto che, la stessa cosa, detta da un sapiente, gli frutterebbe la morte,
detta da un buffone diverte il signore oltre ogni dire. La verità, infatti, ha
un non so quale schietta capacità di piacere, purché non si accompagni
all’intenzione di offendere: ma questo è un dono che gli Dèi hanno elargito ai
soli folli.
Sono press’a poco medesime le
ragioni per cui le donne, più inclini per natura al divertimento e alle
frivolezze, si trovano di solito tanto bene con un simile genere di uomini.
Perciò, qualunque cosa costoro facciano - anche se a volte sono cose fin troppo
serie - le donne, tuttavia, le volgono in scherzo e gioco, abili come sono nel
mascherare ogni loro trascorso.
37 Ma ora torniamo alla felicità
dei folli. Trascorsa la vita in grande letizia, senza né il timore né il senso
della morte, se ne vanno diritti ai campi Elisi, per dilettare anche lì, coi
loro scherzi, il riposo delle anime pie.
Paragoniamo quindi la condizione
del saggio con quella di questo buffone. Immagina, per contrapporlo a lui, un
modello di sapienza: un uomo che abbia consumato tutta la fanciullezza e
l’adolescenza a istruirsi in mille modi, perdendo la parte migliore della
propria vita in veglie senza fine, in affanni e fatiche; che nemmeno in tutto
il resto della propria vita abbia mai gustato un istante di piacere; sempre
parco, povero, triste, austero, inflessibile con se stesso, fastidioso e inviso
agli altri; pallido, macilento, cagionevole; invecchiato e incanutito prima del
tempo, colto da morte prematura, anche se nulla importa, dopo tutto, quando
muore un uomo così, che non è mai vissuto. Ecco l’immagine perfetta del
sapiente.
38 A questo punto, sento che le
rane del Portico si rimettono a gracidare contro di me. "Niente, dicono, è
più miserevole della demenza. Ma una eminente follia è molto vicina alla
demenza, o è demenza essa stessa. Che cosa infatti è la demenza, se non
l’uscire di senno? e costoro ne sono usciti del tutto. "Orsù, vediamo di
confutare con l’aiuto delle Muse anche questo sillogismo". Certo il loro
ragionamento è sottile, ma, come il Socrate platonico, procedendo per
divisione, di una Venere e di un Cupido ne faceva due, così anche i nostri
dialettici, se volevano apparire in senno, dovevano distinguere dissennatezza
da dissennatezza. Infatti non ogni follia è fonte di guai. Altrimenti Orazio
non si sarebbe chiesto: "Si prende forse gioco di me un’amabile
follia?", né Platone avrebbe collocato il delirio dei poeti, dei vati e
degli amanti tra i massimi doni della vita; né la Sibilla avrebbe chiamato folle
l’impresa di Enea.
In verità ci sono due specie di
follia. Una scaturisce dagli inferi tutte le volte che le crudeli dee della
vendetta, scatenando i loro serpenti, suscitano nei cuori dei mortali ardore di
guerra, o insaziabile sete di oro, o amore turpe e scellerato, parricidio,
incesto, sacrilegio, e altri consimili orrori; oppure quando travagliano con le
furie e le faci tremende, un animo conscio dei propri delitti. L’altra, non ha
nulla in comune con questa; nasce da me e tutti la desiderano. Si manifesta ogni
volta che una dolce illusione libera l’animo dall’ansia e lo colma, insieme, di
mille sensazioni piacevoli. Proprio questa illusione Cicerone, scrivendo ad
Attico, augura a se stesso come un gran dono degli Dèi, per potersi liberare
dall’oppressione dei gravi mali incombenti. Né aveva torto quell’argivo che era
pazzo al punto da sedere da solo in teatro per giornate intere, ridendo,
applaudendo, godendosela, perché credeva vi si rappresentassero tragedie
bellissime, mentre non si rappresentava proprio nulla. Eppure, in tutte le
altre faccende della vita, era perfettamente normale: cordiale con gli amici,
"gentile con la moglie, capace di perdonare ai servi e di non dare in
escandescenze se il sigillo rotto denunciava la bottiglia aperta". Guarito
dalle cure dei familiari che gli somministrarono le medicine del caso, tornato
del tutto in sé, così si lamentava con gli amici: "Per Polluce! m’avete
ammazzato, amici miei, e non salvato, privandomi del piacere e togliendomi con
la forza quella mia così dolce illusione".
Aveva ragione: erano loro che
sbagliavano e che, più di lui, avevano bisogno dell’elleboro, loro che
credevano di dover estirpare con le medicine, quasi fosse un malanno, una così
felice e piacevole follia.
Tuttavia non ho ancora accertato
se qualunque errore del senso o della mente meriti il nome di follia. Se uno
che ci vede poco scambia un mulo per un asino, se un altro ammira come un
monumento di dottrina una rozza poesia, non si può senz’altro chiamarlo pazzo.
Ma se uno sbaglia, non solo col senso, ma anche col giudizio della mente, e
questo gli accade sempre e in proporzioni insolite, di lui, sì, diremo che ha
un ramo di pazzia; come chi, sentendo un asino ragliare, credesse di ascoltare
un meraviglioso concerto, o chi, povero e di umili origini, credesse di essere
Creso, re di Lidia. Ma quando questa specie di follia, come di solito accade,
assume aspetti piacevoli, è di non piccolo diletto, sia per coloro che ne sono
posseduti, sia per quelli che stanno a vedere senza esserne colpiti. Si tratta,
si badi, di un’affezione molto diffusa; più di quanto di solito si crede. Il
pazzo ride del pazzo, e a vicenda si offrono diletto. E non di rado vi accadrà
di vedere che, di due pazzi, è il più pazzo quello che più si prende gioco
dell’altro.
39 Eppure, ve lo assicura la
Follia in persona, uno è tanto più felice quanto più la sua follia è
multiforme, purché si mantenga entro il genere a me peculiare: un genere così
diffuso che non so se fra tutti gli uomini se ne possa trovare uno solo che sia
costantemente saggio, e che sia del tutto immune da una qualche forma di
pazzia. La differenza è tutta qui: chi vedendo una zucca la scambia per la
moglie, viene chiamato pazzo perché la cosa succede a pochissimi. Chi invece,
avendo la moglie in comune con molti, giura che è più virtuosa di Penelope, e,
felice del suo errore, è orgoglioso di sé, nessuno lo chiama pazzo, perché la
cosa accade spesso e dovunque.
Appartengono alla confraternita
anche coloro che disprezzano tutto in confronto ad una partita di caccia, e
vanno dicendo di provare un incredibile piacere tutte le volte che sentono il
suono cupo del corno e l’abbaiare dei cani. Credo che anche gli escrementi dei
cani, quando li annusano, mandino per loro profumo di cinnamomo. E quale
dolcezza squartare la selvaggina! L’umile plebe può squartare tori e castrati,
ma sarebbe un delitto farlo con un capo di selvaggina: questa è prerogativa di
nobili. A capo scoperto sta il nobile, piegati i ginocchi, col coltello
destinato allo scopo (è vietato servirsi di uno strumento qualunque), con gesti
rituali, in pio raccoglimento, taglia determinate membra in un determinato
ordine. Una folla silenziosa lo circonda, ammirata come se assistesse a non so
quale nuovo rito, mentre si tratta di uno spettacolo visto e rivisto. Se poi
uno ha la fortuna d’assaggiare un bocconcino della preda, crede di avanzare non
poco in nobiltà. Costoro, cacciando e cibandosi in continuazione di selvaggina,
mentre ottengono solamente di trasformarsi press’a poco in fiere, si illudono
invece di menar vita da re.
Molto simili sono quanti, in
preda alla frenesia del costruire, senza posa trasformano il quadrato in
rotondo, o il rotondo in quadrato. Procedono ignari di ogni limite e misura
finché, ridotti in estrema povertà, non hanno più né tetto né cibo. Ma che gli
importa del dopo? Intanto, per alcuni anni, sono stati immensamente felici.
Molto vicini a costoro, mi pare,
sono quelli che con arti nuove e arcane, tentano di trasformare la natura degli
elementi e cercano per terra e per mare la quinta essenza. Si nutrono di una
speranza così dolce da non tirarsi mai indietro di fronte a spese o fatiche, e
con mirabile spirito inventivo ne pensano sempre qualcuna per ingannarsi una
volta di più e per rivestire l’inganno di liete apparenze, finché, dato fondo a
tutto il loro, non possono costruire più niente, nemmeno un fornello. Non per
questo, tuttavia, smettono di sognare i loro bei sogni, ma spingono con tutte
le loro forze anche gli altri verso la medesima felicità. E quando l’ultima
speranza li ha abbandonati, resta tuttavia, a consolarli pienamente, un detto:
le grandi cose basta averle volute. Accusano allora la brevità della vita,
inadeguata alla grandezza dell’impresa.
Sono in dubbio se annoverare
nella nostra congrega i giocatori. Tuttavia è decisamente uno spettacolo di
spassosa follia vedere a volte gente così schiava del gioco da sentirsi venire
le palpitazioni appena giunge al loro orecchio il rumore di dadi. Quando poi,
obbedendo al costante stimolo della speranza di vincere, vedono naufragare
tutta la loro fortuna, infranta contro lo scoglio del gioco, ben più insidioso
del Capo Malea, appena in salvo, nudi di tutto, per non farsi la fama di uomini
poco seri, defraudano chiunque, piuttosto che chi nel gioco li ha vinti. E che
dire di quando, ormai vecchi, con la vista che vacilla, ricorrendo alle lenti,
continuano a giocare? E quando infine la meritata gotta impedisce l’uso delle
mani, arrivano a pagare un sostituto che getti sulla tavola, per loro, i dadi.
Gran bella cosa sarebbe il gioco, se il più delle volte non volgesse in
passione rabbiosa; ma qui siamo ormai nel regno delle Furie, non nel mio.
40 È senza dubbio della mia
pasta, invece, la schiera di quegli uomini che si divertono ad ascoltare o
narrare storie di miracoli o di prodigi fantastici e non si stancano mai di
ascoltare favole in cui si parla di eventi portentosi, di spettri, di fantasmi,
di larve, degl’inferi, o di altre innumerevoli cose del genere. Quanto più la
favola si scosta dal vero, tanto più volentieri ci credono, tanto più
voluttuosamente le loro orecchie ne sono solleticate. Di qui, non solo un
apprezzabile passatempo contro la noia, ma anche una fonte di guadagno,
specialmente per i sacerdoti ed i predicatori.
Sono della stessa razza quanti
nutrono la folle ma piacevole convinzione di non essere esposti a morire in
giornata, se hanno visto il simulacro ligneo o l’immagine dipinta di un
gigantesco san Cristoforo (il nuovo Polifemo); o credono di tornare sani e salvi
dalla battaglia, se hanno rivolto le debite preghiere alla statua di santa
Barbara; o di arricchirsi in breve rendendo omaggio a sant’Erasmo in certi
giorni, con speciali moccoli e determinate formulette. In san Giorgio hanno
scoperto una specie di Ercole e hanno anche un secondo Ippolito. Quasi adorano
il suo cavallo dopo averlo adornato con la massima devozione di falere e di
borchie, né risparmiano offerte di ogni sorta per accaparrarsi la benevolenza
del santo; giurare per il suo elmo di bronzo, secondo loro, è proprio degno di
un re.
Che dire poi di quelli che, nella
dolcissima illusione di immaginarie indulgenze accordate ai loro peccati,
computano quasi con l’orologio alla mano il periodo da passare in purgatorio,
numerando secoli, anni, mesi, giorni, ore, secondo una sorta di tavola
matematica sicura al cento per cento. O di quelli che fidando in segni magici o
in giaculatorie inventate da qualche pio ciurmadore, o per naturale
disposizione, o a scopo di lucro, non pongono limiti alle loro speranze:
ricchezze, onori, piaceri, abbondanza di tutto, una salute costantemente
ottima, una lunga vita, una vecchiaia vegeta, e, alla fine, nel regno dei
cieli, un seggio proprio accanto a Cristo. Questo, però, senza fretta, per
carità; ben vengano le delizie dei beati, ma quando, con disappunto, dovranno
lasciare i piaceri della vita a cui sono abbarbicati con le unghie e coi denti.
Immagina un negoziante, ma anche
un soldato, un giudice: rinunciando a una sola monetina dopo tante ruberie,
crede di avere lavato una volta per tutte il fango di un’intera vita,
un’autentica palude di Lerna, e ritiene che tanti spergiuri, tanta libidine,
tante ubriacature, tante risse, tante stragi, tante imposture, tante perfidie,
tanti tradimenti, siano riscattati come in base ad un regolare patto, e
riscattati al punto da poter ricominciare da zero una nuova catena di delitti.
E chi è più folle, o meglio più
felice, di quanti recitando ogni giorno sette versetti del salterio si
ripromettono una beatitudine sconfinata? A indicare a san Bernardo quei magici
versetti si crede sia stato un demone faceto, più sciocco invero che furbo, se,
poveretto, rimase intrappolato nel suo stesso inganno. Roba da matti! persino
io me ne vergogno. Sono cose, tuttavia, che godono l’approvazione, non solo del
volgo, ma anche di chi propina insegnamenti religiosi.
O non è forse lo stesso caso di
quando ogni regione reclama il suo particolare santo protettore, ognuno coi
suoi poteri, ognuno venerato con determinati riti? questo fa passare il mal di
denti; quello assiste le partorienti. C’è il santo che fa recuperare gli
oggetti rubati, quello che rifulge benigno al naufrago, un altro che protegge
il gregge; e via discorrendo. Troppo lungo sarebbe elencarli tutti. Ve ne sono
che da soli possono essere utili in parecchi casi; vi ricordo la Vergine, madre
di Dio, alla quale il volgo attribuisce quasi più poteri che al figlio.
41 Infine, che cosa chiedono gli
uomini a questi santi, se non cose che sanno di follia? Fra tanti ex-voto di
cui sono zeppe le pareti, e persino le volte di certe Chiese, ne avete mai
visti di chi fosse guarito dalla follia, o che fosse diventato, sia pure uno
zinzino, più saggio? Qualcuno si è salvato a nuoto; un altro, ferito dal
nemico, è riuscito a sopravvivere; chi, abbandonato il campo mentre gli altri
combattevano, ne è uscito con fortuna salvando anche l’onore; uno, con l’aiuto
di un santo protettore dei ladri, è caduto dal patibolo per poter continuare ad
alleggerire delle loro ricchezze quelli che non le meritano. Chi è fuggito dal
carcere forzando la porta; un altro è guarito dalla febbre con disappunto del
medico; a uno la bevanda velenosa non è stata letale, perché, sciogliendogli il
corpo, gli è servita da medicina, con scarsa soddisfazione della moglie che si
era data da fare per niente. Un uomo, pur essendoglisi rovesciato il carro, ha
riportato sani e salvi i cavalli. Un altro ancora, rimasto sotto le macerie, è
sopravvissuto; uno, infine, colto sul fatto da un marito, è riuscito a
svignarsela.
Nessuno che renda grazie per
essere stato guarito dalla pazzia. Gran bella cosa mancare di senno, se i
mortali tutto deprecano, fuori che la follia. Ma perché poi mi vado a cacciare
in questo mare di superstizioni? "Cento lingue, cento bocche, un’ugola di
ferro, non mi basterebbero a enumerare tutte le varietà di pazzi, a elencare
tutte le forme di follia." (Virgilio, "Eneide"). A tal punto la
cristianità intera trabocca di vaneggiamenti del genere; e i sacerdoti stessi
sono pronti ad ammetterle e incoraggiarle, non ignorando il guadagno che di
solito ne viene. Se però nel frattempo qualche odioso saggio si levasse a dire
le cose come stanno - "morirai bene, se bene hai vissuto; laverai i tuoi
peccati, se all’offerta di una moneta aggiungerai il pentimento con lacrime,
veglie, preghiere, digiuni, e un radicale cambiamento di vita; avrai la
protezione di questo Santo, se ne imiterai la vita" -; se quel saggio si
mettesse a ripetere queste cose ed altre del genere, vedresti in quale sgomento
farebbe precipitare le anime dei mortali, prima così colme di letizia!
Rientrano in questa congrega
coloro che da vivi stabiliscono la pompa del proprio funerale con tanta cura da
indicare il numero delle torce, degli incappati, dei cantori, dei lamentatori
di mestiere, come se dovessero avere un qualche sentore dello spettacolo, o se
da morti potessero vergognarsi qualora il cadavere non fosse sepolto con la
debita magnificenza, a somiglianza di chi, elevato ad una carica, si preoccupa
di organizzare giochi e banchetto.
42 Per quanto cerchi di non
dilungarmi, non riesco proprio a passare sotto silenzio coloro che, in nulla
diversi dall’ultimo ciabattino, si compiacciono tuttavia oltremodo di un vano
titolo nobiliare. Chi, a sentir lui, discende da Enea, chi da Bruto, chi da
Arturo; mostrano da ogni parte gli antenati in effigie, ritratti da scultori e
pittori. Ti enumerano uno dopo l’altro bisavoli e trisavoli ricordandone gli
antichi soprannomi, mentre per parte loro non dicono molto di più di una muta
statua, anzi dicono meno dei ritratti che ostentano. E tuttavia il dolce amore
di sé li fa vivere in perfetta letizia. Né mancano gli sciocchi che guardano a
questa razza di animali come se fossero divinità.
Ma perché perdermi a parlare
dell’una o dell’altra specie di gente, come se dappertutto la nostra Filautìa
non fosse per tanti, e nelle forme più inattese, fonte di grandissima felicità?
Questo qui è più brutto di una
scimmia, e si crede un Nireo. Un altro, appena ha tracciato tre linee col
compasso, si crede Euclide. Un altro ancora, che sta come un asino davanti alla
lira, ed ha mezzi vocali degni di un gallo in amore quando si avventa sulla
gallina, s’immagina di essere un secondo Ermogene. Un posto a parte merita
quell’ineffabile genere di follia per cui tanti, se uno dei loro servi ha delle
doti, se ne gloriano come di cosa propria. Come quel riccone doppiamente felice
di cui parla Seneca, che, se doveva raccontare una storiella, teneva d’intorno
i servi perché gli suggerissero i nomi; e, fidando nel fatto di averne in casa
tanti assai ben piantati, pur essendo così debole da reggere l’anima coi denti,
non avrebbe esitato a cimentarsi in una gara di pugilato.
A che ricordare chi fa
professione di artista? La filautìa è peculiare a tutta questa gente a tal
segno, che faresti prima a trovarne uno disposto a cedere il campicello paterno
che a rinunziare al suo talento, soprattutto nell’ambito degli attori, dei
cantori, degli oratori e dei poeti. Quanto più uno lascia a desiderare, tanto
più è arrogante nell’autocompiacimento, tanto più si vanta, tanto più si
gonfia. Il simile ama il simile, e quanto meno si vale tanto più si è ammirati;
i più vanno sempre dietro alle cose peggiori, perché, come ho detto, la maggior
parte degli uomini è soggetta alla follia. Quindi, se chi è più ignorante è più
contento di sé e ha più largo successo, cosa mai lo dovrebbe indurre ad optare
per una cultura autentica, che in primo luogo gli costerebbe parecchio, e in
secondo luogo lo renderebbe più fragile e più timido; e, infine, restringerebbe
sensibilmente la cerchia dei suoi ammiratori.
43 Mi rendo conto che la natura,
come ha infuso un amor proprio particolare nei singoli individui, ne ha
instillato uno comune a tutti i cittadini di ciascuna nazione, e starei per
dire di una stessa città. Di qui la pretesa degli Inglesi di primeggiare, oltre
che nel resto, sul piano della bellezza, della musica, delle laute mense; gli
Scozzesi vantano nobiltà, parentele regali, nonché dialettiche sottigliezze; i
Francesi rivendicano la raffinatezza dei costumi; i Parigini pretendono la
palma della scienza teologica vantandone un possesso quasi esclusivo; gli
Italiani affermano la loro superiorità nelle lettere e nell’eloquenza; e si
cullano tutti nella dolcissima convinzione di essere i soli non barbari fra i
mortali. Primi, in questo genere di felicità, sono i Romani, ancora immersi nei
bellissimi sogni dell’antica Roma; quanto ai Veneti, si beano del prestigio
della loro nobiltà. I Greci, quali inventori delle arti, si vantano delle
antiche glorie dei loro famosi eroi; i Turchi, e tutta quella massa di
autentici barbari, pretendono il primato anche in fatto di religione e quindi
deridono i cristiani come superstiziosi. Molto più gustoso è il caso degli
Ebrei che aspettano sempre incrollabili il proprio Messia, e ancor oggi si tengono
aggrappati al loro Mosè; gli Spagnoli non la cedono a nessuno in fatto di
gloria militare; i Tedeschi si compiacciono dell’alta statura e della
conoscenza della magia.
44 Senza andare dietro ai casi
particolari, vi rendete conto, penso, di quanto piacere venga dalla Filautìa
agli individui e ai mortali in genere. Le sta quasi alla pari la sorella
Adulazione.
La filautìa, infatti, consiste
nell’accarezzare se stessi; se si accarezza un altro, si tratta di adulazione.
Oggi, però, l’adulazione non gode buona fama; ma questo fra coloro per cui le
parole valgono più delle cose. Ritengono che l’adulazione non si può
accompagnare alla fedeltà, mentre potrebbero rendersi conto di quanto
sbagliano, solo se guardassero all’esempio che viene dalle bestie. Chi,
infatti, più adulatore del cane? e, al tempo stesso, chi più fedele? Chi è più
carezzevole dello scoiattolo? ma chi più di lui amico dell’uomo? A meno che non
si vogliano considerare più utili all’uomo i fieri leoni, e le crudeli tigri, o
i feroci leopardi. Anche se è vero che c’è una forma d’adulazione davvero
perniciosa con cui taluni, perfidamente beffando i poveri ingenui, li portano
alla rovina. Questa mia adulazione, invece, ha radice in un certo bonario
candore ed è molto più vicina alla virtù di quella durezza e severità ruvida e
stizzosa, di cui parla Orazio, e che si suole contrapporle. La mia adulazione rincuora
gli animi abbattuti, raddolcisce la tristezza, riscuote dall’inerzia, sveglia
gli ottusi, dà sollievo ai malati, mitiga i violenti, mette pace fra gli
innamorati e ne conserva la buona armonia. Attira i fanciulli allo studio delle
lettere, rallegra i vecchi, ammonisce ed ammaestra i prìncipi senza offenderli,
sotto specie di lodarli. Insomma, fa in modo che ciascuno sia di sé più
contento e a sé più caro, il che è parte della felicità, e addirittura la parte
più importante. Che cosa può esservi di più gentile di due muli che si grattano
a vicenda? Per non aggiungere che questa mia adulazione è una notevole parte
della celebrata eloquenza, e costituisce la parte maggiore della medicina;
della poesia poi è la componente massima. Ed è miele e condimento di tutte le
relazioni umane.
45 Ma è male, dicono, essere
ingannati; c’è molto di peggio: non essere ingannati. Sono, infatti, proprio
privi di buon senso quanti ripongono la felicità dell’uomo nelle cose stesse.
Essa dipende dal nostro modo di vederle. Infatti tale è l’oscurità e varietà
delle cose umane che niente si può sapere con chiarezza, come giustamente
affermano i miei Accademici, i meno presuntuosi dei filosofi.
Se poi qualcosa si può sapere,
spesso abbiamo poco da rallegrarcene. L’animo umano, infine, è fatto in modo
tale che la finzione lo domina molto più della verità. Chi ne volesse trovare
una prova facilmente accessibile, potrebbe andare in Chiesa a sentir prediche:
qui, se il discorso si fa serio, tutti sonnecchiano, sbadigliano, si annoiano.
Ma, se l’urlatore di turno (è stato un lapsus, volevo dire l’oratore), come
spesso succede, prende le mosse da qualche storiella da vecchierelle, tutti si
svegliano, si tirano su, stanno a sentire a bocca aperta. Del pari, se c’è un
Santo leggendario e poetico - per esempio San Giorgio, o San Cristoforo, o
Santa Barbara - lo vedrete venerare con molto maggiore pietà di San Pietro, e
San Paolo, e dello stesso Gesù Cristo. Ma di questo, qui non è il luogo. Costa
veramente poco conquistare la felicità illusoria che dicevo! Le cose vere,
anche le meno rilevanti, come la grammatica, costano tanta fatica. Un’opinione,
invece, costa così poco, e alla nostra felicità giova altrettanto, se non di
più. Se, per esempio, uno si ciba di pesce in salamoia andato a male, di cui un
altro neppure potrebbe sopportare il puzzo, mentre per lui sa d’ambrosia, di’
un po’, che cosa mai gl’impedisce di godersela? Al contrario, se a uno lo
storione dà la nausea, che razza di piacere ne trarrà? Se una moglie
decisamente brutta al marito sembra tale da poter gareggiare con la stessa
Venere, non sarà forse come se fosse bella davvero? Se uno contempla ammirato
una tavola impiastricciata di rosso e di giallo, persuaso di trovarsi davanti
ad un dipinto di Apelle o di Zeusi, non sarà forse più felice di chi ha
comprato a caro prezzo un’opera di quegli artisti per poi gustarla forse con
minore passione? Conosco un tale che si chiama come me, e che alla sposa
novella donò alcune gemme false facendogliele credere, con la parlantina che
aveva, non solo assolutamente vere, ma anche rare e di valore inestimabile.
Ditemi un po’, che differenza
c’era per la fanciulla, visto che quei pezzetti di vetro rallegravano
altrettanto i suoi occhi e il suo cuore, se conservava gelosamente presso di sé
delle sciocchezzuole di nessun valore come se fossero chissà qual tesoro? Il
marito, frattanto, evitava una spesa e godeva dell’illusione della moglie che
gli era grata come se avesse ricevuto doni di gran pregio.
Che differenza pensate vi sia fra
coloro che nella caverna di Platone contemplano le ombre e le immagini delle
varie cose, senza desideri, paghi della propria condizione, e il sapiente che,
uscito dalla caverna, vede le cose vere? Se il Micillo di Luciano avesse potuto
continuare a sognare in eterno il suo sogno di ricchezza, che motivo avrebbe
avuto di desiderare un’altra felicità? La condizione dei folli, perciò, non
differisce in nulla da quella dei savi, o, meglio, se in qualcosa differisce, è
preferibile. Innanzitutto perché la loro felicità costa ben poco: solo un
piccolo inganno di sé.
46 E poi perché ne godono insieme
con moltissimi, e "non c’è bene di cui si possa godere davvero se non si
ha qualcuno con cui dividerlo" (Seneca, "Epistuale morales"). E
chi non sa quanto pochi sono i sapienti, se pur qualcuno ve n’è? In tanti
secoli i Greci ne contano in tutto sette, e anche di questi, per Ercole, se si
andasse a guardare meglio, nessuno, ho paura, risulterebbe sapiente a metà, e
forse neppure per un terzo.
Perciò, se dei molti meriti di
Bacco giustamente si considera il più importante la capacità di scacciare gli
affanni, e anche questo solo finché, appena smaltita la sbornia, gli affanni
tornano all’assalto - come dicono, su bianchi destrieri - quanto più completo
ed efficace il mio beneficio per cui l’animo, in una ebbrezza perenne, senza
nessuna fatica, si riempie di gioia, di piaceri, di esultanza! Né lascio alcun
mortale privo del mio dono, mentre i doni degli altri Dèi vanno ora a questo
ora a quello.
Non sgorga dappertutto, a
scacciare gli affanni, un dolce vino generoso, fecondo di speranze.
A pochi la bellezza, dono di
Venere; meno ancora sono quelli a cui tocca l’eloquenza, dono di Mercurio; non
molti hanno in sorte, col favore di Ercole, le ricchezze, né il Giove omerico
concede a tutti l’imperio. Spesso Marte nega il suo appoggio ad entrambi i
contendenti. Parecchi lasciano il tripode di Apollo con la tristezza in cuore.
Il figlio di Saturno scaglia spesso i suoi fulmini; a volte Febo coi suoi dardi
diffonde la peste. Nettuno ne uccide più di quanti ne salva; per non menzionare
cotesti Veiovi, Plutoni, Sventure, Pene, Febbri, e simili, che non sono
divinità ma carnefici. Io, la Follia, sono la sola a stringere tutti ugualmente
in così generoso abbraccio.
47 Non voglio preghiere e non mi
sdegno per avere offerte espiatorie, se qualche particolare del cerimoniale è
stato trascurato. Se, quando tutti gli altri Dèi sono invitati, mi lasciano a
casa non permettendomi neanche di annusare il buon odore delle vittime, non ne
faccio una tragedia. Quanto agli altri Dèi, invece, sono così suscettibili che
quasi meglio sarebbe - senza dubbio sarebbe più prudente - lasciarli perdere
piuttosto che venerarli. Come certi uomini, così difficili ed irritabili, che è
preferibile non conoscerli affatto piuttosto che averli amici.
Nessuno, dicono, offre sacrifici
o innalza templi alla Follia. Di questa ingratitudine, come dicevo, un poco mi
stupisco, anche se poi, col buon carattere che mi ritrovo, ci passo sopra.
D’altronde onori del genere esulano dai miei desideri. Perché mai dovrei
desiderare un pugno di incenso, una focaccia, un becco o un porco, quando gli
uomini di tutto il mondo mi tributano un culto che persino dai teologi viene
tenuto nel massimo pregio! A meno che non debba mettermi ad invidiare Diana
perché riceve sacrifici di sangue umano! Io ritengo di essere venerata col
massimo della devozione quando tutti gli uomini, come di fatto succede, mi
hanno in cuore e modellano su di me i loro costumi, le loro regole di vita. Una
forma di culto che non è frequente neppure fra i cristiani.
Quanti sono, infatti, coloro che
accendono alla Vergine, madre di Dio, un candelotto, magari a mezzogiorno,
quando proprio non ce n’è bisogno! D’altra parte, quanto pochi cercano
d’imitarne la castità, la modestia, l’amore per il regno dei cieli! Mentre è
questo alla fine il vero culto, il più gradito agli abitatori del cielo.
Inoltre, perché mai dovrei desiderare un tempio, quando l’universo è il mio
tempio? e un gran bel tempio, se non erro. Né mi mancano i devoti, se non dove
mancano gli uomini. Né sono così sciocca da andare in cerca di statue di pietra
dipinte a colori, che spesso nuocciono al nostro culto perché i più ottusi
adorano le immagini invece delle divinità, mentre a noi capita quello che di
solito succede a quanti sono soppiantati dai loro rappresentanti. Io credo di
avere tante statue quanti sono gli uomini che, anche senza volere, mostrano nel
volto la mia immagine vivente. Non ho nulla da invidiare agli altri Dèi, se
vengono venerati chi in un cantuccio della terra chi in un altro, e solo in
giorni determinati, come Febo a Rodi, Venere a Cipro, Giunone ad Argo, Minerva
ad Atene, Giove sull’Olimpo, Nettuno a Taranto, Priapo a Lampsaco. A me il
mondo intero offre senza sosta vittime ben più pregiate.
48 Se qualcuno giudica questo mio
discorso più baldanzoso che veritiero, andiamo un po’ a vedere la vita stessa
degli uomini, per mettere in chiaro quanto mi devono, e in che conto mi
tengono, tanto i potenti come i poveri diavoli.
Non esamineremo la vita di uomini
qualunque, si andrebbe troppo per le lunghe, ma solo quella di personaggi
segnalati, da cui sarà facile giudicare gli altri. Che importa infatti parlare
del volgo e del popolino che, al di là di ogni discussione, mi appartiene senza
eccezioni? Tante, infatti, sono le forme di follia di cui da ogni parte il
popolo trabocca, tante ne inventa di giorno in giorno, che per riderne non
basterebbero mille Democriti, anche se poi, per quegli stessi Democriti, ci
vorrebbe ancora un altro Democrito. È quasi incredibile quanti motivi di riso,
di scherzo, di piacevole svago, i poveracci offrono agli Dèi. Agli Dèi che
dedicano le ore antimeridiane, quando ancora non sono ubriachi, a litigiose
discussioni e all’ascolto delle preghiere. Ma poi, quando sono ebbri di
nettare, e non hanno più voglia di attendere a faccende serie, seduti nella
parte più alta del cielo, si chinano a guardare cosa fanno gli uomini. Né c’è
spettacolo che gustino di più. Dio immortale! quello sì che è teatro! Che
varietà nel tumultuoso agitarsi dei pazzi! Io stessa, infatti, talvolta vado a
sedermi nelle file degli Dèi dei poeti. Questo si strugge d’amore per una
donnetta, e quanto meno è riamato tanto più ama senza speranza. Quello sposa la
dote e non la donna. Quell’altro prostituisce la sposa, mentre un altro ancora,
roso dalla gelosia, tiene gli occhi aperti come Argo. Quali spettacolari
sciocchezze dice e fa qualcuno in circostanze luttuose, arrivando a pagare dei
professionisti perché recitino la commedia del compianto! C’è chi piange sulla
tomba della matrigna, e chi spende tutto ciò che può racimolare per impinguarsi
il ventre, a rischio, magari, di ridursi in breve a morire di fame. Qualcuno
pone in cima ai suoi pensieri il sonno e l’ozio. C’è chi si prodiga con ogni
cura per gli affari degli altri mentre trascura i propri, e chi, preso nel
giuoco dei debiti, prossimo a fallire, si crede ricco del denaro altrui; un
altro pone all’apice della sua felicità morire povero pur di arricchire
l’erede. Questi per un guadagno modesto, e per giunta incerto, corre tutti i
mari, affidando la vita, che il denaro non ricompra, alle onde e ai venti;
quello preferisce cercare di arricchirsi in guerra piuttosto che starsene al
sicuro in casa sua. Ci sono di quelli che credono si possa arrivare alla ricchezza
senza la minima fatica andando a caccia di vecchi senza eredi; né manca chi, in
vista dello stesso risultato, opta per un legame con vecchiette danarose. Gli
uni e gli altri offrono agli Dèi che stanno a guardare uno spettacolo oltremodo
divertente, quando si fanno abbindolare proprio da coloro che vogliono
intrappolare. La razza più stolta e abietta è quella dei mercanti che, pur
trattando la più sordida delle faccende e nei modi più sordidi, pur mentendo,
spergiurando, rubando, frodando a tutto spiano, si credono da più degli altri
perché hanno le dita inanellate d’oro. Né mancano di adularli certi fraticelli
che li ammirano e li chiamano apertamente venerabili, senza dubbio perché una
piccola parte degli illeciti profitti vada a loro. Altrove puoi vedere dei
Pitagorici, a tal segno convinti della comunanza dei beni, che, se trovano
qualcosa d’incustodito, tranquillamente se ne appropriano come l’avessero
ricevuto in eredità. C’è chi, ricco solo di speranze, sogna la felicità, e già
questo sogno, per lui, è la felicità. Taluni si compiacciono di essere creduti
ricchi, mentre a casa loro muoiono di fame. Uno si affretta a dilapidare tutto
quello che possiede; un altro accumula con mezzi leciti e illeciti. Questo si
fa portare candidato perché ambisce a pubbliche cariche, quello è contento di
starsene accanto al fuoco. E sono tanti quelli che intentano interminabili
cause e che, portatori di opposti interessi, fanno a gara per arricchire il
giudice che accorda rinvii, e l’avvocato che è in combutta con la parte
avversa. Uno ha la mania di rinnovare il mondo, un altro propende per il
grandioso. C’è chi, senza nessuna ragione d’affari, lascia a casa moglie e
figli e se ne va a Gerusalemme, a Roma, a San Giacomo di Compostella.
Insomma, se, come una volta Menippo
dalla Luna, potessimo contemplare dall’alto gli uomini nel loro agitarsi senza
fine, crederemmo di vedere uno sciame di mosche e di zanzare in contrasto fra
loro, intente a combattersi, a tendersi tranelli, a rapinarsi a vicenda, a
scherzare, a giocare, nell’atto di nascere, di cadere, di morire. Si stenta a
credere che razza di terremoti e di tragedie può provocare un animaletto così
piccino e destinato a vita così breve. Infatti, di tanto in tanto, un’ondata
anche non grave di guerra o di pestilenza ne colpisce e ne distrugge migliaia e
migliaia.
49 Sarei io stessa un’autentica
pazza, e meriterei proprio di far ridere Democrito a più non posso, se
continuassi ad elencare tutte le forme di stolta pazzia proprie del volgo. Mi
rivolgerò a quelli che fra i mortali vestono l’abito della sapienza e, come si
dice, aspirano al famoso ramo d’oro.
Fra loro al primo posto stanno i
grammatici, che sarebbero per certo la genìa più calamitosa, più lugubre, più
invisa agli Dèi, se non ci fossi io a mitigare, con una dolce forma di follia,
i guai di quella infelicissima professione. Su di essi, infatti, non pesano
solo le cinque maledizioni di cui parla l’epigramma greco, ma tante, tante di
più: sempre affamati, sempre sporchi, se ne stanno nelle loro scuole, e le ho
chiamate scuole, ma avrei dovuto dire luoghi dove si lavora come schiavi,
camere di tortura; fra turbe di ragazzi invecchiano nella fatica; assordati
dagli schiamazzi, imputridiscono nel puzzo e nel sudiciume; tuttavia, per mio
beneficio, avviene che si ritengano i primi tra gli uomini. Sono così contenti
di sé, quando col volto truce e con la voce minacciosa atterriscono la
tremebonda folla degli alunni; quando le suonano a quei disgraziati con sferze,
verghe e scudisci, e in tutti i modi incrudeliscono a loro capriccio, a
imitazione del famoso asino di Cuma. Intanto, per loro, quel sudiciume è la
quintessenza del nitore, quel puzzo sa di maggiorana, quell’infelicissima
schiavitù è pari a un regno, a tal punto che rifiuterebbero di scambiare la
loro tirannide col potere di Falaride o di Dionigi. Ma anche più felici si
sentono per non so quale convinzione di essere dei dotti. Mentre ficcano in
testa ai ragazzi madornali sciocchezze, tuttavia, Dio buono, di fronte a chi,
Palemone o Donato che sia, non ostentano sprezzante superiorità? E con non so
quali trucchi riescono a meraviglia nell’intento di apparire al re sciocche
mammine e ai padri scemi pari all’opinione che hanno di sé.
C’è poi un’altra fonte di
piacere: quando uno di loro scova in un foglio ammuffito il nome della madre di
Anchise, o una paroletta di uso non comune, BUBSEQUA, BOVINATOR o MANTICULATOR,
o quando, scavando da qualche parte, tira fuori un frammento di antico sasso
che porta un’iscrizione mutila. O Giove, che esplosioni di gioia allora, che
trionfi, che elogi! come se avesse messo in ginocchio l’Africa, o espugnato
Babilonia! E che diremo di quando vanno sbandierando a tutto spiano i loro
insulsissimi versiciattoli, che non mancano peraltro di ammiratori? credono
ormai che lo spirito di Virgilio sia penetrato in loro. Ma la scena più divertente
si ha quando si scambiano lodi e complimenti, e a vicenda si danno una
lisciatina. Se poi uno di loro incappa in un lapsus, e un altro più avveduto
per caso se ne accorge, allora sì, per Ercole, che ne viene fuori una tragedia
a base di polemiche, di litigi, di ingiurie! Possano tutti i grammatici
volgersi contro di me, se mento.
Ho conosciuto una volta un tale,
dotto in svariati campi: sapeva di greco, di latino, di matematica, di
filosofia, di medicina, e questo a livello superiore. Ormai sessantenne, messo
da parte tutto il resto, da oltre vent’anni si tormenta sulla grammatica,
ritenendo di poter essere felice se vivrà abbastanza da stabilire con certezza
come vadano distinte le otto parti del discorso; finora nessuno, né dei Greci
né dei Latini, ci è riuscito pienamente. Di qui quasi un caso di guerra se uno
considera congiunzione una locuzione avverbiale. A questo modo, pur essendovi
tante grammatiche quanti grammatici, anzi di più se solo il mio amico Aldo
Manuzio ne ha pubblicate più di cinque, questo tale non tralascia di leggerne
ed esaminarne minuziosamente nessuna, per barbara o goffa che sia nello stile.
Guarda infatti con sospetto chiunque faccia in materia un tentativo, sia pure
insignificante, attanagliato com’è dalla paura che qualcuno lo privi della
gloria, rendendo vane così annose fatiche. Preferite chiamarla follia o
stoltezza? A me poco importa, purché siate disposti a riconoscere che, per mio
beneficio, l’animale più infelice di tutti può attingere tale una felicità da
non volere scambiare la propria sorte neppure con quella dei re persiani.
50 Meno mi devono i poeti, che
pure appartengono apertamente alle mie schiere, libera schiatta come sono,
secondo il proverbio, tutti presi dall’impegno di sedurre l’orecchio dei pazzi
con autentiche sciocchezze e storielle risibili. Fidando in questi mezzi,
mirabile a dirsi, promettono immortalità e divina beatitudine a se stessi e
anche agli altri. A costoro soprattutto sono legate Filautìa e Kolakìa, che da
nessun’altra stirpe mortale ricevono un culto altrettanto schietto e costante.
Quanto ai retori, benché prevarichino un poco con la complicità dei filosofi,
fanno parte anche loro della nostra confraternita. Molte cose lo dimostrano, ma
una in primo luogo: che, a parte le altre sciocchezze, tanto hanno scritto e
con tanto impegno a proposito dell’arte di scherzare. E l’autore, chiunque esso
sia, della RETORICA AD ERENNIO, annovera la follia tra le varietà di facezie;
Quintiliano poi, che in questo campo è di gran lunga il migliore, ci ha dato
sul riso un capitolo più lungo dell’ILIADE. Tanto essi valorizzano la follia
che spesso quando sono a corto d’argomenti, cercano una scappatoia nel riso. A
meno di negare che sia proprio della follia suscitare ad arte pazze risate
dicendo cose che appunto, fanno ridere.
Nella stessa schiera rientrano
quelli che aspirano a fama immortale pubblicando libri. Mi devono tutti
moltissimo, ma in particolare coloro che imbrattano i fogli con autentiche
sciocchezze. Gli eruditi, infatti, che scrivono per pochi dotti, e che non
rifiutano per giudici né Persio né Lelio, a me non sembrano punto felici, ma
piuttosto degni di pietà, perché senza posa si arrovellano a fare giunte,
mutamenti, tagli, sostituzioni. Riprendono, limano; chiedono pareri; lavorano a
una cosa anche per nove anni, e non sono mai contenti; a così caro prezzo
comprano un premio da nulla quale è la lode, e lode di pochissimi, per di più:
la pagano con tante veglie, con tanto spreco di sonno - il sonno, la più dolce
delle cose! - con tanta fatica, con tanto sacrificio.
Aggiungi il danno della salute,
la bellezza che se ne va, il calo della vista, o addirittura la cecità, la
povertà, l’invidia degli altri, la rinuncia ai piaceri, la senescenza precoce,
la morte prematura; e chi più ne ha, più ne metta. Il sapiente crede che ne
valga la pena: mali sì gravi in cambio del plauso di uno o due cisposi. Quanto
più felice il delirio dello scrittore mio seguace quando, senza starci punto a
pensare, solo col modico spreco di un po’ di carta, seguendo l’ispirazione del
momento, traduce prontamente in scrittura tutto quanto gli passa per la testa,
anche i sogni, sapendo che più sciocche saranno le sciocchezze che scrive, e
più troverà consenso nella maggioranza, cioè in tutti gli stolti e ignoranti.
Che importa il disprezzo di tre dotti, ammesso che le leggano? e che peso può
avere il giudizio di così pochi sapienti, se a contrastarlo c’è una folla così
sconfinata? Ma ancora più avveduti si rivelano coloro che pubblicano,
spacciandoli per propri, gli scritti altrui e valendosi dell’apparenza
trasferiscono sulla propria persona una gloria che è frutto del faticoso
impegno d’altri; fidano su questo, che se anche saranno accusati di plagio,
tuttavia, per qualche tempo, avranno tratto vantaggio dall’inganno.
Vale la pena di vedere come sono
soddisfatti di sé quando la gente li elogia, quando li segna a dito nella
folla: "E lui! lo scrittore famoso!"; quando i loro libri stanno in
mostra in libreria, quando in cima a ogni pagina si leggono quei tre nomi, soprattutto
se stranieri e con un sapore di magia. Ma cosa sono poi, buon Dio, se non dei
nomi? E quanto pochi saranno a conoscerli, se si pensa a quant’è grande il
mondo; e meno ancora, poi, saranno a lodarli, perché anche gli ignoranti hanno
gusti diversi. Che dite degli stessi nomi, non di rado fittizi e tratti dai
libri degli antichi? Chi si compiace di chiamarsi Telemaco, chi Steleno o
Laerte; chi Policrate e chi Trasimaco, tanto che ormai potremmo benissimo
chiamarli camaleonte o zucca, oppure indicare i libri con le lettere
dell’alfabeto, secondo l’uso dei filosofi.
Eppure più di tutto diverte
vederli, sciocchi e ignoranti come sono, impegnati a scambiare con altri,
sciocchi e ignoranti come loro, lettere e versi elogiativi, encomi. In questi
scambi di lodi, chi diventa un Alceo e chi un Callimaco; chi è superiore a
Cicerone e chi più dotto di Platone. A volte, per accrescere nella gara la loro
fama, creano un avversario, e "il pubblico, incerto, non sa quale partito
prendere", finché ne escono tutti vittoriosi e lasciano il campo da
trionfatori.
I saggi ridono di queste cose
come di solenni sciocchezze, e tali sono. Chi lo nega? Ma intanto, per merito
mio, quelli se la godono e non scambierebbero i loro trionfi neppure con quelli
degli Scipioni. Gli stessi dotti, del resto, mentre ridono divertendosi un
mondo e godono della follia altrui, contraggono anch’essi con me un gran
debito; né possono negarlo, se non sono proprio degl’ingrati.
51 Fra gli eruditi il primo posto
spetta ai giureconsulti, e nessuno più di loro è soddisfatto di sé quando,
impegnati in una fatica di Sisifo, formulano leggi a migliaia, non importa a
qual proposito, e aggiungendo glosse a glosse, pareri a pareri, fanno in modo
da presentare lo studio del diritto come il più difficile fra tutti. Attribuiscono
infatti titolo di nobiltà a tutto ciò che costa fatica.
Accanto ai giuristi collochiamo i
dialettici e i sofisti, una genìa più loquace dei bronzi di Dodona: uno
qualunque di loro potrebbe gareggiare in fatto di chiacchiera con venti donne di
prima scelta. Meglio per loro sarebbe, se fossero soltanto chiacchieroni, e non
anche litigiosi al punto di polemizzare con estrema tenacia per questioni di
lana caprina e da trascurare spesso, nella foga della contesa, i diritti della
verità. Pieni di sé come sono, godono ugualmente quando, armati di tre
sillogismi, non esitano ad attaccare lite con chiunque, a qualunque proposito.
Del resto la loro pertinacia li rende invincibili, anche se il loro avversario
è uno Stentore.
52 E poi ci sono i filosofi,
venerandi per barba e mantello: affermano di essere i soli sapienti; tutti gli
altri sono soltanto ombre inquiete. Ma com’è bello il loro delirio quando
costruiscono mondi innumerevoli; quando misurano, quasi col pollice e il filo,
il sole, la luna, le stelle, le sfere; quando rendono ragione dei fulmini, dei
venti, delle eclissi e degli altri fenomeni inesplicabili, senza la minima
esitazione, come se fossero a parte dei segreti della natura artefice delle
cose, come se venissero a noi dal consiglio degli Dèi! La natura, intanto, si
fa le grandi risate su di loro e sulle loro ipotesi. A dimostrare che nulla
sanno con certezza, basterebbe quel loro polemizzare sulla spiegazione di ogni
singolo fenomeno. Loro, pur non sapendo nulla, affermano di sapere tutto; non
conoscendo se stessi e non accorgendosi, a volte, della buca o del sasso che
hanno sotto il naso, o perché in molti casi ci vedono poco, o perché sono
altrove con la testa, sostengono di vedere idee, universali, forme separate,
materie prime, quiddità, ecceità, e cose tanto sottili da sfuggire, credo,
persino agli occhi di Linceo. Disprezzano in particolare il profano volgo,
quando confondono le idee agli ignoranti con triangoli, quadrati, circoli, e
figure geometriche siffatte, disposte le une sulle altre a formare una specie
di labirinto, e poi con lettere collocate quasi in ordine di battaglia e
variamente manovrate. Né mancano, fra loro, quelli che, consultando gli astri,
predicono l’avvenire promettendo miracoli che vanno al di là della magia; e, beati
loro, trovano anche chi ci crede.
53 Quanto ai teologi, forse
meglio farei a non parlarne, evitando di suscitare un vespaio e di toccare
quest’erba puzzolente, perché, altezzosi e litigiosi come sono, non abbiano ad
assalirmi a schiere con centinaia di argomenti, costringendomi a fare ammenda.
Se mi rifiutassi, mi accuserebbero senz’altro di eresia, questo essendo il
fulmine con cui di solito atterriscono chi non gode le loro simpatie. Eppure,
ancorché siano i meno propensi a riconoscere i miei meriti nei loro confronti,
anche loro, e di non poco, mi sono debitori. Infatti devono a me quell’alta
opinione di sé che li rende felici, come se il terzo cielo fosse la loro
dimora, e li induce a guardare dall’alto in basso con una sorta di
commiserazione tutti gli altri mortali, quasi animali che strisciano a terra,
mentre loro, trincerati dietro un valido esercito di magistrali definizioni,
conclusioni, corollari, proposizioni esplicite ed implicite, a tal segno
abbondano di scappatoie da poter sfuggire anche alle reti di Vulcano con
distinzioni che recidono ogni nodo con una facilità che neppure la bipenne di
Tenedo possiede, inesauribili nel coniare termini nuovi e parole rare. Spiegano
inoltre, a modo loro, gli arcani misteri, i criteri che sono a base della
creazione e dell’ordinamento del mondo; per quali vie la macchia del peccato si
è trasmessa di generazione in generazione; in che modo, in che misura e in
quanto tempo Cristo si è formato nel grembo della Vergine; come nell’Eucaristia
ci possono essere gli accidenti senza la materia. Ma queste sono cose risapute.
Altre le questioni che ritengono degne dei teologi grandi e illuminati - così
li chiamano. Quando se le trovano di fronte si esaltano:
"Qual è l’istante della
generazione divina? ci sono più filiazioni in Cristo? è sostenibile la
proposizione "Dio Padre odia il Figlio"? avrebbe potuto Dio assumere
figura di donna, di demonio, di asino, di zucca, di pietra? In caso affermativo,
come la zucca avrebbe potuto predicare, fare miracoli, essere messa in croce?
che cosa avrebbe consacrato Pietro, se avesse consacrato mentre Cristo pendeva
dalla croce? e poteva Cristo, in quel medesimo tempo, essere chiamato uomo?
Infine, dopo la resurrezione, potremo mangiare e bere?". Della fame e
della sete, infatti, costoro si preoccupano fino da ora. Innumerevoli poi le
sottigliezze, anche molto più sottili di queste, circa le nozioni, le
relazioni, le formalità, le quiddità, le ecceità, che sfuggirebbero agli occhi
di tutti, fatta eccezione di un novello Linceo capace di vedere nelle tenebre
più profonde anche le cose che non sono in nessun luogo. Aggiungi sentenze così
paradossali che i famosi oracoli stoici, detti appunto paradossi, sembrano al
confronto luoghi comuni dei più rozzi e banali. Per esempio, che accomodare una
volta la scarpa di un povero nel giorno del Signore è delitto più grave che
strangolare mille uomini; che dire una volta tanto una sola bugia, per quanto
piccina, è più grave che lasciare andare in malora il mondo intero con tutta la
sua dovizia di cose utili e belle. A rendere ancora più sottili queste
sottilissime sottigliezze ci sono le tante vie battute dagli scolastici, ché
usciresti prima dai labirinti che non dalle oscure tortuosità di realisti,
nominalisti, tomisti, albertisti, occamisti, scotisti; e non ho nominato tutte
le scuole, ma solo le principali.
In tutte c’è tanta erudizione,
tanta astrusità, che, secondo me, persino gli Apostoli, se si trovassero a
dover discutere con questi teologi di nuovo genere, avrebbero bisogno di un
secondo Spirito Santo. Paolo poté dimostrare la sua fede, ma quando dice che
"la fede è sostanza di cose sperate, e argomento delle non parventi",
dà una definizione manchevole dal punto di vista dottrinale. Proprio Paolo, che
in modo eccellente fece professione di carità, ne dette, nel capitolo
tredicesimo della prima epistola ai Corinzi, un’analisi ed una definizione
difettose in sede dialettica. Gli Apostoli, certamente, celebravano
l’Eucaristia con la dovuta pietà. Non credo però che, interrogati sul termine A
QUO e sul termine AD QUEM, sulla transubstanziazione, sull’ubiquità di un
medesimo corpo; sulla differenza tra il corpo di Cristo in cielo, sulla croce e
nel sacramento dell’Eucaristia; sull’istante in cui avviene la
transubstanziazione, dovuta com’è ad una formula composta di più parole
distinte, e quindi a una quantità discreta in divenire: non credo, ripeto, non
credo che, nel discutere e nel definire, gli Apostoli avrebbero raggiunto la
sottigliezza degli scotisti.
Avevano conosciuto la madre di
Gesù; ma chi di loro dimostrò, con l’ineccepibile metodo filosofico dei nostri
teologi, come rimase immune dalla macchia del peccato di Adamo? Pietro ha
ricevuto le chiavi, e le ha ricevute da colui che non le darebbe a un indegno;
e tuttavia non so se avrebbe capito - certo non ne ha mai colto la sottigliezza
- la questione del come possa possedere la chiave della scienza anche chi non
ha la scienza. Gli Apostoli battezzavano in ogni luogo; tuttavia non hanno mai
insegnato quale sia la causa formale, materiale, efficiente e finale del
battesimo, né mai hanno fatto menzione del suo carattere delebile e indelebile.
Gli Apostoli adoravano, sì, Dio, ma in spirito, attenendosi unicamente al
principio evangelico: "Dio è spirito, e chi lo adora deve adorarlo in
spirito e verità". Non pare tuttavia sia stato ad essi ben chiaro che
dobbiamo adorare Cristo allo stesso modo, sia in persona che in una sua
immagine scarabocchiata col carbone sul muro, purché vi appaia con due dita
levate, i capelli lunghi e tre raggi nell’aureola che gli cinge la nuca. Come
si possono cogliere queste finezze, se prima non ci si è dedicati anima e
corpo, per almeno trentasei anni, alla fisica e alla metafisica di Aristotele e
di Duns Scoto? Allo stesso modo gli Apostoli parlano della grazia, ma non fanno
mai distinzione fra grazia gratuita e grazia gratificante. Esortano alle opere
buone, ma non distinguono fra opera operante e opera operata. Dappertutto
insistono sulla carità, ma non distinguono fra carità infusa e carità
acquisita, né spiegano se sia sostanza o accidente, cosa creata o increata.
Detestano il peccato, ma possa io morire se sono riusciti a definire cosa sia
quello che diciamo peccato; per questo avrebbero dovuto formarsi alla scuola
degli scotisti. L’insegnamento di Paolo può essere preso come punto di
riferimento per giudicare di tutti gli Apostoli; ebbene, io non potrei mai
indurmi a credere che egli avrebbe così spesso condannato le questioni, le
discussioni, le genealogie e quelle che chiamava logomachìe, se fosse stato un
esperto nell’argomentare. E sì che le dispute dei suoi tempi erano senz’altro
roba da ridere in confronto alle sottigliezze dei nostri maestri che potrebbero
dare punti a Crisippo.
Anche se poi questi maestri,
nella loro grande modestia, quando gli Apostoli hanno scritto una cosa in forma
disadorna, e, certo, non magistrale, non la condannano, ma ne offrono
un’accettabile interpretazione Quest’onore tributano in parte all’antichità, in
parte all’autorità degli Apostoli. Del resto, sarebbe stata, per Ercole, una
bella ingiustizia pretendere la conoscenza di cose tanto difficili da chi non
ne aveva mai sentito far parola dal maestro. Se però la cosa si verifica in
Crisostomo, in Basilio, in Girolamo, ritengono sia sufficiente annotare:
"affermazione respinta". Eppure si tratta di autori che confutarono i
pagani, i filosofi, gli ebrei, per loro natura ostinatissimi; lo fecero con la
vita e coi miracoli più che con i sillogismi. D’altra parte nessuno dei loro
avversari sarebbe stato in grado di capire neppure una delle "questioni
quodlibetali" di Scoto. Al giorno d’oggi, qual mai pagano, qual mai
eretico non si darebbe senz’altro per vinto di fronte a tante capillari
sottigliezze? Bisognerebbe fosse tanto ignorante da non capirci nulla, o tanto
privo di ritegno da scoppiare in sconce risate; o, infine, così esperto in quei
medesimi cavilli da combattere ad armi pari: un mago di fronte a un mago, o un
duello fra due avversari armati entrambi di una spada incantata: tutto si
ridurrebbe a tessere e ritessere la tela di Penelope. Secondo me i cristiani
darebbero prova di un gran buon senso se, invece delle rozze armate che ormai
da un pezzo combattono con esito incerto, inviassero contro i Turchi gli
scotisti coi loro grandi schiamazzi, gli occamisti così ostinati, gl’invitti
albertisti, e con essi l’intera banda dei sofisti: assisterebbero, credo, alla
più divertente delle battaglie e a una vittoria mai vista prima. Chi, infatti,
potrebbe essere tanto freddo da resistere ai loro strali infuocati? chi tanto
torpido da non esserne stimolato? chi tanto avveduto da non restarne accecato?
Ma voi credete che i miei siano
tutti scherzi. Posso capirlo: anche fra i teologi ve ne è di più dotti, che
tengono a vile queste arguzie teologiche giudicandole futili. Ve ne sono che
considerano un sacrilegio esecrando, e il massimo dell’empietà, parlare con
linguaggio così volgare di cose tanto misteriose, oggetto d’adorazione più che
di spiegazione; discuterne usando il profano argomentare dei pagani; definirle
con tanta presunzione, e infangare la maestà della divina teologia con parole e
concetti così poveri e addirittura sordidi.
Nel frattempo, però, gli altri
rimangono pieni di sé, addirittura si battono le mani, e dediti notte e giorno
alle loro piacevolissime cantilene non trovano neppure un minuto per leggere
almeno una volta il Vangelo o le lettere di san Paolo. E, mentre nelle scuole
vanno propinando ai discepoli simili sciocchezze, credono di essere loro a
salvare da certa rovina la Chiesa universale sostenendola con la forza dei loro
sillogismi, come il mitico Atlante sosteneva con le spalle il mondo. E vi pare
poco gratificante por mano ai misteri delle Scritture plasmandole a piacere,
ora in questa ora in quella guisa, come fossero cera? Esigere che le proprie
conclusioni, già accettate da un certo numero di scolastici, siano ritenute più
importanti delle leggi di Solone e addirittura da anteporre ai decreti dei
pontefici? Se poi qualcosa non coincide a capello con le loro conclusioni
esplicite e implicite, come fossero i censori del mondo, ne impongono la
ritrattazione e, come se parlasse l’oracolo, sentenziano: "Proposizione
scandalosa"; "proposizione irriverente"; "questa odora di
eresia"; "questa suona male". Per fare un cristiano non basta
più il battesimo, né il Vangelo, né Pietro, né Paolo, né san Girolamo, né
sant’Agostino; addirittura non basta neppure Tommaso, il principe degli
aristotelici. Ci vuole anche il voto di questi baccellieri, così sottili nel
giudicare. Chi, infatti, senza l’insegnamento di questi sapienti, si sarebbe
mai accorto che non era cristiano chi riteneva ugualmente corrette queste due
proposizioni: "vaso da notte, tu puzzi" e "il vaso da notte
puzza"; oppure: "bolle la pentola" e "la pentola bolle"?
Chi avrebbe liberato la Chiesa da
così gravi errori, di cui nessuno si sarebbe mai accorto, se costoro non li
avessero denunciati col sigillo della loro alta autorità? E non saranno al
colmo della gioia mentre fanno tutto ciò? o quando ritraggono con molta
esattezza il mondo infernale come se per molti anni fossero stati cittadini di
quella repubblica? o quando fabbricano a capriccio nuove sfere celesti,
creandone infine una più grande di tutte, più bella, perché le anime beate
abbiano agio di passeggiarvi, di banchettare e anche di giocare a palla? A tal
segno la loro testa è infarcita di una miriade di sciocchezze del genere che,
secondo me, nemmeno quella di Giove era così gonfia quando, sul punto di
partorire Minerva, chiese a Vulcano di tirare un bel colpo di scure. Perciò non
vi stupite quando nelle pubbliche dispute li vedete con la testa così
accuratamente imberrettata: se no, scoppierebbe.
A volte, anch’io rido del fatto
che, quanto più il loro linguaggio è barbaro e rozzo, tanto più si credono
grandi teologi, e in quel balbettare, comprensibile solo da un altro
balbuziente, loro chiamano finezza d’ingegno quello che la gente non capisce.
Negano infatti che sia compatibile con la dignità delle sacre lettere
sottomettersi alle leggi della grammatica. Mirabile maestà, invero, quella dei
teologi, se a loro soli è lecito costellare di spropositi il discorso, anche se
poi hanno in comune questo privilegio con molti ignoranti. Infine si ritengono
ormai vicinissimi agli Dèi quando vengono salutati con venerazione quasi
religiosa, e chiamati maestri nostri. Credono presente in quell’appellativo
qualcosa di simile al tetragramma degli ebrei. Perciò considerano un’empietà
non scrivere "Magister noster" tutto in lettere maiuscole. Se poi
qualcuno, invertendo, dicesse "noster Magister", di colpo
annullerebbe la maestà del nome teologico.
54 Quasi altrettanto felici, sono
quelli che comunemente si fanno chiamare religiosi e monaci, usando, in
entrambi i casi, denominazioni quanto mai false. Per buona parte, infatti, sono
mille miglia lontani dalla religione; e nessuno s’incontra in giro più di
questi pretesi solitari. Non vedo che cosa potrebbe esserci di più miserando di
loro, se non ci fossi io a soccorrerli in tanti modi. Perché, pur essendo
questa genìa a tal segno detestata da tutti, che persino un incontro casuale
con qualcuno di loro è ritenuto di malaugurio, si cullano tuttavia
nell’illusione di essere chissà che cosa. In primo luogo ritengono che il
massimo della pietà consista nell’essere tanto ignoranti da non sapere neppur
leggere. Poi, quando con la loro voce asinina ragliano i loro salmi, di cui
sono in grado di indicare a memoria il numero d’ordine senza peraltro capirli,
sono convinti d’accarezzare in modo dolcissimo le orecchie degli Dèi. Neppure
mancano quelli che vendono a caro prezzo il loro sudiciume e l’andare in giro
mendicando: dinanzi alle porte chiedono il pane emettendo muggiti lamentosi;
non c’è albergo, non veicolo o nave in cui non portino scompiglio con non
piccolo danno degli altri mendicanti. Cosi, queste carissime persone, dicono di
darci un’immagine degli Apostoli con la loro sporcizia, ignoranza, rozzezza,
impudenza.
E cosa c’è di più divertente del
loro fare tutto secondo una regola, quasi in base a un calcolo matematico che sarebbe
delittuoso violare? Quanti nodi deve avere il sandalo; di che colore deve
essere il cordone; quale il modello della veste; di cosa deve essere fatta, e
di quale larghezza la cintura; di che tipo e di che capacità il cappuccio;
quale la precisa misura della chierica; quante ore vanno concesse al sonno?
Eppure, quanta diversità, chi non lo vede, in questa uguaglianza imposta a
corpi e temperamenti così vari! Tuttavia, per queste sciocchezzuole, non solo
si considerano superiori agli altri, ma anche fra di loro si disprezzano a
vicenda e, pur professando la carità apostolica, fanno un’autentica tragedia di
una cintura diversa o di un colore un po’ più scuro. Ne potresti vedere di così
rigidamente attaccati alla regola da portare esclusivamente vesti di lana di
Cilicia, e biancheria di lino di Mileto; altri, al contrario, portano vesti di
lino e biancheria di lana. C’è chi, odiando toccare il danaro come fosse
veleno, non si astiene comunque né dal vino né dalle donne. Infine, mirabile in
tutti, la cura di non avere nulla in comune quanto a regola di vita, e questo,
non nell’intento di guardare a Cristo, ma per distinguersi tra di loro.
Buona parte della loro
soddisfazione deriva dai nomi: gli uni si compiacciono del nome di Cordiglieri,
distinti in Coletani, Minori, Minimi, Bollisti; altri godono del nome di
Benedettini, o di Bernardini; questi di Brigidensi, quelli di Agostiniani; gli
uni tengono alla denominazione di Guglielmiti, altri di Giacobiti, come se
chiamarsi Cristiani fosse troppo poco. Gran parte di costoro, a tal punto dà
peso alle proprie cerimonie e a minute tradizioni umane, da ritenere che un
solo cielo non sia premio adeguato a meriti così grandi; e non pensano che
Cristo, non facendo alcun conto del resto, chiederà loro se hanno osservato il
suo unico precetto: la carità. Allora uno esibirà il pancione gonfio di pesci
d’ogni specie; un altro rovescerà al suo cospetto centinaia di moggi di salmi.
Un altro ancora farà il conto degli infiniti digiuni; se poi tante volte ha
rischiato di scoppiare, è stato per quell’unico pasto che si concedeva... dopo.
Altri ancora mostrerà il mucchio delle cerimonie a cui ha partecipato, tanto
greve che a malapena potrebbero trasportarlo sette navi da carico. Qualcuno si
vanterà di avere oltrepassato i sessant’anni senza toccare denaro, se non con
le mani protette da due paia di guanti. Chi produrrà la cocolla tanto sporca e
grassa che neanche un marinaio se ne gioverebbe. Chi ricorderà di avere fatto
per più di undici anni la vita dell’ostrica, sempre attaccato allo stesso
luogo; e chi si farà un merito della voce divenuta rauca per l’ininterrotto
cantare, o del rimbecillimento derivato dalla vita solitaria; altri ancora
della lingua resa torpida dal voto del silenzio. Ma Cristo, interrompendo
queste vanterie che altrimenti rischierebbero di non finire più, "Di dove
viene, dirà, questa nuova schiatta di Giudei? Riconosco per mia una legge sola,
e solo di questa non si fa parola. Pure, una volta, con aperto linguaggio, e
non in forma di parabola, ho promesso l’eredità del padre mio non alle cocolle,
non alle giaculatorie ed ai digiuni, ma alle opere di carità. Non conosco
questa gente che esalta continuamente i propri meriti; dato che vorrebbero
sembrare anche più santi di me, occupino, se vogliono, i cieli dei seguaci di
Abraxas, o si facciano edificare un nuovo cielo da coloro le cui meschine
tradizioni anteposero ai miei precetti".
Quando sentiranno queste parole,
e si vedranno preferire marinai e aurighi, con che faccia credete che si
guarderanno a vicenda?
Nel frattempo si beano della loro
speranza, e non senza mio merito. E poi, benché lontani dalla vita pubblica,
nessuno osa disprezzarli, i mendicanti in particolare, perché attraverso la
cosiddetta confessione conoscono senza eccezione i segreti di tutti. Rivelarli,
tuttavia, secondo loro, è peccato, salvo dopo una bevuta, quando vogliono
dilettarsi di qualche racconto più divertente; ma anche allora raccontano i
fatti solo in via ipotetica, senza far nomi. Se però qualcuno irrita questi
calabroni, predicando al popolo, se ne vendicano a misura di carbone, e bollano
il nemico con allusioni tanto scoperte da essere capite da tutti, salvo da chi
non capisce proprio nulla. Né la smettono di latrare, se prima non gli hai
gettato il boccone in bocca.
Eppure, quale commediante, quale
ciarlatano andresti a vedere a preferenza di costoro, quando nella predica
s’esibiscono in tirate retoriche che, pur nella loro assoluta ridicolaggine,
s’attengono nel modo più spassoso alle norme sull’arte del dire tramandate dai
maestri? Dio immortale! come gesticolano! E come cambiano voce! E come
canterellano! Come si spenzolano verso l’uditorio e come mutano espressione!
come punteggiano tutto con urla! Quest’arte oratoria viene trasmessa come un
segreto da un fraticello all’altro: sebbene non mi sia concesso di venirne a
conoscenza, tenterò comunque di procedere per congetture.
Scimmiottando i poeti, cominciano
con un’invocazione. Poi, se devono parlare, poniamo, della carità, prendono le
mosse dal Nilo, fiume d’Egitto. Se invece devono trattare del mistero della
Croce, prendono opportunamente gli auspici da Bel, drago di Babilonia. Se si
preparano a predicare sul digiuno, si rifanno ai dodici segni dello Zodiaco e,
se l’oggetto del loro discorso è la fede, premettono una lunga introduzione
sulla quadratura del cerchio. Ho sentito con le mie orecchie un esimio stupido,
scusate, volevo dire dotto, che, in una predica famosissima, dovendo spiegare
il mistero della Trinità, volendo fare cosa che suonasse gradita all’orecchio
dei teologi, e mettere al tempo stesso in mostra la sua non comune dottrina, si
dette a battere una strada affatto nuova. Partì dalle lettere dell’alfabeto,
dalle sillabe, dal discorso, dalla concordanza del nome col verbo e
dell’aggettivo col sostantivo, tra la meraviglia dei più, anche se non mancava
qualcuno che borbottava tra sé le parole d’Orazio: "ma a cosa approdano
queste scemenze?". Finalmente arrivò al punto di dimostrare che l’immagine
di tutta la Trinità scaturisce dai rudimenti grammaticali in modo tale che
nessun matematico potrebbe disegnarla con più evidenza nella polvere. E nel
comporre questa orazione, quel teologo principe per otto mesi interi aveva
faticato tanto, che anche oggi è più cieco di una talpa, senza dubbio per avere
consumato tutta la forza degli occhi nella suprema tensione della mente. Eppure
non si lamenta della cecità: crede anzi di avere raggiunto il successo con poca
spesa.
Ho ascoltato un altro
ottuagenario, un teologo di tale statura che lo avresti detto Duns Scoto
redivivo. Dovendo spiegare il mistero del nome di Gesù, con mirabile
sottigliezza dimostrò che tutto quanto se ne poteva dire era nascosto nelle
lettere stesse che lo componevano. Perché il fatto che la sua declinazione
abbia tre casi soli è segno manifesto della divina Trinità. Il mistero
ineffabile poi, sta nel fatto che il primo caso, JESUS, termina in S, il
secondo, JESUM, in M, il terzo, JESU, in U: quelle tre lettere significano che
è sommo, medio e ultimo. Restava un mistero anche più ostico, da risolversi col
calcolo matematico. Divise la parola Jesus in due parti uguali, in modo che una
lettera, in mezzo, restasse divisa in due. Disse che quella lettera per gli
Ebrei è SYN, che in lingua scozzese, credo, voglia dire peccato: di qui risulta
manifesto che Gesù è colui che redime il mondo dai peccati. Per l’originalità
dell’esordio tutti rimasero a bocca aperta, i teologi in particolare, sì che
per poco non toccò loro la sorte di Niobe; mentre a me quasi successe come al
Priapo di legno di fico che, con suo grave danno, si trovò ad assistere ai riti
notturni di Canidia e di Sagana. E non a torto. Infatti, quando mai il greco
Demostene, o il latino Cicerone, sono andati ad escogitare un simile esordio?
Essi ritenevano difettoso un proemio che troppo si scostasse dal tema: neanche
i bifolchi, che hanno la natura per guida, esordiscono così. Ma questi dotti
ritengono che il loro preambolo - così lo chiamano - raggiunga il massimo della
potenza retorica quando proprio non ha nulla a che fare col resto del discorso,
tanto che chi ascolta meravigliato finisce col dire tra sé: "ma dove si va
a finire?". In terzo luogo commentano, tirandone fuori un raccontino,
qualche breve passo del Vangelo, ma frettolosamente e quasi incidentalmente,
mentre questo solo era il punto da sviluppare. In quarto luogo, cambiando parte
in commedia, sollevano un problema teologale, che talvolta non sta né in cielo
né in terra. Anche questo ritengono conforme alle regole dell’arte. Qui
finalmente assumono piglio teologico, riempiendo gli orecchi degli ascoltatori
di famosi nomi di dottori solenni, dottori sottili, dottori sottilissimi,
dottori serafici, dottori santi, dottori irrefragabili. Allora sbandierano
davanti ad una folla ignorante sillogismi, maggiori, minori, conclusioni,
corollari, supposizioni e altre sciocchezze prive di mordente e decisamente
scolastiche. Resta ormai il quinto atto, in cui l’artista deve rivelarsi in
tutta la sua bravura. A questo punto tirano in ballo una qualche rozza e
sciocca storiella, tolta, penso, dallo SPECULUM HISTORIALE o dai GESTA
ROMANORUM, e ne offrono un’interpretazione allegorica, tropologica, ed
anagogica. Così portano a compimento la loro Chimera, qualcosa che neppure
Orazio riusciva a immaginare quando scriveva: "aggiungete ad una testa
d’uomo, ecc.".
Da non so chi, hanno poi sentito
dire che l’inizio dell’orazione deve essere basso di tono. Perciò cominciano
con una voce così bassa che neanche loro la sentono, come se il parlare
servisse quando nessuno capisce. Hanno anche imparato che, a volte, per
suscitare emozioni, è opportuno erompere in un grido. Perciò, a metà di un
discorso concitato, all’improvviso si mettono a strillare furiosamente, senza
il minimo bisogno. Quegli scoppi di voce che nulla giustifica ti farebbero
giurare di trovarti davanti a casi da trattare con l’elleboro. Inoltre, avendo
appreso che il discorso deve animarsi via via che procede, quando, bene o male,
hanno esaurito l’inizio delle singole parti, a un tratto adottano un tono
appassionato, anche se l’argomento è dei meno interessanti, e finiscono col
concludere dando l’impressione di essere esausti.
Avendo infine imparato che i
retori parlano del ridere, anche loro si sforzano di introdurre qualche battuta
scherzosa, con una tale grazia, per Venere, con un tale senso d’opportunità, da
farti dire che sono come l’asino davanti alla lira. Talvolta mordono anche, ma
in modo da provocare più solletico che ferite. Né riescono mai ad adulare
meglio di quando fanno mostra di non aver peli sulla lingua. Infine tutto il
loro stile è tale da farti giurare che abbiano avuto per maestri i ciarlatani
di piazza, restandone però molto al disotto. Tuttavia si rassomigliano tanto da
non lasciare dubbi: o i ciarlatani hanno imparato la retorica dagli oratori, o
gli oratori dai ciarlatani.
Nondimeno, certo per opera mia,
trovano chi, ascoltandoli, crede di trovarsi davanti a Demostene o a Cicerone
in persona. Appartengono a questo genere di uditorio soprattutto i mercanti e
le donnette, le sole persone a cui si curano di parlare in modo gradito, perché
i mercanti, opportunamente lisciati, sono inclini, di solito, ad elargire una
piccola parte del mal tolto; mentre le donnette, oltre che per molte altre
ragioni, sono ben disposte verso la categoria, soprattutto perché è loro
costume attingerne conforto quando vogliono sfogare i propri malumori
coniugali.
Vi rendete conto, suppongo, di
quel che mi deve questa specie di uomini, che esercitando tra i mortali una
sorta di tirannia attraverso cerimonie da burla, ridicole sciocchezze e urla
scomposte, si credono dei nuovi San Paolo e Sant’Antonio.
55 Non mi par vero di concludere,
oramai: ne ho abbastanza di questi istrioni tanto ingrati nel nascondere ciò
che mi devono, quanto empi nell’ostentare una finta pietà religiosa.
È giunto il tempo di trattare un
po’, con tutta schiettezza, dei re e dei prìncipi di corte, che, come si
conviene a uomini liberi, mi onorano con la massima sincerità. Se, infatti, avessero
solo una briciola di senno, che vi sarebbe di più malinconico, o di meno
desiderabile, della loro vita? Né riterrà che valga la pena d’impadronirsi del
potere con lo spergiuro o col parricidio, chiunque consideri l’entità del peso
che grava sulle spalle di chi vuole essere un principe sul serio. Chi assume il
potere supremo deve occuparsi degli affari pubblici, non dei propri interessi.
Deve pensare esclusivamente alla pubblica utilità; non deve scostarsi neanche
di un pollice dalle leggi, di cui è autore ed esecutore; deve assicurarsi
dell’integrità di tutti i funzionari e di tutti i magistrati. Lui solo, agli
occhi di tutti, può, a guisa di astro benefico, giovare enormemente alle cose
di quaggiù coi suoi costumi senza macchia, oppure, come letale cometa, trarle
all’estrema rovina. I vizi degli altri non sono altrettanto conosciuti e non si
propagano tanto. Ma se il principe, con la posizione che occupa, si scosta
appena dalla retta via, subito la corruzione si diffonde contaminando
moltissimi uomini. Inoltre poiché la condizione del principe porta con sé
parecchie cose che di solito inducono a tralignare piaceri, libertà,
adulazione, lusso - tanto più attentamente egli deve stare in guardia, se non
vuole venir meno al proprio compito. Infine, per non parlare di insidie, odi, e
altri pericoli o timori, gli sta sopra la testa quel vero Re che quanto prima
gli chiederà ragione anche della colpa più lieve, e tanto più severamente
quanto più prestigioso fu il suo imperio. Se il principe riflettesse su queste
cose e su moltissime altre del genere - e ci rifletterebbe se avesse senno -
non dormirebbe, credo, sonni tranquilli, né riuscirebbe a gustare il cibo.
Col mio aiuto, i prìncipi
lasciano, ora, tutti questi motivi d’affanno nelle mani degli Dèi, e se la
spassano porgendo orecchio solo a chi sa dire cose gradevoli, perché una punta
d’ansia non abbia mai a levarsi dal fondo del cuore. Ritengono di avere
compiuto in ogni suo aspetto il dovere di un principe, se vanno sempre a
caccia, se allevano bei cavalli, se mettono in vendita per trarne un utile
magistrature e prefetture, se ogni giorno escogitano nuovi stratagemmi per
alleggerire i cittadini delle loro sostanze, facendole confluire nel loro
tesoro privato: ma trovando dei pretesti, tanto da conferire una qualche
apparenza di giustizia anche alla peggiore iniquità. E per conquistare comunque
le simpatie popolari aggiungono qualche parola di adulazione. Dovete immaginare
un uomo, come se ne vedono a volte, ignaro delle leggi, quasi nemico del
pubblico bene, tutto preso dai suoi interessi privati, dedito ai piaceri, con
un’autentica avversione per la cultura, la libertà e la verità, che non si cura
minimamente della salvezza dello Stato, che adotta come unità di misura le
proprie voglie e il proprio tornaconto. Mettetegli al collo una collana d’oro,
simbolo della presenza in lui di tutte le virtù riunite; mettetegli in testa
una corona ornata di gemme che lo richiami al suo dovere di superare gli altri
in tutte le virtù eroiche. Dategli lo scettro che simboleggia la giustizia e la
cristallina purezza dell’animo, e infine la porpora a significare il suo
straordinario amore per lo Stato. Se un principe paragonasse questi ornamenti
simbolici col suo genere di vita, credo che finirebbe col provare solo vergogna
della sua pompa, e col temere che qualche critico salace non si prendesse gioco
di lui volgendo in beffa questo apparato scenico.
56 Che dirò dei cortigiani più
segnalati? Benché nulla vi sia di più strisciante, di più servile, di più
sciocco, di più spregevole di loro, vogliono tuttavia essere ovunque al primo
posto. In una cosa sola sono modesti all’estremo: paghi di portarsi addosso
oro, gemme, porpora ed altre insegne della virtù e della sapienza, lasciano
sempre agli altri il privilegio di praticarle. Si ritengono molto fortunati
perché possono chiamare "mio signore" il re, perché hanno imparato un
saluto di tre parole, perché sanno intercalare titoli onorifici: Serenità,
Maestà, Magnificenza; perché sono abilissimi nel deporre ogni pudore quando si
tratta di ricorrere a complimenti adulatori. Queste, infatti, sono le arti di
un vero nobile, di un vero uomo di corte. Del resto, se vai a guardare più da
vicino il loro costume di vita, troverai degli autentici Feaci, dei pretendenti
di Penelope - il resto del verso lo conoscete, e l’Eco ve lo ripete meglio di
me. Dormono fino a mezzogiorno, mentre un pretonzolo stipendiato aspetta
accanto al letto per celebrare la messa alla svelta quando ancora sonnecchiano.
Poi la colazione e, a mala pena terminata, è già ora di pranzo. Dopo pranzo i
dadi, gli scacchi, le lotterie, i buffoni, i parassiti, le cortigiane, i
giochi, le insulsaggini. Nel frattempo un alternarsi di merende. Di nuovo a
tavola, si cena; a questa seguono i brindisi, non uno solo, per Giove. E così,
senz’ombra di noia, passano le ore, i giorni, i mesi, gli anni, i secoli. Io
stessa, a volte, mi allontano col voltastomaco quando li vedo, quei magnanimi,
in mezzo alle donne, ognuna delle quali si crede tanto più vicina all’Olimpo
quanto più lunga ha la coda, mentre i grandi fanno a gomitate per mostrarsi più
vicini a Giove, e ognuno tanto più è beato quanto più pesante ha la catena al
collo, segno manifesto, non solo di ricchezza, ma anche di robustezza.
57 Già da un pezzo i sommi
pontefici, i cardinali ed i vescovi hanno preso con impegno a modello il genere
di vita dei prìncipi, e con un successo forse maggiore. Certo, se uno
riflettesse sul significato della veste di lino, splendida di niveo candore,
simbolo d’una vita senza macchia; e pensasse a quello della mitra a due punte
riunite in un solo nodo, a indicare una perfetta conoscenza del Vecchio e del
Nuovo Testamento; o delle mani coperte dai guanti, segno della purezza, immune
da ogni umano cedimento, con cui vengono somministrati i sacramenti; se si
chiedesse che vuol dire il pastorale, simbolo della cura estrema con cui si
veglia sul proprio gregge; che cosa la croce che precede indicando la vittoria
su tutte le umane passioni; se, dico, uno riflettesse a queste cose, e a molte
altre del genere, che vita sarebbe la sua, piena di malinconie e di affanni!
Bene fanno quelli che pensano soltanto ad ingozzarsi, e la cura del gregge, o
la rimettono a Cristo medesimo, o la scaricano su coloro che chiamano fratelli
o vicari. Del significato del loro nome di vescovi neppure si ricordano:
vescovo vuol dire fatica, preoccupazione, sollecita premura. Vescovi sono sul
serio nell’arraffare quattrini: in questo la loro vigilanza è tutta occhi.
58 Altrettanto dicasi dei
cardinali, che dovrebbero ricordarsi che sono i successori degli Apostoli, e
che da loro si esigono le stesse opere: non padroni, ma amministratori dei beni
spirituali, di cui tra breve dovranno rendere conto con la massima precisione.
Riflettessero un po’ anche al loro paludamento e si chiedessero: che significa
il candore della cotta se non estrema e rara purezza di vita? Che cosa la
porpora che la cotta ricopre, se non ardentissimo amore di Dio? Che cosa
l’ampio mantello che con le sue pieghe fluenti ricopre tutta la cavalcatura di
sua Eminenza, e che basterebbe a coprire anche un cammello? Non significa forse
la carità che ovunque si diffonde per venire in aiuto a tutti, cioè per
insegnare, esortare, consolare, rimproverare, ammonire, risolvere i conflitti e
per opporsi ai prìncipi malvagi? Non significa il generoso sacrificio, non solo
delle proprie ricchezze, ma anche del proprio sangue, per amore del gregge? A
che scopo le ricchezze, se i cardinali fanno le veci degli Apostoli, che erano
poveri? Se riflettessero su queste cose, dico, terrebbero poco alla carica:
deporla sarebbe un piacere; oppure si sobbarcherebbero una vita tutta presa da
cure travagliate, alla maniera degli antichi Apostoli.
59 Ora è la volta dei sommi
pontefici, che fanno le veci di Cristo. Nessuno più di loro si troverebbe a
soffrire, se tentassero di imitarne la vita: povertà, travagli, dottrina,
croce, disprezzo del mondo; se pensassero al loro nome PAPA, cioè padre, e alla
loro qualifica di SANTISSIMO! Chi mai spenderebbe tanto per comprarsi quel
posto da difendere poi con la spada, col veleno, con tutte le forze? A quanti
vantaggi dovrebbero dire addio, se la saggezza riuscisse appena a farsi
sentire! Ma che dico, saggezza? Dovrei dire un grano di quel sale menzionato da
Cristo. Addio a tante ricchezze, a tanti onori, e a tanto potere, a tante
vittorie, a tante cariche, a tante dispense, a tante imposte, a tante
indulgenze, e a tanti cavalli, muli, servi e piaceri. Guardate un po’ che
mercato, che razza di messe rigogliosa, che mare di ricchezze ho concentrato in
poche parole! Al loro posto veglie, digiuni, lacrime, preghiere, prediche,
studio, sospiri e mille gravose occupazioni del genere. Ancora - particolare
non trascurabile - sarebbero ridotti alla fame tanti scrivani, copisti, notai,
avvocati, promotori, segretari, mulattieri, palafrenieri, banchieri, ruffiani -
e stavo per aggiungere un’espressione più sguaiata, ma temo che offenda
l’orecchio, insomma, una così folta schiera che costituisce l’onere - è un
LAPSUS, volevo dire l’onore - della curia romana. Sarebbe proprio inumano, anzi
un delitto abominevole! ma sarebbe molto peggio riportare al bastone e alla
bisaccia quei sommi prìncipi della Chiesa, che sono la vera luce del mondo.
Ora, se fatiche ci sono, si
lasciano a Pietro e a Paolo che di tempo libero ne hanno tanto, e si mantengono
per sé la gloria e il piacere, quando ci sono. Così, col mio aiuto, non c’è
quasi nessuno che più di loro faccia, in perfetta tranquillità, una gran bella
vita; convinti di avere assolto in pieno i doveri verso Cristo, se adempiono alla
loro funzione di vescovi con un apparato rituale che ha movenze da
palcoscenico, con cerimoniali e profusione di titoli: beatitudine, reverenza,
santità; e benedizioni e anatemi. Non si usa più far miracoli: roba d’altri
tempi. Insegnare ai fedeli è faticoso; interpretare le Sacre Scritture è lavoro
da farsi a scuola; pregare è una perdita di tempo; spargere lacrime è misero e
femmineo; vivere in povertà è spregevole. Turpe la sconfitta e indegna di chi a
mala pena ammette il re al bacio dei suoi piedi beati: infine, spiacevole la
morte, e infamante la morte sulla croce.
Rimangono solo le armi e le
"dolci benedizioni" di cui parla san Paolo, e di cui fanno uso con
tanta larghezza: interdetti, sospensioni, condanne aggravate, anatemi,
esposizione di ritratti a titolo di vergogna, e quella tremenda folgore con
cui, a un cenno del capo, mandano le anime dei mortali all’inferno e oltre. Di
quella folgore, i santissimi padri in Cristo, e di Cristo vicari, si servono
col massimo della violenza, soprattutto contro coloro che, per diabolico
impulso, tentano di rimpicciolire e rosicchiare il patrimonio di Pietro. Benché
le parole dell’Apostolo nel Vangelo siano: "Abbiamo abbandonato tutto e ti
abbiamo seguito", essi identificano il patrimonio di Pietro con i campi,
le città, i tributi, i dazi, il potere. E mentre, accesi dall’amore di Cristo,
combattono per queste cose col ferro e col fuoco, non senza grandissimo
spargimento di sangue cristiano, credono di difendere apostolicamente la
Chiesa, sposa di Cristo, annientando da valorosi quelli che chiamano i nemici.
Come se la Chiesa avesse nemici peggiori dei pontefici empi; di Cristo non
fanno parola: fosse per loro, svanirebbe nell’oblio; legiferando all’insegna
dell’avidità, lo mettono in catene; con le loro interpretazioni forzate ne
alterano l’insegnamento; coi loro turpi costumi lo uccidono.
Poiché la Chiesa cristiana è
stata fondata, rafforzata e ingrandita col sangue, ora, come se Cristo fosse
morto lasciando i fedeli senza una protezione conforme alla sua legge,
governano con la spada, e, pur essendo la guerra una cosa tanto crudele da convenire
alle belve più che agli uomini, tanto pazza che anche i poeti hanno immaginato
fossero le Furie a scatenarla, così rovinosa da portare con sé la totale
corruzione dei costumi, tanto ingiusta da offrire ai peggiori predoni la
migliore occasione di affermarsi, tanto empia da non avere nulla in comune con
Cristo, tuttavia, trascurando tutto il resto, fanno solo la guerra. Si possono
vedere vecchi decrepiti che, inalberando un vigoroso spirito giovanile, non si
sgomentano davanti alle spese, non cedono alle fatiche, non indietreggiano di
un pollice se si trovano a mettere a soqquadro le leggi, la religione, la pace,
I’intero genere umano. Né mancano colti adulatori, pronti a chiamare questa
evidente follia zelo, pietà, fortezza, escogitando stratagemmi che permettono
d’impugnare il ferro mortale e di immergerlo nelle viscere del fratello senza
venir meno a quella suprema carità che secondo il dettato di Cristo un
cristiano deve al suo prossimo.
60 Una cosa, continuo a
chiedermi: certi vescovi tedeschi che, andando più per le spicce, tralasciando
il culto, le benedizioni e altre cerimonie del genere, si comportano
addirittura da satrapi, fino a considerare una specie di debolezza, e
senz’altro una vergogna per un vescovo, rendere la valorosa anima a Dio altrove
che su un campo di battaglia, sono stati loro a offrire il modello di un tale
comportamento, o lo hanno a loro volta imitato?
Ma ormai la massa dei sacerdoti,
considerando peccaminoso venire meno alla santità di vita dei presuli, levando
il grido di guerra si dà a combattere per le dovute decime con spade, frecce,
sassi, e armi di ogni specie! e quale accortezza nel tirare fuori da vecchi
documenti qualcosa con cui impaurire il popolino e convincerlo che il suo
debito va al di là delle decime! Né intanto ai sacerdoti vengono in mente i
molti passi ovunque ricorrenti sui doveri che, per parte loro, essi hanno verso
il popolo. Nemmeno la tonsura basta come monito: hanno dimenticato che il
sacerdote, libero da tutti gli appetiti del mondo, deve pensare soltanto alle
cose del cielo. Sono gente buffa: sostengono di aver fatto tutto il loro dovere
quando hanno borbottato alla bell’e meglio le solite giaculatorie, e io, per
Ercole, mi meraviglio che un qualche Dio le ascolti o le intenda, perché
nemmeno loro sono capaci di udirle o di intenderle, pur gridandole con quanto
fiato hanno in corpo.
C’è un punto, però, che i
sacerdoti hanno in comune coi laici; entrambi attentissimi ad accumulare
guadagni sono sempre al corrente delle vie da seguire. Se poi c’è un peso da
portare, prudentemente lo scaricano sulle spalle altrui, e lo fanno passare di
mano in mano, in una sorta di gioco a palla. Come i prìncipi laici, delegano a
vicari, settore per settore, le funzioni di governo, e il vicario, a sua volta,
ricorre a un vicario in sottordine; così, per modestia, lasciano al popolo la
cura di tutto quanto riguarda la religione. Il popolo la scarica su quelli che
chiama ecclesiastici, come se per parte sua non avesse nulla a che fare con la
Chiesa: pare che i voti pronunciati al battesimo non contino nulla. A loro
volta, i sacerdoti che si denominano secolari, come se appartenessero al mondo
più che a Cristo, scaricano il fardello sul clero regolare; il clero regolare
sui monaci; i monaci di meno stretta osservanza su quelli di osservanza più
rigida; gli uni e gli altri sui mendicanti, e i mendicanti sui certosini, i
soli presso cui, sepolta, si nasconde la pietà, ma così nascosta che a mala
pena si può scorgerla.
Così fanno anche i pontefici:
diligentissimi nel rastrellare soldi, affidano ai vescovi i gravami più
strettamente apostolici; i vescovi li affidano ai parroci; i parroci ai vicari;
i vicari ai frati mendicanti, che, a loro volta, li rimandano a coloro che
tosano la lana delle pecore.
61 Ma io, qui, non mi propongo di
passare in rassegna i costumi di pontefici e sacerdoti; non vorrei avere l’aria
di comporre una satira, mentre è il mio elogio che pronuncio; né vorrei si
credesse che, mentre elogio i cattivi prìncipi, io biasimi i buoni. Ho parlato
brevemente di queste cose per mettere in chiaro che nessuno al mondo può vivere
felicemente, se non è iniziato ai miei misteri, e se non ha me dalla sua.
Come mai, infatti, la stessa dea
di Ramnunte, signora delle umane sorti, a tal punto va d’accordo con me da
avere giurato eterna inimicizia a questi sapienti, mentre ai folli ha donato
ogni bene anche nel sonno? Voi conoscete il famoso Timoteo, che di qui ha preso
anche il soprannome, ed il proverbio: "anche dormendo piglia pesci".
C’è anche l’altro detto: "la civetta vola per lui". Invece, altri
sono i proverbi che si adattano ai sapienti: "nato sotto cattiva
stella"; "ha il cavallo di Seio e l’oro di Tolosa". Smetto le
citazioni: non vorrei avere l’aria di saccheggiare la raccolta del mio Erasmo.
Per tornare in argomento: la
Fortuna ama gli imprudenti, gli audaci, quelli che adottano il motto "il
dado è tratto". La saggezza, invece, rende piuttosto timidi; perciò
comunemente vedete questi sapienti impegnati a combattere con la povertà, la
fame, il fumo; li vedete vivere dimenticati, senza prestigio, senza simpatie:
mentre gli stolti, ben forniti di soldi, raggiungono le alte cariche dello
Stato e, per dirla in breve, prosperano in tutti i sensi. Infatti, se si ripone
la felicità nel favore dei prìncipi, nell’entrare a far parte della cerchia di
questi miei fedeli simili a Dèi ingioiellati, che c’è di più inutile della
sapienza, anzi di più aborrito presso gente del genere? Se si vuole arricchire,
che cosa può guadagnare un mercante attenendosi alla sapienza? Se terrà in qualche
conto gli scrupoli dei sapienti sul latrocinio e l’usura, avrà ripugnanza a
spergiurare; colto a mentire, arrossirà. Se si desiderano onori o benefizi
ecclesiastici, un asino o un bue potrà aggiudicarseli prima del sapiente. Se è
il piacere che ti muove, le fanciulle, che in questa storia hanno il posto
d’onore, si danno di tutto cuore agli stolti, mentre hanno orrore del sapiente
e lo fuggono come fosse uno scorpione. Infine, chiunque si ripromette una vita
in qualche misura lieta, comincia con l’escludere il sapiente, tollerando
piuttosto qualunque altro animale. In breve, da qualunque parte tu ti volga,
presso pontefici, prìncipi, giudici, magistrati, amici, nemici, grandi e
piccoli, tutto si ottiene col danaro alla mano; ma il sapiente disprezza il
danaro, e perciò, di solito, da lui ci si tiene lontani con la massima cura.
62 Ed ora, benché sia impossibile
esaurire il mio elogio, bisogna pure concludere il discorso. Perciò smetterò di
parlare, ma non senza avere prima dimostrato in poche parole che non sono
mancate grandi autorità a glorificarmi, sia con gli scritti che con le azioni;
e questo perché qualcuno non sospetti scioccamente che sia io sola a
compiacermi di me stessa, e perché i legulei non mi accusino di non produrre
documenti. Perciò, prendendo esempio da loro, allegherò le prove senza
preoccuparmi che siano pertinenti.
In primo luogo, tutti sono
persuasi della verità di un notissimo proverbio: "Quando una cosa manca,
ottimo sistema è fingere che ci sia". Perciò è bene cominciare con l’insegnare
ai ragazzi questo verso: "Fingersi folli a tempo e luogo è somma
sapienza". Potete rendervi conto da voi di quale gran dono sia la follia,
se anche la sua ombra fallace, e la sua sola imitazione, meritano dai dotti
così grande lode. Con franchezza anche maggiore quel famoso "porco lucido
e pingue del gregge di Epicuro" prescrive di "mescolare la follia
alla saggezza", ma, aggiunge, "solo per poco": e qui si sbaglia.
Dice altrove: "Bella cosa folleggiare a tempo e luogo". E ancora, in
altra occasione: "Preferisce apparire pazzo e privo di iniziativa,
piuttosto che mostrarsi assennato tenendosi la rabbia in corpo". Già in
Omero, Telemaco, che il poeta loda sotto tutti i rapporti, è detto a più
riprese privo di senno, e spesso e volentieri i tragici indicano in tal modo,
quasi fosse di buon augurio, fanciulli e adolescenti. Di che ci parla il divino
poema dell’ILIADE? solo delle ire di re folli e di popoli folli. E quale lode
più alta del detto ciceroniano "Tutto il mondo è pieno di pazzi"?
Chi, infatti, non sa che qualunque bene, a quanti più si estende, tanto più
vale?
63 Ma forse per i cristiani
l’autorità di costoro non ha gran peso. Perciò, se credete, possiamo poggiare,
o, come dicono i dotti, fondare le nostre lodi sulle Sacre Scritture, cominciando
col chiedere il permesso ai teologi. Poi, dato che un’ardua impresa ci attende,
e che forse non sarebbe giusto, vista la lunghezza del viaggio, invocare di
nuovo le Muse dall’Elicona - e per una cosa poi che poco le interessa - credo
migliore partito, mentre faccio il teologo procedendo per uno spinoso calle,
scegliere l’anima di Scoto, spinosa più di ogni istrice e porcospino, perché
dalla sua Sorbona per un po’ si trasferisca nel mio petto, per poi migrare dove
preferisce, magari in un corvo. Volesse il cielo che potessi mutare aspetto e
comparire nelle vesti del teologo! Temo invece che mi si creda colpevole di
furto, come se per farmi una così bella preparazione teologica alla chetichella
avessi saccheggiato i tesori dei maestri. Ma che c’è da stupirsi, se nella mia
lunga e intima consuetudine con i teologi, qualcosa ho imparato? Persino
Priapo, il dio di legno di fico, sentendo leggere il padrone, aveva finito col
tenere a mente qualche parola greca, e il gallo di Luciano, per la lunga
convivenza con gli uomini, ne conosceva a menadito il linguaggio.
Torniamo in argomento. Scrive
l’Ecclesiaste nel primo capitolo [I, 15]: "Infinito è il numero degli
stolti". E, parlando di numero infinito, non sembra forse intendere tutti
gli uomini, a eccezione di pochissimi che probabilmente nessuno ha mai visto?
Con più chiarezza si esprime Geremia, quando nel capitolo decimo [X, 15] dice:
"Ogni uomo è reso stolto dalla sua sapienza". Attribuisce la sapienza
soltanto a Dio, e lascia la stoltezza a tutti gli uomini [X, 7 e 12]. E ancora,
poco prima [9, 23]: "L’uomo non riponga nella sapienza il suo vanto".
Ma perché, ottimo Geremia, non vuoi che l’uomo riponga nella sapienza il suo
vanto? "Perché, risponderebbe certamente, l’uomo non ha la sapienza."
Ritorniamo all’Ecclesiaste.
Quando esclama [1, 2; 12, 8]: "Vanità delle vanità; tutto è vanità",
che altro vuol dire, secondo voi, se non che la vita umana è tutta un gioco
della follia? Con questo dava senza dubbio il suo consenso a quel detto di
Cicerone, a buon diritto famoso, che abbiamo riferito poc’anzi: "Tutto il
mondo è pieno di stolti". Tornando al saggio Ecclesiastico, quando diceva
[27, 12]: "Lo stolto muta come la Luna; il sapiente, come il Sole, non
muta", voleva dire semplicemente che tutti i mortali sono stolti, e che il
titolo di sapiente spetta solo a Dio. La Luna viene identificata dagli
interpreti con la natura umana, il Sole, fonte di ogni luce, con Dio. Con ciò
si accorda quanto Cristo stesso nega nel Vangelo [Matteo, 19, 17]: che qualcuno
possa chiamarsi buono, eccetto Dio. Se è stolto chiunque non è sapiente, e se
chi è buono, stando agli Stoici, è anche sapiente, la stoltezza, di necessità,
è retaggio di tutti gli uomini. Si legge ancora nel capitolo quindicesimo [21]
di Salomone: "Lo stolto si bea della sua stoltezza"; e con questo
chiaramente si ammette che senza la stoltezza la vita non ha nulla da offrire.
Alla stessa conclusione approda
il detto: "Chi più sa, più soffre; chi più conosce, più spesso s’indigna
[Eccl. 1, 18]". La stessa cosa, quell’eccelso predicatore riconosce
apertamente nel capitolo settimo [5], quando dice: "Nel cuore dei sapienti
il dolore; nei cuori degli stolti la gioia".
Non riteneva, infatti, che
bastasse il pieno possesso della sapienza; bisognava conoscere anche me, la follia.
Se poi prestate poca fede a me, leggete le parole che scrisse nel primo
capitolo [17]: "Volsi il mio cuore ad apprendere la saggezza e la scienza,
gli errori e la follia". E qui va notato che l’essere collocata all’ultimo
posto torna a lode della follia. L’Ecclesiaste ha scritto - e sapete che questo
è l’ordine ecclesiastico - che chi è primo per dignità deve occupare l’ultimo
posto, il che è conforme al dettato evangelico.
Che poi la Follia è superiore
alla Sapienza lo attesta chiaramente, nel capitolo 64 [4 1, 1 8], anche
l’Ecclesiastico, chiunque egli sia. Ma, per Ercole, non riferirò le sue parole
se prima non avrete collaborato con me in una serie di appropriate risposte,
come fanno nei dialoghi di Platone gli interlocutori di Socrate. "Che cosa
è più opportuno nascondere, le cose rare e preziose, o quelle comuni e
dappoco?" Perché tacete? Anche se cercate di non scoprirvi, parla per voi
il proverbio greco che dice della brocca alla porta di casa, e sacrilego
sarebbe rifiutarlo, perché lo troviamo in Aristotele, il nume dei nostri
maestri. O forse qualcuno di voi è così stolto da lasciare per la strada oro e
gemme? Non credo, per Ercole. Sono cose che riponete in nascondigli
inaccessibili, e addirittura negli angoli più segreti di una cassaforte a tutta
prova. In mezzo alla strada lasciate i rifiuti. Perciò, se si nasconde quanto è
più prezioso, mentre si lascia in vista ciò che vale meno, la sapienza che
l’Ecclesiastico vieta di nascondere non sarà palesemente meno pregiata della
stoltezza che comanda di nascondere? Ascoltate le sue parole testuali:
"L’uomo che nasconde la sua insipienza è migliore dell’uomo che nasconde
la sua sapienza" [41, 18]. Che dire dell’ingenuo candore che le Sacre
Scritture attribuiscono allo stolto, di contro all’atteggiamento del sapiente
che non crede nessuno suo simile? Così infatti intendo le parole del decimo [X,
3] dell’Ecclesiaste: "Ma lo stolto, quando va per la strada, essendo lui stolto,
crede che tutti lo siano". E non è forse indizio di singolare candore
supporre che tutti siano uguali a te e, in un mondo di presuntuosi, estendere a
tutti gli altri ciò che in te c’è di buono? Perciò il gran re Salomone non si
vergognò di questa qualifica quando, nel trentesimo capitolo [Prov. 30, 2],
disse: "Sono il più folle degli uomini". E san Paolo, il grande
dottore delle genti, scrivendo ai Corinzi [11, 23], non disdegnò la
denominazione di stolto: "Parlo, dice, da dissennato: sono io il più
dissennato". Come se, essere superato in fatto di follia, fosse
sconveniente.
Qui mi danno sulla voce certi
greculi meschini che s’ingegnano di cavare gli occhi alle cornacchie - cioè ai
teologi del nostro tempo - spargendo in giro il fumo delle loro chiose ai sacri
testi (e se il mio amico Erasmo, che molto spesso ricordo a titolo di merito,
non è l’alfa [il primo] della schiera, certo è il beta [il secondo]). Che razza
di citazione pazzesca - dicono - proprio degna della Pazzia in persona!
L’Apostolo intendeva una cosa ben diversa dai tuoi vaneggiamenti. Con le sue
parole non cerca di farsi passare per più stolto degli altri; ma, avendo detto
in precedenza: "Sono ministri di Cristo; e anch’io lo sono", ed
essendosi così collocato, con una punta d’orgoglio, alla pari con gli altri,
rettifica: "ma io lo sono anche di più", perché nel ministero del
Vangelo sente di essere, non solo alla pari con gli altri Apostoli, ma un poco
al disopra. Tuttavia, volendo che l’affermazione suonasse vera, senza peraltro urtare
gli ascoltatori con un eventuale sospetto di presunzione, adottò la follia come
copertura, e disse "parlo da dissennato", perché sapeva che dire la
verità senza offendere nessuno è privilegio dei soli pazzi.
Che cosa intendesse davvero Paolo
quando scrisse a quel modo, lascio che siano loro a decidere. Io seguo i grandi
teologi, grassi e grossi, e in genere molto stimati; buona parte dei dotti, per
Giove, preferisce sbagliare con loro piuttosto che essere nel giusto con
codesti trilingui. E nessuno tiene il parere di questi greculi da quattro soldi
in maggior conto del gracchiare di un corvo, soprattutto da quando ha
commentato quel passo da maestro e da teologo un illustre teologo (per prudenza
ne taccio il nome, perché i nostri volatili gracchianti non si affrettino ad
affibbiargli il motto greco dell’asino che suona la lira). Con le parole
"parlo da dissennato, anzi io lo sono più di tutti", fa cominciare un
nuovo capitolo e, con insuperabile rigore dialettico, aggiunge un nuovo
capoverso, interpretando così (riporterò le sue parole, e non solo nella
lettera, ma anche nel loro significato): "parlo da dissennato, cioè, se vi
sembro folle mettendomi alla pari con gli pseudoapostoli, anche più folle vi
sembrerò ponendomi al disopra di loro". Purtroppo quel teologo, subito
dopo, quasi dimentico di sé, cambia argomento.
64 Ma perché mi affanno tanto con
questo solo esempio? Tutti riconoscono ai teologi il diritto di manipolare il
cielo, ossia le Sacre Scritture, tirandole in qua e in là come un elastico,
tanto è vero che in san Paolo entrano in contraddizione parole della Scrittura
che nel sacro testo non sono affatto in contrasto (almeno se vogliamo prestare
fede a san Girolamo, che sapeva ben cinque lingue). Così, letta per caso ad
Atene la dedica di un altare, Paolo ne forzò il significato a beneficio della
fede cristiana, e, tralasciando le altre parole, che avrebbero nuociuto al suo
proposito, staccò dal contesto solo le ultime due: "Al Dio ignoto", e
anche queste con qualche variante. La dedica esatta era, infatti, questa:
"Agli Dèi dell’Asia, dell’Europa e dell’Africa, agli Dèi ignoti e
stranieri". Penso che questi figli di teologi, seguendone l’esempio,
sopprimendo qua e là quattro o cinque parolette e, all’occorrenza, anche
alterandole, le adattino ai loro scopi. Poco importa, poi, se le parole che
precedono o quelle che seguono non c’entrano per nulla o, addirittura, sono in
contrasto. Lo fanno con una tale impudenza, che spesso i giureconsulti sono
tratti a invidiare i teologi.
Che mai hanno più da temere da
quando quel celebre... - a momenti mi sfuggiva il suo nome, ma di nuovo mi
trattiene il proverbio greco - ha ricavato dalla parola di Luca [22, 35-36] un
principio che si accorda con lo spirito di Cristo come il fuoco con l’acqua?
Infatti, nell’ora dell’estremo pericolo, quando i fedeli adepti si stringono di
più ai loro protettori per impegnarsi con ogni risorsa al loro fianco, Cristo,
perché i suoi smettessero del tutto di confidare in questo genere di aiuti,
chiese loro se mai avessero sentito la mancanza di qualche cosa, quando li
aveva mandati per il mondo così poco equipaggiati da non avere né calzari
contro le spine e i sassi, né bisaccia contro la fame. Avendo essi risposto di
no, che nulla era mancato, soggiunse: "Ma ora chi ha una borsa la prenda,
e altrettanto faccia con la bisaccia, e chi non ne ha venda la sua tunica e
compri una spada". Ora, dato che tutta la dottrina di Cristo predica solo
mansuetudine, tolleranza, disprezzo del mondo, non è chi non intenda il giusto
significato di questo passo. Il proposito è di rendere i legati di Cristo anche
più inermi; non solo senza calzari e senza bisaccia, ma anche senza tunica,
nudi e liberi di tutto, affrontino la loro missione evangelica. Non si
procurino nulla, se non la spada, non quella, però, di cui si servono predoni e
parricidi per i loro misfatti, ma la spada dello spirito, che penetra nel fondo
del cuore, che taglia via una volta per sempre tutte le passioni, sì che nulla
vi resti, salvo la pietà.
Orbene, state un po’ a vedere a
quale senso riesce a piegare questo passo il nostro famoso teologo. Secondo lui
la spada è la difesa contro i persecutori, il sacchetto, una sufficiente
provvista di viveri; come se Cristo, ritenendo di aver mandato per il mondo i
suoi missionari senza provvederli di mezzi adeguati, cambiando parere
ritrattasse quanto ha predicato in precedenza. O dimenticasse quanto aveva
detto, che sarebbero stati felici nel dolore, fatti segno a ingiurie e
supplizi, non rendendo male per male, perché beati sono i mansueti, non i violenti;
se, dimenticando di averli esortati a seguire l’esempio dei passeri e dei
gigli, non li volesse più vedere partire senza la spada. La comprino, a costo
di vendere la tunica; meglio nudi che disarmati! Il commentatore ritiene
inoltre che il termine spada indichi tutto ciò che può servire come arma di
difesa, e che il termine bisaccia abbracci quanto concerne i bisogni vitali.
Così l’interprete del pensiero divino fa predicare il Cristo in croce da
Apostoli armati di lance, balestre, fionde e bombarde. Li carica di valigie,
sacche e bagagli vari perché non abbiano mai a mettersi in viaggio senza avere
debitamente pranzato. Né il brav’uomo è turbato neppure dal fatto che Cristo
ingiunge di rimettere subito nel fodero quella spada che aveva ordinato di comprare
a così caro prezzo, e che mai, per quel che se ne sa, gli Apostoli hanno
fronteggiato con spade e scudi la violenza dei pagani, come avrebbero fatto se
il pensiero di Cristo fosse stato conforme a questa interpretazione.
C’è poi un altro, e non certo
l’ultimo venuto (per deferenza non ne faccio il nome) che, basandosi sul
riferimento di Abacuc [3, 7] alle tende di Madian - "le pelli del paese di
Madian saranno messe sossopra" - ne ricava un’allusione alla pelle di san
Bartolomeo scorticato.
Di recente partecipai io stessa a
una discussione teologica; lo faccio spesso. Poiché uno dei presenti chiedeva
in che conto si doveva tenere il precetto delle Sacre Scritture secondo cui gli
eretici vanno arsi sul rogo piuttosto che non persuasi attraverso la discussione,
un vecchio dall’aspetto severo, teologo anche nel piglio, rispose molto
indignato che la legge risaliva all’apostolo Paolo che disse [A TITO, 3, 10]:
"Dopo aver tentato ripetutamente di mettere l’eretico sulla buona strada,
evitalo". E più volte tornava a dire quelle parole, mentre erano in
parecchi a chiedersi che cosa mai gli succedeva. Finì con lo spiegare che
bisognava togliere DALLA VITA (E VITA) l’eretico. Ci fu chi rise, ma ci fu
anche chi ritenne l’interpretazione ineccepibile dal punto di vista teologico,
e poiché qualcuno continuava a protestare, intervenne un avvocato cosiddetto di
Tenedo, un’autorità irrefragabile: "State a sentire, disse. La Scrittura
dice: non lasciar vivere l’uomo malefico. Ma ogni eretico è malefico, quindi...".
Tutti i presenti ammirarono la soluzione ingegnosa, e vi aderirono battendo
forte i piedi calzati di stivali. A nessuno venne in mente che quella legge
riguardava incantatori e maghi, detti in lingua ebraica "malefici".
Altrimenti la pena di morte dovrebbe estendersi alla fornicazione e
all’ubriachezza.
65 Sono una sciocca a volermi
dilungare su queste cose, così numerose che neanche tutti i volumi di Crisippo
e di Didimo basterebbero a contenerle. Volevo solo farvi presente che, se tanto
è stato concesso a quei maestri di primissima grandezza, è giusto usare qualche
indulgenza a me, teologa di ben poco conto, se le mie citazioni non sono del
tutto esatte.
E ora, tornando finalmente a
Paolo, parlando di sé dice: "Voi sopportate di buon grado i folli" [2
Cor., 11, 19]. E ancora: "Accettatemi come un folle". E poi:
"Non parlo ispirato da Dio, ma quasi come un folle". E altrove, di
nuovo: "Siamo folli a cagione di Cristo". Avete sentito quali elogi
della follia e da quale pulpito! E che diremo di quel suo raccomandare la
stoltezza quale fonte per eccellenza necessaria in vista della salvezza?
"Chi di voi sembra sapiente, divenga stolto per essere sapiente".
In Luca [34, 25] Gesù chiama
"stolti" i due discepoli cui si era accompagnato per la strada. Non
so se ci si debba meravigliare, visto che allo stesso Dio, San Paolo
attribuisce un pizzico di follia, dicendo: "La follia di Dio è più saggia
del senno degli uomini". [Primo Cor., 1, 25]. Origene, per certo, contesta
che questa follia sia suscettibile di essere tradotta in termini umani, come
nell’altro esempio: "La parola della croce è follia per gli uomini che si
perdono" [Primo Cor., 1, 18].
Ma perché mai insisto nel
sostenere tutto questo con tante testimonianze? Non ce n’è bisogno, se nei
mistici salmi [68, 6] Cristo stesso dice al Padre: "Tu conosci la mia
follia". E non per caso i folli sono sempre stati tanto cari al Signore.
Per la stessa ragione, credo, per cui i sovrani guardano con diffidente
antipatia le persone troppo intelligenti. Così accadeva a Cesare con Bruto e
Cassio - mentre di quell’ubriacone di Antonio non aveva alcun timore; così
accadeva a Nerone con Seneca e a Dionigi con Platone; mentre si trovavano bene
con gli uomini privi di acume. Allo stesso modo Cristo costantemente detesta e
condanna quei sapienti che hanno fiducia nella propria saggezza.
Lo attesta chiaramente san Paolo
quando dice: "Dio sceglie ciò che il mondo considera stolto", e che
"Dio aveva voluto salvare il mondo attraverso la stoltezza", perché
attraverso la saggezza non era possibile [Primo Cor., 1]. Dio stesso lo rivela
con sufficiente chiarezza quando esclama per bocca del profeta: "Manderò
in fumo la sapienza dei sapienti e condannerò la saggezza dei saggi".
E ancora quando Gesù lo ringrazia
perché aveva rivelato ai piccoli, cioè agli stolti, il mistero della salvezza
che aveva celato ai sapienti. In greco, infatti, il termine per indicare i
bambini è infanti (népioi) in contrapposizione ai sapienti (zofói). Nello
stesso senso vanno intesi certi motivi ricorrenti nel Vangelo; Gesù che
fieramente si leva contro farisei, scribi e dottori e, viceversa, la sollecita
protezione che accorda al volgo ignorante. Che altro vogliono infatti dire le
parole: "Guai a voi, scribi e farisei", se non "Guai a voi,
sapienti" [Matteo, 23, 13-27; Luca, 11, 42-43]. Invece il suo rapporto con
bambini, donne, pescatori, pare fosse improntato a perfetta letizia. Anche fra
le bestie Cristo predilige le più lontane dall’astuzia della volpe. Perciò
preferì cavalcare un asino, anche se, volendo, avrebbe potuto senza rischio
cavalcare un leone. Così lo Spirito Santo è sceso dal cielo in sembianza di
colomba, non di aquila o di sparviero. Inoltre, nelle Sacre Scritture, si
ricordano un po’ dappertutto cervi, capretti, agnelli. Aggiungasi che Gesù chiama
pecore i suoi discepoli destinati a vivere in eterno. Né c’è animale più
stupido di questo, stando anche al detto aristotelico "indole di
pecora" che, come Aristotele avverte, tratto dalla stupidità di
quell’animale, di solito si applica a titolo ingiurioso agli stupidi e tardi.
Tuttavia Cristo si professa pastore di questo gregge; anzi egli stesso si
compiacque di chiamarsi agnello, e Giovanni Battista lo indicò con questo nome:
"Ecco l’agnello di Dio", denominazione che ricorre spesso anche nell’Apocalisse.
Di qui una clamorosa conclusione:
i mortali, anche quelli che coltivano sentimenti di pietà, sono stolti. Lo
stesso Cristo, per venire in aiuto all’umana sapienza, lui che è la sapienza
del Padre, si è fatto in qualche modo stolto, quando, vestite le umane spoglie,
si è presentato con sembiante di uomo. Come si è fatto anche peccato per
risanarci dai peccati. Né volle porvi altro rimedio se non la follia della
Croce, valendosi di Apostoli rozzi e ignoranti, cui ebbe cura di predicare come
ottima condizione la stoltezza distogliendoli dalla sapienza quando li esorta a
seguire l’esempio dei bambini, dei gigli, del grano di senape, dei passerotti,
esseri del tutto privi d’intelligenza, che vivono solo affidandosi alla natura,
senza artifici, senza affanni; e quando proibisce loro di preoccuparsi della
linea da tenere davanti ai giudici e di stare all’erta per cogliere i momenti
opportuni: non devono cioè confidare nella propria saggezza, ma mettersi
totalmente nelle sue mani. Allo stesso principio s’ispira Dio, architetto del
mondo, quando proibisce di assaggiare il frutto dell’albero della sapienza,
quasi che la scienza fosse il veleno della felicità. San Paolo, d’altra parte,
condanna la scienza apertamente come fonte di presunzione e di rovina. E credo
che san Bernardo si richiamasse a lui identificando il monte che Lucifero aveva
scelto per sua sede col monte della scienza.
Forse c’è anche un altro
argomento che non dovrei tralasciare: la stoltezza trova grazia presso gli Dèi;
al sapiente non si perdona, tanto è vero che chi implora il perdono, anche se
ha peccato con cognizione di causa, adduce a pretesto la stoltezza e di essa si
fa usbergo. Così infatti, se la memoria non mi tradisce, nei NUMERI [12, 11]
Aronne cerca di stornare dalla moglie la punizione del Signore: "Ti prego,
Signore, non giudicarci colpevoli: abbiamo peccato per mancanza di
discernimento". E anche Saul di fronte a David si discolpa così: "È
chiaro, dice, che ho agito da sciocco". E David, a sua volta, cerca di
propiziarsi il Signore con queste parole: "Ti prego, Signore, non accusare
il tuo servo d’iniquità; ho agito da sciocco", come se non potesse
ottenere il perdono se non appellandosi alla sua stoltezza e alla sua
insipienza. Prova di eccezionale efficacia, Cristo in croce, quando pregò per i
suoi nemici, portò come unica scusa l’ignoranza: "Padre, perdona loro
perché non sanno quello che fanno" [Luca 23, 24]. Nello stesso senso Paolo
scriveva a Timoteo: "Ho ottenuto la misericordia divina perché nella mia
incredulità ho agito per ignoranza" [Primo Tim. 1, 13]. Che vuol dire
"ho agito da ignorante", se non che aveva agito per stoltezza, non
per malizia? Che significa "perciò ho ottenuto misericordia", se non
che non l’avrebbe ottenuta se la sua stoltezza non avesse deposto in suo
favore? Fa al caso nostro il mistico salmista che non mi è venuto in mente al
momento giusto: "Non ricordare le colpe della mia gioventù e le mie
ignoranze" [PS. 24, 7].
Come avete sentito, adduce due
argomenti: la giovane età - a cui sempre io, la Follia, mi accompagno - e le
"ignoranze", ricordate al plurale per fare intendere la grande forza
della follia.
66 Per non dilungarmi
all’infinito cercherò di riassumere per sommi capi. Se la religione cristiana
sembra avere qualche parentela con la follia, con la sapienza non ha proprio
nulla a che fare. Desiderate averne una prova? Guardate in primo luogo al fatto
che bambini, vecchi, donne e anime semplici godono più degli altri delle
funzioni religiose, e perciò, per puro istinto, sono sempre i più vicini agli
altari. Vedete inoltre che i primi fondatori della religione, con mirabile
slancio, scelsero le vie della semplicità, mentre furono nemici acerrimi delle
lettere.
Infine non c’è pazzo che sembri
più pazzo di coloro che una volta per sempre siano stati conquistati in pieno
dal fuoco della carità cristiana: a tal punto sono prodighi dei loro beni,
trascurano le offese, tollerano gli inganni, non fanno distinzione tra amici e
nemici, hanno orrore del piacere; digiuni, veglie, lacrime, fatiche, ingiurie,
sono il loro nutrimento; per nulla attaccati alla vita, desiderano solo la
morte; per dirla in breve, sembrano affatto insensibili alle esigenze del senso
comune, come se il loro animo vivesse altrove, e non nel loro corpo. E che
altro è questo se non follia? Non dobbiamo dunque meravigliarci se gli Apostoli
sembrarono ubriachi di vino dolce, se Paolo sembrò pazzo al giudice Festo.
Comunque, visto che una volta
tanto ho vestito la pelle del leone, andrò più in là mettendo in chiaro
un’altra cosa: quella beatitudine che i cristiani cercano di conquistare a così
caro prezzo, altro non è se non una forma di follia e di stoltezza. Non badate
alle parole: non c’è intenzione d’offesa; considerate piuttosto i fatti. C’è in
primo luogo un punto di contatto fra cristiani e platonici: entrambi ritengono
che l’anima, irretita nei vincoli del corpo, trovi nella sua materia un
impedimento alla contemplazione e alla fruizione del vero. Perciò Platone
definisce la filosofia una meditazione sulla morte, perché, a somiglianza della
morte, distoglie la mente dalle cose visibili e corporee. Perciò, finché
l’anima fa buon uso degli organi del corpo, viene detta sana; ma quando,
spezzati i vincoli, tenta d’affermarsi in piena libertà, e viene quasi
meditando una fuga dal carcere corporeo, allora si parla di follia. Se per caso
la cosa accade per malattia, per una qualche affezione organica, allora è
pazzia conclamata. Tuttavia vediamo che anche uomini di questa specie predicono
il futuro, sanno lingue e lettere che non hanno mai appreso in passato,
ostentano qualcosa che appartiene decisamente all’ambito del divino.
Non c’è dubbio: questo accade
perché la mente, libera in parte dall’influenza del corpo, comincia a
sprigionare la sua forza nativa. Credo che per la stessa ragione qualcosa di
simile accada nel travaglio della morte imminente: gli agonizzanti, come
ispirati, parlano un linguaggio profetico.
Se ciò accade nell’ardore della
fede, si tratta forse di un altro genere di follia, ma così vicina alla
ordinaria follia che molta gente la giudica pazzia pura, e tanto più in quanto
riguarda un pugno di disgraziati che in tutto il modo di vivere si scostano dal
resto dell’umano consorzio. Qui, di solito, credo si verifichi il caso del mito
platonico: di quelli che incatenati in fondo alla caverna vedono l’ombra delle
cose, e del prigioniero che, fuggito di là, tornando poi nell’antro afferma di
avere contemplato le cose reali, e che loro s’ingannano di molto, convinti come
sono che nient’altro esista se non delle misere ombre. Il saggio compiange e
deplora la follia di coloro che sono irretiti in così grave errore; ma quelli,
a loro volta, ridono di lui come se delirasse e lo cacciano via. Allo stesso
modo il volgo ammira soprattutto le cose in cui la materia prevale, e quasi
crede che siano le sole ad esistere. Chi pratica la religione, invece, quanto
più una cosa è attinente al corpo tanto più la trascura ed è tutto preso dalla
contemplazione dell’invisibile. Gli uni mettono al primo posto le ricchezze, al
secondo le comodità relative al corpo, all’ultimo l’anima: che, dopo tutto, i
più neanche credono esista perché l’occhio non può scorgerla. Gli altri,
invece, in primo luogo tendono con tutte le loro forze a Dio, il più semplice
degli esseri; in secondo luogo a qualcosa che ancora resta nella sua cerchia:
ossia all’anima, che più di tutto è vicina a Dio; trascurano la cura del corpo,
disprezzano le ricchezze e ne rifuggono come da cosa immonda. Se poi non
possono esimersi dall’occuparsene, ne sentono il peso e la noia; hanno, ed è
come se non avessero; posseggono, ed è come se non possedessero. Nei singoli
casi ci sono anche molte altre differenze di gradazione. Prima di tutto, benché
tutti i sensi abbiano un legame col corpo, alcuni sono più corpulenti, come il
tatto, l’udito, la vista, I’olfatto, il gusto; altri più distaccati dal corpo,
come la memoria, l’intelletto, la volontà.
Dato che la potenza dell’anima
risulta maggiore là dove concentra il suo sforzo, le persone religiose, poiché
tutta la forza dell’animo loro si volge alle cose lontane per eccellenza dai
sensi più corposi, subiscono in questi una sorta di ottundimento. Il volgo,
invece, in essi raggiunge il massimo della potenza, il minimo negli altri. Si
spiega così ciò che raccontano sia accaduto a certi Santi, di bere olio invece
di vino.
E anche fra le passioni
dell’anima alcune sono più legate agli aspetti carnali del corpo, come
l’impulso sessuale, il bisogno di cibo e di sonno, l’ira, la superbia,
l’invidia: chi coltiva sentimenti di pietà le respinge senza remissione; il volgo,
al contrario, ne fa la fondamentale ragione di vita. Vi sono poi dei sentimenti
intermedi, quasi naturali, come l’amore di patria, l’affetto per i figli, per i
genitori, per gli amici. Il volgo ne riconosce in qualche misura l’importanza,
ma quanti vivono secondo pietà cercano di sradicare dall’animo anche questi, a
meno che non raggiungano quel supremo livello spirituale per cui si ama il
padre, non in quanto padre - che ha generato, infatti, se non il corpo? e, alla
fine, anche questo è opera di Dio padre - ma in quanto è buono e porta in sé il
lume di quella Mente che sola chiamano sommo bene, e al di fuori della quale
sostengono che nulla merita di essere amato o desiderato.
Con questo medesimo criterio
giudicano di tutti i doveri: tutto ciò che è visibile, se non è da disprezzarsi
senz’altro, va tenuto in molto minor conto dell’invisibile. Dicono che anche
nei sacramenti e nelle pratiche religiose si possono distinguere corpo e
spirito. Per esempio, nel digiuno non fanno gran conto dell’astinenza dalla
carne e dal pasto, che il volgo considera invece digiuno stretto; bisogna che
intervenga anche un controllo delle passioni, che si conceda meno del solito ai
moti d’ira o di superbia, perché lo spirito già meno gravato dal corpo si
innalzi al godimento dei beni celesti. Altrettanto dicasi della Eucaristia.
Benché non vada sottovalutato l’aspetto cerimoniale, questo per se stesso giova
poco, o addirittura è pernicioso in mancanza dell’elemento spirituale, cioè del
contenuto rappresentato da quei segni visibili. Si rappresenta la morte di
Cristo; i mortali devono parteciparvi come attori vincendo, sopprimendo, starei
per dire seppellendo, le passioni corporee per risorgere a nuova vita, per
fare, in totale comunione fra loro, tutt’uno con lui.
Queste le azioni, questi i
pensieri dell’uomo di fede. Il volgo, al contrario, crede che il sacrificio sia
tutto nello stare quanto più è possibile accanto agli altari, ascoltando il
rumore delle parole e badando ad altre quisquilie relative al rito.
Quanto al pio, non solo nelle
cose che abbiamo portato a esempio, ma in ogni occasione, rifugge da ciò che è
legato al corpo, tutto preso dall’eterno, dall’invisibile, dalla realtà
spirituale. Perciò, dato il loro radicale disaccordo su tutto, accade che
uomini di pietà e volgo a vicenda si prendano per matti. Ma, secondo me,
l’appellativo si addice piuttosto alla gente pia che non al volgo. E ciò
risulterà più chiaro se, come ho promesso, dimostrerò in poche parole che quel
sommo premio altro non è se non una forma di follia.
67 Considerate in primo luogo che
qualcosa di simile già vagheggiò Platone quando scrisse che il delirio degli
amanti è il più felice di tutti. Infatti chi ama ardentemente non vive in se
stesso, ma in colui che ama, e quanto più si allontana da sé e si trasferisce
in lui tanto più gode. E quando l’animo si propone di uscire dal corpo e non
usa debitamente dei suoi organi, a buon diritto senza dubbio si può parlare di
delirio. Altrimenti che cosa vogliono dire le comuni espressioni: "non è
in sé", o anche "torna in te stesso", e "è tornato in se
stesso"? D’altra parte quanto più è perfetto l’amore, tanto più è grande,
tanto più beato il delirio. Quale sarà dunque quella vita celeste che fa tanto
sospirare le anime pie? Lo spirito, che è il più forte, sarà vittorioso, e
assorbirà il corpo tanto più facilmente perché già in vita lo avrà mortificato
e indebolito in vista di una simile trasformazione. Poi sarà a sua volta
mirabilmente assorbito da quella somma Mente la cui potenza è infinitamente
superiore. A questo punto l’uomo sarà interamente fuori di sé, e solo per
questo felice, perché, essendo fuori di sé, subirà non so quale ineffabile
influsso di quel sommo Bene che tutto trae a sé.
Anche se questa felicità sarà
perfetta solo quando le anime, ripresa l’antica veste corporea, riceveranno il
dono dell’immortalità, gli uomini pii, dato che la loro vita è tutta una
meditazione di quella vita immortale, e quasi una sua immagine, possono
talvolta pregustare qualcosa, una sorta di anticipazione di quel premio. Si
tratta di una goccia da niente in confronto a quella fontana di eterna
felicità, ma che vale molto di più di tutti i piaceri corporei, anche se
potessimo farli convergere tutti in un punto solo. A tal punto la sfera dello
spirito è superiore al corpo, e quella dell’invisibile al visibile. Questa
certo è la promessa del Profeta: "l’occhio non vide, l’orecchio non udì,
non penetrarono nel cuore dell’uomo le cose che Dio ha preparato per coloro che
lo amano". Questa è la parte della follia che il passaggio da una vita
all’altra non toglie, ma porta a perfezione. Quelli che hanno potuto
parteciparne - pochissimi invero - sono còlti da un turbamento che alla follia
è vicinissimo; fanno discorsi incoerenti, proferendo parole strane e senza
senso; e poi, all’improvviso, mutano completamente d’espressione. Ora alacri,
ora depressi; ora piangono, ora ridono, ora sospirano; insomma sono davvero del
tutto fuori di sé. Appena rientrano in se stessi dicono di non sapere dove sono
stati, se nel corpo o fuori del corpo; di ignorare se erano svegli o
addormentati; di non sapere che cosa hanno udito, che cosa hanno detto, che
cosa hanno fatto; hanno solo dei ricordi che sembrano filtrare attraverso il
velo della nebbia o del sogno. Una sola cosa sanno: di essere stati al colmo
della beatitudine quando erano in quello stato. Perciò piangono per essere
tornati in senno, e soprattutto desiderano di essere in eterno in preda a quel
genere di follia. Hanno appena pregustato la felicità futura!
68 Dimentica di me stessa, ho
passato da un pezzo i limiti. Tuttavia, se vi pare che il discorso abbia
peccato di petulanza e prolissità, pensate che chi parla è la Follia, e che è
donna. Ricordate però il detto greco: "spesso anche un pazzo parla a
proposito"; a meno che non riteniate che il proverbio non possa estendersi
alle donne.
Vedo che aspettate una
conclusione: ma siete proprio scemi, se credete che dopo essermi abbandonata ad
un simile profluvio di chiacchiere, io mi ricordi ancora di ciò che ho detto.
Un vecchio proverbio dice: "Odio il convitato che ha buona memoria".
Oggi ce n’è un altro: "Odio l’ascoltatore che ricorda". Perciò addio!
Applaudite, bevete, vivete, famosissimi iniziati alla Follia.
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