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lunedì 5 agosto 2013

6 AGOSTO 1284 - LA BATTAGLIA DELLA MELORIA

La battaglia della Meloria fu una storica battaglia navale che vide coinvolta la flotta della Repubblica di Genova, quella della repubblica marinara di Pisa e una parte del popolo - gli attuali Livornesi - facente parte del territorio pisano, in ribellione nei confronti di Pisa. La battaglia, che avvenne nell'agosto 1284 al largo delle coste di Livorno, indebolì fortemente la flotta navale pisana dando inizio al lento declino di Pisa come potenza marinara in Italia durante il Medioevo. Dopo i grandi contrasti verificatisi nei secoli precedenti tra la Repubblica di Genova e la repubblica marinara di Pisa, l'occasione per lo scontro definitivo avvenne nel 1284. Parte della flotta genovese era ormeggiata presso Porto Torres, in Sardegna, allora territorio conteso tra le due repubbliche.
Il piano dei Pisani era di colpire in netta superiorità (settantadue galee) la flotta ligure per poi affrontare la rimanenza e chiudere per sempre il conto con i Genovesi.
Benedetto Zaccaria, futuro doge di Genova, che comandava quella parte di flotta (venti galee), eluse lo scontro, fingendo una ritirata verso il Mar Ligure. La flotta pisana lo incalzò, ma fu raggiunta dalla restante parte della flotta genovese (68 galee), e ripiegò verso Porto Pisano, non senza lanciare una provocazione ai Genovesi, sotto forma di una pioggia di frecce d'argento. La flotta della Repubblica di Genova raccolse la sfida, e il giorno 6 agosto 1284, giorno di San Sisto, patrono di Pisa (che da quel giorno non fu più festeggiato) salpò verso Porto Pisano.
L'ammiraglio genovese Oberto Doria, imbarcato sulla San Matteo, la galea di famiglia, guidava una prima linea di 63 galee da guerra composta da otto "Compagne" (antico raggruppamento dei quartieri di Genova): Castello, Macagnana, Piazzalunga e San Lorenzo, schierate sulla sinistra (più alcune galee al comando di Oberto Spinola), e Porta, Borgo, Porta Nuova e Soziglia posizionate sulla destra.
Benedetto Zaccaria comandava invece una squadra di trenta galee, lasciate volutamente in disparte per prendere di sorpresa la flotta pisana. Parte di essa era ormeggiata dentro Porto Pisano, mentre un'altra parte sostava poco fuori dal porto.
Si narra che durante la tradizionale benedizione delle navi, la croce d'argento del Bastone dell'Arcivescovo di Pisa, si staccò. I Pisani non si curarono di questa premonizione negativa: dopotutto era il giorno del loro patrono, San Sisto, anniversario di tante gloriose vittorie, e quella era un'ottima occasione per eliminare definitivamente i Genovesi: contando 63 legni genovesi, i Pisani forti di 9 navi in più decisero di uscire dal porto, ma quel "presagio" forse dava spazio all'entrata dei "Livornesi" nello scontro, a fianco ai Genovesi.
Secondo le consuetudini del Governo Potestale, i Pisani avevano scelto un forestiero come Podestà, Morosini da Venezia. I Veneziani com'è noto erano da sempre in rivalità contro Genova, ma in questo frangente avevano rifiutato l'appoggio alla repubblica toscana. Assistevano il Morosini: il Conte Ugolino della Gherardesca (celebre perché cantato da Dante nel XXXIII canto dell'Inferno nella Divina Commedia) e Andreotto Saraceno.
Dopo una prima esitazione i Pisani decisero di attaccare la flotta genovese e si lanciarono sulla prima linea. Entrambe le flotte erano in formazione a falcata ovvero a mezzo arco. Lo scontro era dunque frontale. I famosi balestrieri genovesi, al riparo dietro le loro pavesate, tiravano contro i legni pisani, mentre questi tentavano, secondo le tattiche dell'epoca, di speronare le navi con il rostro per poi abbordarle. Qualora l'abbordaggio non avesse luogo, gli equipaggi si colpivano con ogni sorta di munizioni scagliate da macchine belliche o dalle nude mani, come sassi, pece bollente e addirittura calce in polvere.
Le sorti della battaglia furono decise dopo ore dai trenta legni dello Zaccaria, che piombarono sul fianco pisano, colto completamente impreparato dalla manovra, ed ignaro della stessa esistenza di quelle galee: fu uno sfacelo di legno, corpi e sangue. Dell'intera flotta pisana, solo venti galee, quelle comandate dal Conte Ugolino, si salvarono. L'accusa di vigliaccheria, se non di tradimento, non impedirà al conte di conquistare la signoria de facto e di restare al vertice del governo della città fino alla sua deposizione (1288) e alla celebre morte per inedia (1289).
Alcuni storici riferiscono che il contingente di rinforzo genovese fosse nascosto dietro l'isolotto della Meloria (allora un basso scoglio sopra il livello del mare), ma si tratta probabilmente di un fraintendimento, dato che una squadra navale, anche piccola, non avrebbe assolutamente potuto evitare di essere vista. Secondo un'altra ipotesi le navi sarebbero state in realtà nascoste alla fonda di un'isola dell'arcipelago.
Un'altra ragione della sconfitta pisana deve essere individuata nell'ormai obsoleto armamento navale e individuale; le navi pisane, più vecchie e più pesanti, imbarcavano anche truppe armate con armature complete, nonostante la calura agostana, e durante la lunghissima battaglia i genovesi, muniti di armature ridotte e più leggere ne furono chiaramente avvantaggiati.
La gloria della Repubblica Pisana s'inabissò in quel giorno nelle acque della Meloria perdendo tra colate a fondo o cadute in mano nemica oltre 49 galere.
Tra i cinque e i seimila furono i morti, e quasi undicimila furono i prigionieri (alcune fonti citano fino a venticinquemila perdite tra morti e prigionieri) tra cui proprio il podestà Morosini, che fu portato con gli altri a Genova nel quartiere che da allora si sarebbe chiamato "Campopisano". Tra i prigionieri anche l'illustre Rustichello che aiutò Marco Polo a scrivere il suo Milione, nelle prigioni genovesi. Solo un migliaio di prigionieri pisani tornò a casa dopo tredici anni di prigionia. Gli altri morirono tutti e sono sepolti sotto il quartiere genovese che tristemente porta ancora il loro nome. La deportazione forzata di tante migliaia di prigionieri, depauperò spaventosamente la repubblica pisana non solo della sua popolazione maschile, ma anche di gran parte del proprio esercito, lasciandola così indebolita e spopolata da causarne la progressiva decadenza. In tale occasione, proprio in riferimento all'ingente numero di prigionieri pisani a Genova, nacque il detto " se vuoi veder Pisa vai a Genova". Pisa firmò la pace con Genova nel 1288, ma non la rispettò: fatto che costrinse Genova ad un'ultima dimostrazione di forza.
Nel 1290, Corrado Doria, salpò con alcune galee verso Porto Pisano, trovando il suo accesso sbarrato da una grossa catena tirata tra le torri Magnale e Formice. Fu il fabbro Noceto Ciarli (il cognome è spesso riportato anche come Chiarli) ad avere l'idea di accendere un fuoco sotto di essa per renderla incandescente in modo da spezzarla con il peso delle navi. Il porto fu raso al suolo e sulle sue rovine fu sparso il sale, come accadde per Cartagine ai tempi di Scipione, la campagna circostante devastata e saccheggiata.
Con questo evento, e con la definitiva presa della Sardegna pisana da parte Aragonese nel 1324, il potere sul mare di Pisa si spense definitivamente. Nel 1406 la città fu infine assoggettata da Firenze per la prima volta, ma solo dopo un lungo assedio che si concluse con la vendita della città da parte del pavido Capitano del Popolo Giovanni Gambacorta.
La grande catena del porto di Pisa fu portata a Genova, spezzata in varie parti che furono appese come monito a Porta Soprana e in varie chiese e palazzi della città (chiese di Santa Maria delle Vigne, San Salvatore di Sarzano, Santa Maria Maddalena, Sant'Ambrogio, San Donato, San Giovanni in Borgo di Prè, San Torpete, Santa Maria di Castello, San Martino in Val Polcevera, Santa Croce di Riviera di Levante; ponte di Sant'Andrea, Porta di Vacca, Palazzo del Banco di San Giorgio, Piazza Ponticello); furono restituite a Pisa solo dopo l'Unità d'Italia e sono attualmente conservati nel Camposanto Monumentale di Pisa. Uno degli anelli è ancora presente a Moneglia, borgo ligure, che partecipò con sue imbarcazioni alla battaglia.

Fonte: Wikipedia

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