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domenica 12 maggio 2013

I RACCONTI DI CANTERBURY - FRAMMENTO 3 - LA COMARE DI BATH

«Non ci fosse altra autorità al mondo, a me basterebbe l'esperienza per dirvi quanti guai ci sono nel matrimonio. Difatti, signori miei, di mariti alla porta di chiesa ne ho avuti cinque (tante sono invero le volte che mi son sposata!), e tutti a loro modo erano uomini in gamba. Però, non molto tempo fa, m'è stato detto che, siccome Cristo più d'una volta non sì recò a nozze, a Cana in Galilea, con quell'esempio m'avrebbe avvertito che anch'io più d'una volta non avrei dovuto sposarmi. E sentite poi che aspre parole disse Gesù, Dio e uomo, rimproverando la Samaritana presso il pozzo: 'Cinque mariti hai già avuto,' le fece 'ma l'uomo che ti ha sposato ora non è tuo marito!'. Proprio così le fece. Che cosa veramente intendesse, non lo saprei dire. Ma, mi domando io, perché mai il quinto uomo della Samaritana non doveva essere suo marito come gli altri? Era forse stabilito quanti mariti dovesse avere? In vita mia non ho mai sentito parlare a questo proposito d'un numero definito. La gente può mettersi a discutere e a questionare fin che vuole, ma io so, senza tante storie, che Dio ci ha espressamente comandato di crescere e di moltiplicare: è questo che per me fa testo. So che ha pure detto che mio marito avrebbe dovuto lasciare il padre e la madre per prendere me, ma non ha mai fatto menzione d'alcun numero, né di bigamia né di... ottogamia. E allora perché accanirsi tanto? Ecco, pensate al saggio re messer Salomone: credo che di mogli ne avesse altroché una! Dio volesse che anch'io potessi rinfrescarmi almeno la metà di lui! Quanta grazia di Dio con tutte quelle mogli! Nessun uomo al mondo n'ebbe mai tanta... Dio solo sa quante volte questo nobile re, m'immagino, marciasse allegramente all'attacco con ciascuna di loro la prima notte, gagliardo com'era! Ma, grazie al Cielo, i miei cinque me li sono sposati anch'io! E benvenuto il sesto, quando capiterà! Infatti, dico la verità, di far la verginella non me la sento proprio. Una volta che mio marito da questo mondo se ne sia andato, posso benissimo sposarmi con qualche altro cristiano, perché allora, come dice l'apostolo, sono di nuovo libera, a Dio piacendo, di maritarmi con chi voglio. Non dice affatto che sia peccato sposarsi... anzi, meglio sposarsi che ardere. Che m'importa se la gente parla male di Lamech e della sua bigamia? ... So benissimo che Abramo era un sant'uomo, e così Giacobbe, da quanto mi risulta: eppure ciascuno di loro ebbe più d'un paio di mogli; e così molti altri uomini santi. Da che mondo è mondo, quando mai avete visto l'Altissimo proibire espressamente il matrimonio? Avanti, ditemelo. E dove mai ha imposto la verginità? Vi assicuro, lo so anch'io che, parlando di verginità, l'apostolo disse di non avere al riguardo alcun precetto. Si può, sì, consigliare a una donna di rimanere casta, ma un consiglio non è mai un comandamento. Insomma, Dio si fida del nostro buon senso. Se veramente avesse imposto la verginità, avrebbe con quell'atto condannato il matrimonio. E allora, se non si spargesse nessun seme, anche chi è vergine come farebbe a nascere? Paolo non se la sentì proprio d'imporre una cosa sulla quale dal suo Maestro non aveva nessuna prescrizione. Ecco, mettiamola in palio, la verginità: l'acchiappi chi può, vediamo chi corre meglio. Non si tratta di qualcosa che va bene per tutti, ma solo per chi, a Dio piacendo, ne abbia la forza. So bene che l'apostolo era vergine; però, sebbene scrivesse e dicesse di voler che tutti fossero come lui, questo non era altro che un consiglio alla verginità. E dato che con me è già stato così indulgente da permettermi di diventare una moglie, non ci sarebbe niente di male se, una volta morto il mio compagno, mi risposassi; non si tratterebbe cioè di peccato di bigamia. 'Meglio sarebbe non toccar donna ...' però l'apostolo voleva dire nel suo proprio letto, tra le sue coltri, perché mettere insieme fuoco e paglia è pericoloso... Voi capite l'immagine di questo esempio. Insomma, lui riteneva la verginità più perfetta della fragilità del matrimonio. Ma io di fragilità parlerei piuttosto se lui e lei vivessero casti tutta la vita. Dico francamente la verità: a me la verginità non fa nessuna invidia, anche se sia preferibile alla bigamia. C'è a chi piace rimaner puro di corpo e di spirito: io m'accontento del mio stato. Sapete, nella casa d'un signore non è che tutti i vasi siano d'oro: ce ne sono anche di legno, eppure servono al padrone. Dio ci chiama a sé in diversi modi e ciascuno ha da Dio il suo dono particolare: chi questo e chi quello, come a lui piace. Gran perfezione è la verginità, e così pure la continenza unita alla devozione. Ma Cristo, che è fonte di perfezione, non a tutti ordinò di andare a vendere quel che avevano per darlo ai poveri, seguendolo così sulla sua strada. Egli parlava a quelli che vogliono vivere perfettamente. Però, signori miei, con vostra licenza, io non sono fra questi. Il fiore dei miei anni io lo voglio dedicare agli atti e al frutto del matrimonio. E poi, insomma, ditemi: a che scopo furono fatti gli organi della generazione? e perché in modo così perfetto? State pur certi che per niente non vennero fatti. Disputi chi vuole, e dica il pro e il contro, che vennero fatti per depurar l'urina, e che quelle due coserelle servono solo per distinguere una femmina da un maschio e basta... Ah, dite di no? In pratica sapete bene che non è così! Ma tanto perché i chierici non se la prendano con me, dico questo: che vennero fatti sia per una ragione che per l'altra, cioè sia per praticità che, a Dio piacendo, per godimento di genitura. Se no, perché starebbe scritto nei libri che il marito deve pagare il suo debito alla moglie? E con che cosa pagherebbe, se non usasse il suo bravo strumento? Vedete dunque che vennero dati a tutte le creature sia per depurar l'urina che per procreare. Con ciò non dico che tutti quanti, avendo l'arnese che vi ho detto, siano obbligati a usarlo solo per procreare, perché allora nessuno si prenderebbe più cura della castità. Cristo era vergine, pur essendo un vero uomo. E così, da che mondo è mondo, ci sono stati molti santi che hanno trascorso la loro vita in perfetta castità. Io, però, i casti non l'invidio. Loro saranno puro seme di frumento, mentre noi maritate ci chiamano pan d'orzo: eppure dice Marco che, di pan d'orzo, Gesù nostro Signore tolse la fame a parecchia gente. Insomma, io m'accontento dello stato in cui Dio ci ha chiamate, e non sto a fare la preziosa. Da brava moglie, voglio usare quella mia cosa con la stessa generosità con cui il Creatore me l'ha data. Dio me ne guardi dal fare la schifiltosa! Mio marito potrà prendersela sera e mattina, ogni volta che avrà voglia di farsi avanti a pagare il suo debito. E voglio un marito che non si tiri indietro, che mi sia sempre debitore e schiavo e, fin quando sono sua moglie, abbia le sue tribolazioni nella carne. Fin che vivo, son io che ho diritto sul suo corpo, non lui. Così dice l'apostolo, e ai nostri mariti raccomanda di amarci come si deve, raccomandazione che mi garba in tutto e per tutto...»
A questo punto saltò su l'Indulgenziere: «Signora,» disse «per Dio e per San Giovanni, voi sapete perorarla bene la vostra causa! Povero me, ero lì lì per prender moglie: perché dovrei pagarla tanto cara con la mia carne? Forse è meglio che per ora non mi sposi!».
«Eh, aspetta!» fece lei; «il mio racconto non è neanche incominciato. Dovrai sorbirtene un altro barile prima ch'io abbia finito, ma altro che birra ti dovrai bere! Quando poi ti avrò raccontato la mia storia sui triboli del matrimonio - io me ne intendo, perché ho passato tutta la vita sotto quella frusta -, allora mi dirai se vuoi ancora bere dalla botte che spillerò. Attento, prima di fare quel passo: d'esempi te ne posso portare a decine. Chi non approfitta dell'esperienza altrui, diventerà lui d'ammonimento agli altri. Queste precise parole scrive Tolomeo: leggi il suo "Almagesto", e le troverai.»
«Ma vi prego, signora,» disse allora l'Indulgenziere «se non dispiace a voi, come avete incominciato, finite pure la vostra storia. E non state a far risparmi con nessuno: insegnateci con la vostra pratica, a noi che siamo giovani.»
«Ben volentieri,» disse lei «se vi fa piacere. Prima però, vorrei pregare tutta la compagnia che, se qualche volta parlo a vanvera, non se l'abbia a male per ciò che dico; ho solo intenzione di scherzare. Ed ecco, signore, ora vi racconto la mia storia... Non vorrei poter più bere né vino né birra, se non dico la verità, ma dei mariti che ho avuto tre erano buoni e due cattivi. I tre buoni erano ricchi e vecchi, e a stento riuscivano a far fronte ai patti con cui s'erano vincolati a me. Capite bene che cosa voglio dire, perdio! M'aiuti il Cielo, ma mi vien da ridere a pensare con che fatica di notte li facevo lavorare! Mentre a me, parola mia, non ne importava niente. Ormai m'avevano dato terre e denaro: non c'era più bisogno che mi dessi da fare per conquistarne l'amore o riverirli. Mi amavano già tanto, perdio, che non sapevo più che farmene del loro amore! Una donna di giudizio, certo, fa di tutto pur d'ottenere l'amore quando ne sia senza. Ma siccome quelli erano completamente in mano mia e mi avevano dato tutte le loro terre, perché avrei dovuto preoccuparmi d'accontentarli più di quanto mi desse comodo e profitto? Li facevo già tanto lavorare, parola mia, che spesso di notte cantavano il miserère! Non era per loro, ve l'assicuro, il prosciutto che certi uomini prendono a Dunmow nell'Essex. Me li governavo così bene a modo mio, che ciascuno era felice e contento di portarmi gaie cose dalla fiera. Erano poi lietissimi se qualche volta li prendevo con le buone, perché di solito Dio sa come li investivo malamente. Ecco, sentite come mi comportavo, soprattutto voi sagge donne che mi capite. Così bisogna parlare e metterli nel sacco, tanto non c'è uomo che sappia spergiurare e mentire neppure la metà di una donna. Non vi dico questo, pensando che le donne non siano giudiziose, ma solo in caso che agiscano inavvertitamente. Ah, una donna di giudizio, che sappia il fatto suo, riesce a fargli credere perfino che una cornacchia può impazzire, chiamando poi a testimone la fantesca che con lei è d'accordo. Ma sentite come dicevo io:
«'Messer vecchio cagnolone, è tutto qui il tuo corredo? Guarda com'è elegante la moglie del vicino! Lei fa sempre bella figura dovunque vada, mentre io me ne sto chiusa in casa perché non ho uno straccio decente. E tu che fai, sempre in casa della vicina? È tanto bella? Ne sei tanto innamorato? Che hai da parlottare sempre con la serva? "Benedicite", messer vecchio sporcaccione, devi piantarla coi tuoi sollazzi! Quando poi io, senza colpa, ho un compare o un amico, tu ti metti a latrare come un demonio se solo vado o m'intrattengo in casa sua! Torni sempre ubriaco come un sorcio ed hai il coraggio di far la predica dal pulpito! Mi vieni a dire ch'è una gran disgrazia sposare una donna povera, perché costa; se è ricca e di gran paraggio, allora dici che è una tortura sopportarne la superbia e le mattane; se poi è bella, brutto mascalzone matricolato, dici che ogni vizioso la vorrebbe e che non può rimanere onesta una che viene sempre assalita da ogni parte. Insomma, c'è chi ci vuole per la nostra ricchezza, chi per le nostre forme e la nostra bellezza; questa perché sa cantare o ballare, quella perché è garbata e parla bene, quell'altra perché ha mani e braccia graziose: così, a sentir le tue storie, tutte vanno al diavolo. Dici che non c'è muro di castello che tenga, quando è così a lungo assalito da ogni parte. Se poi è brutta, dici che smania per ogni uomo che le capita sotto gli occhi e gli salta addosso come una cagna, finché non trova qualcuno con cui mettersi a contrattare. A sentir te, non c'è oca nel lago, per grigia che sia, che voglia starsene senza maschio. Perché è difficile, dici, tenersi qualcosa che nessuno ti fa la grazia di volere. Ecco che cosa dici, buono a nulla, quando vieni a letto; e aggiungi che nessun uomo di buon senso dovrebbe mai sposarsi, né chi voglia andare in paradiso. Che un colpo secco di tuono e un lampo di fuoco ti spezzino quel tuo collo raggrinzito! Mi vieni a dire che muri cadenti, fumo e moglie brontolona fanno scappare l'uomo di casa. Ah, "benedicite!" con un simile vecchio, come si fa a non brontolare? Dici che noi donne teniamo nascosti i nostri difetti fin che non siamo al sicuro, e che poi li mettiamo bene in mostra: bel proverbio da spiritoso! Dici che i buoi, gli asini, i cavalli e perfino i cani vengono messi alla prova diverse volte, e così i catini e le bacinelle, prima di essere comprati, e cucchiai e sgabelli e altra simile roba. Ma delle mogli no, nessuno fa la prova finché non si siano sposate; e dici che allora finalmente, vecchio maligno rimbambito, mettiamo in mostra i nostri difetti. Dici anche che mi offendo se tu non ti metti a lodare le mie bellezze, e non mi guardi negli occhi e non mi dici 'cara' di qua e 'cara' di là; o se non mi festeggi il giorno del compleanno con nuovi abiti eleganti, se non porti rispetto alla balia e alla fantesca in camera mia, alla gente di mio padre e ai suoi soci. Ecco che cosa dici, vecchio barile di fandonie! A proposito poi di Gioacchino, il nostro apprendista, solo perché ha i capelli ricci che risplendono come l'oro, e mi fa qua e là qualche servizio, ti sei lasciato prendere da tutti quei sospetti infondati. Io, quello, non lo vorrei neanche se tu morissi domani! Dimmi piuttosto: perché, accidenti, mi nascondi sempre le chiavi dello scrigno? È roba mia come tua, perdio! Vuoi far passare madonna per un'idiota? Ah, no, per quel messere che è San Giacomo, se anche farai il matto, non sarai mai padrone del mio corpo e della mia roba. O l'uno o l'altra: è inutile che mi guardi con quegli occhi. Che bisogno c'è di star sempre a spiarmi e a sorvegliarmi? Sembra che tu voglia chiudermi nel tuo scrigno! Invece dovresti dire: moglie, va' pure dove ti pare, divertiti, non permetterò a nessuno di far chiacchiere; so che siete una brava moglie, madonna Alice. A noi non piace l'uomo che si dà cura e pensiero di dove andiamo: vogliamo essere libere noi, Beato fra tutti gli uomini il saggio astrologo, messer Tolomeo, che nel suo "Almagesto" dice questo proverbio: saggezza massima è di non curarsi mai di chi abbia in mano il mondo. Che in altri termini vuol dire: quando tu hai abbastanza, che t'importa, che t'interessa se gli altri se la spassano allegramente? A dire il vero, se permettete, vecchio babbione, di quella mia cosa ne avete ogni notte a sazietà. Ed è proprio un gran meschino chi vuole impedire ad uno di accendere la candela alla sua lanterna: non è che gli porti via la luce, perdio! Tu ne hai già abbastanza, e dunque smettila di lamentarti. Appena poi ci agghindiamo con un vestito e qualche prezioso ninnolo, eccoti subito a dire che la nostra castità è in pericolo; e, accidenti, ti fai forte citando le parole dell'apostolo. Voi donne vi acconcerete con abiti fatti di castità e verecondia, diceva lui, senza trecce nei capelli né gioielli vistosi e perle, senza oro e sontuose vesti. Ma per me il tuo testo e la tua rubrica non valgono più d'un moscerino. Anche questo hai detto: che io sono come una gatta. A una gatta basta strinare un po' di pelo, e quella se ne sta rincantucciata in casa. Però, se la gatta ha il pelo liscio e lustro, non rimane a casa neppure mezza giornata, ma se ne scappa via prima dell'alba a mettere in mostra la sua pelliccia e a miagolare. Il che vuol dire che se fossi elegante, messer farabutto, anch'io scapperei fuori a mettere in mostra la sottana. Messer vecchio balordo, che ti serve spiarmi tanto? Anche se tu pregassi Argo coi suoi cento occhi di farmi da guardiacorpo come meglio potesse, parola mia, non ci riuscirebbe se io solo volessi: caspita, saprei io fargliela in barba! Dici anche che ci son tre cose che scompigliano questo mondo, e che nessuno potrebbe sopportarne una quarta. Ah, caro messer mascalzone, Gesù t'accorci la vita! Ancora predichi e dici che una moglie odiosa è proprio una di queste disgrazie. Ma non ci sono altri esempi per le tue parabole, senza che c'entri una povera moglie? Paragoni l'amore di una donna a un inferno, a una terra sterile senz'acqua. Lo paragoni al fuoco greco, che più brucia più ha voglia di bruciare ogni cosa che s'incendi. Dici che, come i vermi rodono una pianta, così una moglie a poco a poco distrugge suo marito; e che questo, lo possono sapere soltanto quelli che si son legati a una moglie...»
«Così, signori, come avete sentito... facevo toccar con mano ai miei vecchi mariti d'aver detto proprio così quand'erano ubriachi. Tutto era falso naturalmente, ma io avevo per testimoni Gioacchino e mia nipote. Oh Dio, quante pene e quanti dolori davo a quei poveri innocenti, santa passione di Cristo! Mordevo e nitrivo come una cavalla. Ero io che mi lamentavo, pur essendo in colpa; altrimenti chissà quante volte l'avrei passata male. Chi per primo arriva al mulino, per primo macina. Io ero sempre la prima a lamentarmi, e così cessava ogni nostra guerra. Subito dopo erano ben felici di scusarsi per colpe che in vita loro non avevano mai commesso. Li accusavo di correre dietro alle ragazze, mentre, quelli, coi loro acciacchi, a stento si reggevano in piedi. Eppure ognuno in cuor suo si sentiva solleticato, perché pensava che mi preoccupassi di lui! Giuravo che tutte le mie uscite di sera erano per spiare con che ragazze si accompagnasse. E con quella scusa ogni tanto me la godevo... Noi siamo nate con la furbizia addosso: in questa vita, inganni, piagnistei e filo da torcere, Dio ne ha dati alle donne in grande abbondanza. D'una cosa io mi vanto: che con l'astuzia o con la forza o in qualche altro modo, brontolando e grugnendo continuamente, alla fine avevo sempre partita vinta. Soprattutto a letto se la passavano male perché li strapazzavo sempre senza lasciarli mai godere. Appena sentivo che lui mi toccava i fianchi, non volevo più rimanere a letto, finché, per scusarsi, non mi regalava qualcosa, e allora finalmente gli permettevo di sfogare il suo capriccio. Lo dico sempre a tutti: guadagni chi può, perché ogni cosa ha il suo prezzo e a mani vuote non si acchiappa nessun falco. Pur di avere qualche vantaggio, sopportavo tutta la sua fregola facendo finta d'aver appetito, anche se a me il lardo stagionato non è mai piaciuto. Ecco perché avrei sempre preferito litigare. Ci fosse stato anche il papa seduto accanto a loro, a tavola non li avrei mai risparmiati: vi giuro che ribattevo parola per parola. Mi aiuti l'onnipotente e vero Iddio, se in questo istante dovessi far testamento, non avrei da lasciar loro neppure una parola che già non sia stata resa. La facevo così lunga con le mie discussioni, che per loro era meglio arrendersi, altrimenti non avremmo mai avuto pace. Perché, se anche si fosse messo a fare il leone inferocito, era sempre lui che alla fine avrebbe dovuto cedere. E allora gli dicevo: 'Caro, venite a vedere com'è mansueta Wilkin, la nostra pecorella! Venite qui, mio sposo, lasciate che vi dia un bacio sul ganascino! Dovreste essere tutto paziente e buono, e aver coscienza tenera e scrupolosa, voi che tanto predicate la pazienza di Giobbe. Siate sempre tollerante, voi che sapete così bene predicare, se non dovremo insegnarvi noi come sia giusto lasciare in pace la moglie. Uno dei due deve per forza cedere: dato che l'uomo è più ragionevole della donna, tocca a voi essere paziente. Che vi prende per lamentarvi e brontolare in questo modo? E' solo perché volete quella mia cosa? Ma prendetevela tutta, ecco, e tenetevela! Per San Pietro, accidenti a voi se non l'amate come si deve! Perché, se volessi venderla, la mia "belle chose", potrei andarmene in giro fresca come una rosa, e invece voglio serbarla tutta per il vostro dente. Veramente siete voi, perdio, che bisognerebbe biasimare!'. Questi erano i discorsi che facevamo. Ma ora vi parlerò del mio quarto marito.
«Il mio quarto marito era un bagascione, ossia aveva un'amante... e pensare che io ero giovane e piena di foga, caparbia e forte, e allegra come una gazza! E come ballavo al suono dell'arpa! Sapevo anche cantare come un usignolo, appena avevo bevuto un sorso di buon vino. Neanche Metellio, quel lercio zoticone, quel porco che ammazzò la moglie a bastonate perché beveva vino (fossi stata io sua moglie!), non sarebbe riuscito a farmi smettere di bere. E dopo il vino, dovevo subito pensare a Venere, perché, com'è vero che il freddo genera la grandine, così a bocca buona corrisponde buona coda! E donna vinosa è senza difesa, come in pratica sanno i lussuriosi. Ma, Cristo Signore! quando mi viene in mente la mia gioventù e la mia allegria, mi sento solleticare il cuore alla radice. Ancor oggi mi fa bene al cuore pensare che ai miei tempi me la son goduta. Ma gli anni, ahimè, che avvelenano tutto, mi hanno tolto bellezza e vigore... E che vadano, salute! il diavolo se li accompagni! La farina è partita, non c'è che dire: non mi resta che vendere come posso un po' di crusca. Eppure ho ancora intenzione di stare allegra... ma torniamo ora al mio quarto marito. Come vi dicevo, avevo in cuore un gran dispiacere che se la spassasse con un'altra. Ma per Dio e per San Giossa, me la pagò. Gli feci una croce dello stesso legno: non che usassi del mio corpo in modo sconcio, ma, veramente, lanciavo agli uomini certe occhiate, da farlo friggere nel suo stesso grasso di rabbia e di cieca gelosia. Perdio, fui il suo purgatorio in terra, e perciò spero che la sua anima sia ora in paradiso! Dio sa quante volte dovette mettersi a sedere e cantare con le scarpe che gli facevano male! Nessuno al mondo, all'infuori di Dio e di lui, seppe mai in quanti modi lo tormentassi senza pietà. Morì al mio ritorno da Gerusalemme, e giace sepolto sotto l'arco del coro. La sua tomba, certo, non è preziosa come il sepolcro di Dario, lavorato con tanta finezza da Apelle: non sarebbe stato che uno spreco, seppellirlo con tanto lusso. Ma che stia in pace, e Dio lasci riposare l'anima sua, ora che è nella fossa dentro la bara!
«E passiamo a parlare del mio quinto marito. Dio voglia che la sua anima non vada mai all'inferno! Eppure con me fu il più mascalzone: ne risento ancora lungo tutta la nervatura delle mie costole, e sempre ne risentirò, fino al termine dei miei giorni. Ma a letto era così fresco e gaio, e per di più sapeva sollecitarmi così bene, quando aveva voglia della mia "belle chose", che se anche m'avesse rotto tutte le ossa, avrebbe saputo subito riconquistarsi il mio amore. Credo di averlo amato più di tutti, proprio perché era duro nel suo amore per me. E' proprio vero che noi donne abbiamo strani capricci a questo riguardo: appena c'è una cosa che non sia facile avere, vi piangiamo e strepitiamo dietro tutto il giorno; proibiteci una cosa, e noi vogliamo proprio quella; teneteci strette e noi scappiamo; con renitenza tiriamo fuori la nostra mercanzia: troppa gente al mercato fa salire il prezzo, e prezzo troppo modico fa scader la merce. Son tutte cose che una donna di buon senso sa. Il mio quinto marito (Dio gli benedica l'anima!) quello che sposai per amore e non per interesse, era stato per qualche tempo studente ad Oxford. Poi aveva abbandonato le scuole e s'era messo a pensione in casa della mia comare, che viveva nella nostra città. Dio le protegga l'anima, anche lei si chiamava Alice. E conosceva il mio cuore e le mie faccende private meglio del nostro parroco, vi assicuro. A lei confidavo tutto. Sia che mio marito avesse fatto una pisciatina contro un muro o qualcosa che avrebbe potuto costargli la vita, a lei, a un'altra donna fidata e a mia nipote, alla quale volevo molto bene, avrei raccontato ogni segreto. Dio solo sa quante volte lo facevo: e lui diventava tutto rosso e si accendeva in faccia di vergogna, rimproverandosi d'avermi fatto tante confidenze. Una volta, durante una quaresima (andavo spesso dalla mia comare, dato che m'è sempre piaciuto mettermi in ghingheri e andare verso marzo, aprile e maggio, a sentir chiacchiere da una casa all'altra) capitò che Giannino, lo studente, e la mia comare madonna Alice ed io ce ne andassimo a passeggio per i campi. Mio marito era a Londra per tutta la quaresima, e perciò avevo maggior comodo di svagarmi, di vedere e di farmi vedere da gente allegra. Come sapere altrimenti in che modo o dove far dono delle mie grazie? Ragion per cui facevo le mie visite alle vigilie e alle processioni, alle prediche e ai pellegrinaggi, alle sacre rappresentazioni e ai matrimoni, sempre con le mie belle gonne scarlatte. Non c'era pericolo che i vermi, le tarme o i tarli me ne rodessero un solo filo. E sapete perché?... perché le avevo sempre indosso! Ma ora vi dico che cosa mi capitò. Dunque, camminavo per i campi, quando questo studente ed io ci trovammo in tale confidenza, che col bel garbo gli parlai e gli dissi che se fossi rimasta vedova m'avrebbe avuta in moglie. Perché veramente, lo dico senza nessuna vanteria, in fatto di matrimoni non ho mai mancato di previdenza, e neppure in altre cose. Per me, cuor di topo non vale un fico quand'abbia un solo buco per scappare: se gli manca quello, è rovinato!... Gli detti a intendere che m'aveva stregata (mia madre mi aveva insegnato quell'astuzia). Gli dissi anche che avevo sognato di lui tutta la notte: che voleva uccidermi mentre giacevo supina, e che tutto il mio letto era coperto di sangue; ma che pure speravo mi portasse bene, perché sangue vuol dire oro, a quel che m'hanno insegnato. E tutto era falso: non avevo fatto nessun sogno. Solo che, in questa come in tante altre cose, seguivo gl'insegnamenti della mia vecchia... Ma ora, signore, vediamo, che cosa stavo per dire? Ah sì, perdio, ho ripreso il filo! Quando il mio quarto marito fu nella bara, naturalmente piansi, e feci il viso triste come bisogna che facciano le mogli, dato che c'è l'usanza, e mi coprii la faccia col fazzoletto. Ma, siccome m'ero già provveduta d'un compagno, non piansi granché, ve l'assicuro. L'indomani mio marito fu portato in chiesa, seguito dai vicini che gli facevano il compianto: fra questi c'era anche Giannino il nostro studente. Dio m'aiuti! ma quando lo vidi camminare dietro la bara, mi parve che avesse un paio di gambe e di pieduzzi così netti e belli, che tutto il mio cuore gli diedi in signoria. Avrà avuto venti primavere, e io, a dir la verità, avevo quarant'anni, ma conservavo ancora denti da puledra. Ed erano denti ben distanziati che mi si addicevano: avevo così il marchio del suggello di Santa Venere. M'aiuti Iddio, ma ero calorosa e bella, ricca, ancora giovane e ben fornita; e vi garantisco che, come dicevano i miei mariti, avevo la miglior "quoniam" che si potesse trovare. Difatti io appartengo a Venere per il sentimento, ma il mio cuore è di Marte: Venere mi ha dato passione e cuore, e Marte il mio trepido ardimento. Il mio ascendente era il Toro, e Marte era nel Toro. Ahimè, ahimè, che amor fu mai peccato! Io ho sempre seguito la mia inclinazione per virtù della mia stella: perciò non ho mai saputo rifiutare a un buon diavolo la mia camera di Venere. E poi ho il segno di Marte sulla faccia e anche in un altro posto segreto... Dio mi perdoni, ma non ho mai saputo amare con discrezione. Ho sempre seguito il mio appetito, corti o lunghi, neri o bianchi che fossero; purché mi amassero, non stavo a guardare se erano poveri o di che rango. Che debbo dirvi? Alla fine del mese, l'allegro studente Giannino, ch'era così garbato, mi sposò con gran solennità, e io gli diedi tutte le terre e le rendite che prima erano state date a me. Ma dovetti subito pentirmene amaramente, perché non gli andava nulla di quello che mi piaceva. Perdio, una volta, per avergli strappato una pagina da un libro, mi diede una tale sberla, che per il colpo diventai completamente sorda da un orecchio. Testarda lo ero, come una leonessa, e avevo la lingua d'una gran pettegola, e andavo sempre in giro da una casa all'altra, per quanto lui me l'avesse proibito. E perciò spesso mi faceva la predica, citandomi le gesta degli antichi romani; come quella d'un certo Simplicio Gallo che abbandonò la moglie e non ne volle più sapere, solo perché un giorno l'aveva vista guardar fuori della porta a capo scoperto. Mi nominò anche un altro romano che abbandonò la moglie, perché, a sua insaputa, una volta era andata ai ludi estivi. E poi cercava nella sua bibbia quel proverbio del "Qoèlet" che proibisce e vieta severamente a un uomo di lasciar andare in giro la propria moglie. Anzi, diceva esattamente così:
'Chi si costruisce la casa senz'alàri,
Chi spinge il cavallo cieco nel fossato
E lascia che sua moglie vada per santuàri,
Merita sulla forca d'essere impiccato!'
Ma era tutto inutile. Per me i suoi proverbi e i suoi antichi detti non valevano una gallozza, e non volevo che mi trovasse a ridire. Odio chi mi viene a far vedere i miei difetti, e Dio sa che non sono là sola. Questo lo mandava completamente in bestia, ma io non volevo cedere per nessun motivo. Ecco, per San Tommaso, vi voglio veramente raccontare perché gli strappai la pagina dal libro e perché mi diede quel tal colpo che mi fece rimaner sorda. Aveva un libro che si divertiva a leggere notte e giorno; lo chiamava "Valerio e Teofrasto", e con quel libro rideva sempre a crepapelle. C'entrava anche un letterato di Roma, un cardinale, detto San Gerolamo, con un suo trattato contro Gioviniano; c'erano pure Tertulliano, Crisippo, Trotula ed Eloisa, quella che faceva la badessa non lontano da Parigi; e poi le parabole di Salomone, l'"Arte" di Ovidio e molti altri testi, tutti rilegati in un unico volume. Ogni sera e ogni giorno, appena aveva tempo ed era libero da altri impegni, leggeva quel libro che parlava di cattive mogli. Sapeva su di loro più vite e miracoli di quanti ve ne siano nella Bibbia su mogli virtuose. Certo, è impossibile che un letterato parli bene delle donne, a meno che non si tratti della vita di qualche santa; ma mai di nessun'altra. Chi dipinse il leone, ditemi, chi? ... Perdio, se le donne scrivessero storie, come fanno i chierici nei loro oratori, direbbero degli uomini più male di quanto la razza d'Adamo possa mai riparare! I figli di Mercurio e quelli di Venere agiscono in modo completamente opposto: Mercurio ama la saggezza e la dottrina, Venere le spese e le baldorie. E per la loro diversa disposizione, l'uno sale quando l'altra scende. Così, Dio sa perché, Mercurio nei Pesci cala, mentre Venere ascende; e Venere tramonta quando Mercurio sorge. Ecco perché il chierico non loda mai la donna. E quando è vecchio, non sapendo più compiere lavori di Venere che valgano una ciabatta, allora il chierico si mette a sedere e, nel suo rimbambimento, scrive che le donne non sanno tener fede al matrimonio!... Ma torniamo al punto, al perché, dicevo, venni percossa per un libro, perdio!... Una sera dunque, Giannino, mio marito, si mise a leggere il suo libro, seduto accanto al fuoco, incominciando da Eva, che col suo peccato portò alla rovina tutto il genere umano, motivo per cui fu ucciso lo stesso Gesù Cristo, il quale ci redense col sangue del suo cuore; ed ecco che già qui si trovava espressamente detto come la donna fosse la perdizione dell'umanità intera. Mi lesse poi come Sansone perdette i suoi capelli: mentre lui dormiva, la sua bella glieli tagliò con le forbici, e in seguito a questo tradimento egli diventò cieco da tutt'e due gli occhi. Poi, se non sbaglio, mi lesse di Ercole e della sua Deianira, la quale lo costrinse a darsi fuoco. Non si scordò neppure delle pene e dei dolori sofferti da Socrate con le sue due mogli, né di come Santippe gli buttasse la piscia in testa... quel poveruomo restò secco come un morto e s'asciugò il capo senza dir altro che: 'Prima tuona e poi piove!'. Arrivò perfino a dirmi che per lui la storia di Pasifae, regina di creta, era una soave storia... meglio non parlarne! è una cosa schifosa... quella sua lussuria e quel suo innamoramento! La storia di Clitennestra poi, quella che per libidine fece uccidere il marito a tradimento, la lesse addirittura con devozione. Mi raccontò anche in che circostanza Anfiarao perse la vita a Tebe: mio marito tirò fuori una leggenda sulla moglie di costui, Erifile, la quale, per una spilla d'oro, avrebbe di nascosto rivelato ai Greci in che punto si nascondesse suo marito, e perciò questi trovò a Tebe la malasorte. Mi raccontò di Livia e di Lucilla, due che uccisero il marito: l'una per amore e l'altra per odio. Livia una notte avvelenò il marito perché non lo poteva più vedere. La lussuriosa Lucilla, invece, era così innamorata di suo marito che, per costringerlo a pensare sempre a lei, gli diede da bere un certo filtro d'amore che prima dell'alba lo fece morire. Ecco quale sarebbe il destino dei mariti! Mi raccontò poi come un certo Latumio si lamentasse con l'amico Arrio perché nel suo giardino cresceva un certo albero, al quale, disse, le sue tre mogli s'erano impiccate per cattiveria d'animo. 'Carissimo fratello,' gli disse Arrio 'dammi un ramo di quell'albero benedetto, lo pianterò anche nel mio giardino!' Mi lesse casi più recenti di altre mogli: chi aveva ammazzato il marito a letto e s'era poi fatta suonar tutta la notte dall'amante, mentre il morto giaceva supino sul pavimento; chi lo aveva fatto fuori, conficcandogli un chiodo nel cervello mentre dormiva; e chi gli aveva messo il veleno nelle bevande. Disse più male di quanto il cuore possa immaginare; e per giunta sapeva più proverbi di quanti fili d'erba crescano al mondo. 'Meglio vivere con un leone,' diceva 'o con un drago schifoso, che con una donna abituata a litigare.' Oppure: 'Meglio stare in alto sopra il tetto che con una moglie stizzosa dentro casa: sono così malvagie da odiare per dispetto tutto ciò che il marito ama'. Diceva: 'Una donna perde il pudore, appena perde la camicia'. E poi ancora: 'Una bella donna che non sia casta, è come un anello d'oro nel naso d'una scrofa'... Chi può capire, o anche solo immaginare, la pena e il tormento che avevo dentro il cuore? Vedendo che non la voleva mai finire di leggere tutta la notte quel maledetto libro, all'improvviso gliene strappai tre pagine, proprio mentre leggeva, e gli azzeccai un pugno così forte sulla guancia, che lui andò a finire riverso dentro il fuoco. Balzò su come un leone impazzito e mi cacciò a sua volta un tal pugno in testa, che rimasi stecchita sul pavimento. Vedendo che non mi muovevo più, si prese paura ed era lì per scappar via, quando all'ultimo ripresi i sensi: 'Ah, traditore ladro, m'hai ammazzata?' dissi. 'E m'hai così assassinata per le mie terre? Ma prima di morire, voglio darti un bacio'. Lui mi venne vicino, si mise in ginocchio, e disse: 'Licetta, sorellina cara, mi aiuti Iddio, non ti picchierò mai più! Se ho fatto questo, la colpa è stata tua. Perdonami, te ne supplico!'. Ma io di scatto gli diedi una botta sulla faccia e gli dissi: 'To', ladro, così almeno mi sono vendicata! Ora voglio morire, non posso più parlare'. Ma alla fine, con gran pena e fatica, riuscimmo a metterci d'accordo. Lui mi diede tutta la briglia in mano, lasciandomi il governo della casa e delle terre, come pure della sua lingua e delle sue mani, ed io gli feci subito bruciare il libro. E dopo che con astuzia riebbi tutto il comando e lui mi disse: 'Mia cara fedele moglie, finché vivi fa' come vuoi; abbi cura del tuo onore e dei miei beni'... da quel giorno non facemmo più nessuna lite. M'aiuti Iddio, fui con lui gentile come nessun'altra moglie, dalla Danimarca all'India, e anche fedele; e così fu lui con me. Prego Iddio che, dall'alto della sua maestà, gli benedica l'anima con la sua dolce misericordia! Vi narrerò ora il mio racconto, se ancora avete voglia d'ascoltare.»
Eccovi ora le parole scambiate fra il Cursore e il Frate.
Il Frate scoppiò a ridere, quand'ebbe udito tutto questo: «Eh, signora,» disse «ch'io possa aver gioia e beatitudine, se questo non è un lungo preambolo per un racconto!».
E il Cursore, sentendo il Frate sghignazzare, fece: «To', per le due braccia di Dio, un frate vuol sempre intromettersi da tutte le parti! Guardate, buona gente, fa come la mosca che va a finire in ogni piatto e su ogni faccenda... Cos'hai da dire sulla preambulazione? Ma va'! tu piuttosto ambula, trotta, cammina oppure mettiti a sedere, guastafeste che non sei altro!».

«Ah, è così, messer Cursore?» disse il Frate. «Ebbene, parola mia, prima d'andarmene, racconterò una storiella o due d'un cursore, da far ridere tutta la gente che è qui!»
«E invece, Frate, sia maledetta la tua faccia,» disse il Cursore «e maledetto me, se prima d'arrivare a Sittingbourne non racconterò io due o tre storielle di frati, che ti faranno crepare il cuore, visto che pazienza non ne hai ...»
Gridò il nostro Oste: «Smettetela, e subito!». Poi soggiunse: «Lasciate che questa donna racconti la sua storia. Vi comportate come gente ingozzata di birra. Su, madonna, narrate il vostro racconto, che è meglio».
«Prontissima, messere,» rispose lei «come voi volete, se questo degno Frate lo permette...»
«Ma certo, signora» fece costui «dite pure, sono tutt'orecchi!»

Qui termina il Prologo della Comare di Bath.

RACCONTO DELLA COMARE DI BATH

Qui comincia il Racconto della Comare di Bath.

Ai vecchi tempi di re Artù, di cui i britanni dicono un gran bene, tutto questo paese era pieno di fate. La regina degli elfi, con la sua allegra compagnia, andava spesso a ballare sui verdi prati: questo almeno, stando ai libri, era quello che si credeva allora. Parlo di molte centinaia d'anni fa. Certo, al giorno d'oggi, gli elfi nessuno più li vede, perché adesso la grande carità e le preghiere dei questuanti e degli altri santi frati, che percorrono ogni terra e ogni corso d'acqua, fitti come moscerini in un raggio di sole, benedicendo sale, camere, cucine, pergolati, città, borghi, castelli e alte torri, villaggi, granai, stalle e fattorie, hanno fatto sparire le fate. Dove una volta passeggiava un elfo, ora cammina un frate questuante, il quale, sia di notte che di giorno, recitando mattutini e orazioni sante, va a fare il giro della sua zona. Le donne ormai possono proprio circolare al sicuro: in ogni cespuglio e sotto ogni albero non c'è altro incubo che lui, e da lui non avranno che un po' di disonore...
Dunque, si dava il caso che questo re Artù avesse a palazzo un gagliardo baccelliere. Un giorno costui se ne tornava a cavallo dal fiume, tutto solo, quando ad un tratto vide camminare davanti a sé una ragazza, e là sul momento, per quanto lei resistesse, le tolse a viva forza la verginità. Quest'oltraggio sollevò un tale clamore e tali proteste presso re Artù, che il cavaliere venne per legge condannato a morte, e già stava per rimetterci la testa (così ordinava infatti allora lo statuto), quando la regina e diverse altre dame si misero ad implorar grazia presso il re, finché costui non decise per il momento di concedergli salva la vita e di rimetterlo al giudizio della sovrana, perché decidesse lei se ucciderlo o salvarlo.
La regina ringraziò come meglio seppe il re e parlò poi col cavaliere, quando un giorno le sembrò opportuno. Gli disse: «Non puoi ancora esser sicuro d'averla scampata completamente... Io ti concederò salva la vita, solo se saprai dirmi quale sia la cosa che più desiderano le donne. Pensaci bene, e nessun ferro ti sfiorerà più il collo!... Se non sai dirmelo subito, ti do il permesso d'andare, per un anno e un giorno, a cercar di trovare un'adeguata risposta a questa domanda; basta che tu m'assicuri, prima di partire, che senz'altro farai ritorno».
Il cavaliere ci rimase male e sospirò tristemente... ma insomma, non poteva certo fare quel che voleva! Così finalmente si decise a partire, promettendo che sarebbe tornato alla fine dell'anno con la risposta che Dio gli avesse fornita. Prese dunque congedo e se ne andò per la sua strada.
Andò di casa in casa, dovunque avesse la pur minima speranza di poter scoprire che cosa amassero di più le donne. Ma non riuscì mai ad arrivare in alcun posto dove vi fossero almeno due persone che su questa faccenda si trovassero d'accordo. Chi diceva che le donne amano soprattutto la ricchezza, chi la buona reputazione e chi il divertimento; questi dicevano i bei vestiti, quelli l'andare a letto e rimaner vedove spesso per risposarsi... Qualcuno sosteneva che quel che più ci sta a cuore è l'essere adulate e accontentate; ed era assai vicino al vero, non c'è che dire: l'uomo ci conquista soprattutto coi complimenti; di fronte alle galanterie e alle premure, tutte, chi più chi meno, alla fine ci sciogliamo... Altri dicevano che ci piace soprattutto sentirci libere di fare come vogliamo, senza che qualcuno venga a rinfacciarci i nostri difetti, ma anzi dica che siamo giudiziose e per niente stupide. Se qualcuno infatti ci punge sul vivo, non ce n'è una fra tutte che non recalcitri, a sentirsi dire la verità. Provate, e vedrete se non è vero! Per viziose che siamo di dentro, vogliamo sempre esser considerate sagge e prive di peccato... C'era anche chi diceva che a noi fa gran piacere esser ritenute costanti, riservate e ferme nella decisione presa, e incapaci di rivelar qualunque cosa che ci venga confidata. Ma questa è una storia che non vale un manico di rastrello. Noialtre donne, perdio, non sappiamo nascondere nulla! Pensate a Mida... volete sentirne la storia?
Fra gli altri fatterelli, racconta Ovidio che Mida aveva, sotto i lunghi capelli che gli crescevano in testa, due orecchie d'asino; e nascondeva questo suo difetto agli occhi della gente come meglio poteva, con ogni astuzia, tanto che, all'infuori di sua moglie, nessuno ne sapeva niente. Egli l'amava molto e, fidandosi di lei, la pregò di non parlare ad anima viva di quella sua imperfezione. Lei gli giurò che mai, per nulla al mondo, avrebbe commesso l'impertinenza o la mancanza di procurare un così cattivo nome a suo marito; sarebbe stata una vergogna anche per lei! In seguito, però, le sembrò di dover morire a tener tanto nascosto questo segreto; le parve proprio di sentirsi tutta gonfia intorno al cuore: almeno qualche parola doveva per forza lasciarsi uscire... Non osando confidarsi con nessuno, corse là vicino a una palude (fin che vi giunse, il suo cuore era tutto in fiamme!) e, come il tarabuso che gracida nella melma, lei mise la bocca dentro l'acqua: «Non mi tradire, acqua, col tuo mormorio» disse «lo dico soltanto a te e a nessun altro: mio marito ha due lunghe orecchie d'asino!... Ah!... che sollievo al cuore! Ormai è fuori. Non potevo più tenerla, veramente». Di qui si può vedere che, se anche per un po' resistiamo, dobbiamo poi per forza sfogarci e non riusciamo proprio a trattenere alcun segreto. Se v'interessa come questa storia andasse a finire, leggete Ovidio e lo saprete.
Intanto quel cavaliere di cui vi parlavo, vedendo che non sarebbe mai riuscito nel suo intento (a scoprire, cioè, che cosa amassero di più le donne), pur con l'animo profondamente oppresso, s'avviò a far ritorno. In realtà non poteva più rimanere, era venuto proprio il giorno in cui doveva ritornare. E così strada facendo, mentre tutto preoccupato cavalcava lungo il margine del bosco, vide a un tratto ventiquattro dame che stavano danzando, o forse anche più... Spronò allora difilato verso quella danza, sperando d'ottenere finalmente qualche saggio avvertimento. Ma ecco, prima ancora che vi arrivasse, la danza era svanita senza che lui neppure s'accorgesse dove!... Là non c'era anima viva, all'infuori d'una megera che stava seduta tra il verde, l'essere più lercio che si potesse immaginare. Di fronte al cavaliere quella vecchia s'alzò dicendo: «Messer cavaliere, di qui la strada non va più avanti. Sull'onor vostro, ditemi, che cosa cercate? Potrei forse esservi utile. Noialtri vecchi sappiamo tante cose...».
«Vecchia mia,» fece il cavaliere «sono spacciato se non riesco a sapere quale sia la cosa che le donne desiderano di più... Se tu potessi aiutarmi, saprei io come ricompensarti!»
«Vi prendo in parola, qua la mano!» fece lei. «Se voi, potendo, farete la prima cosa che vi chiederò, io prima di sera ve lo dirò.»
«Eccoti la mano» disse il cavaliere «accetto.»
«Allora» proseguì lei «potete star tranquillo che la vostra vita è salva. Son pronta a scommettere la testa che la regina dirà come dico io! Vorrei vedere se la più orgogliosa di quante portano in capo fazzoletto o reticella avesse il coraggio di negare quel che v'insegnerò io... Andiamo, senza far altri discorsi.» Gli bisbigliò poi qualcosa all'orecchio, esortandolo a stare allegro e a non aver paura.
Appena giunsero a corte, il cavaliere annunciò che s'era attenuto al giorno fissato e che, come aveva promesso, la sua risposta era pronta.
S'adunarono dunque per sentire questa risposta nobildonne e damigelle e vedove (queste, se non altro perché hanno buon senso...) con la regina seduta al posto di giudice. E fu quindi fatto entrare il cavaliere.
Venne poi ordinato a tutti di far silenzio e che il cavaliere dicesse finalmente all'assemblea quale fosse la cosa che le donne amavano di più al mondo.
Il cavaliere non rimase di sicuro là impalato come una bestia... ma rispose pronto alla domanda, a voce alta, in modo che tutta la corte lo sentisse: «Mia sovrana signora,» disse «quel che le donne desiderano è poter dominare il loro marito o innamorato ed essere nel comando superiori a lui. Questo è il vostro maggior desiderio, uccidetemi pure se non è vero. Potete far come volete... io sono nelle vostre mani»,
In tutta la corte non vi fu dama, damigella o vedova che s'opponesse alle sue parole, ma tutte dissero che veramente meritava d'aver salva la vita.
A questo punto, s'alzò la vecchia che il cavaliere aveva incontrata seduta fra il verde: «Pietà!» disse «mia sovrana signora regina! Prima che la corte si sciolga, rendetemi giustizia. Sono stata io a dar la risposta al cavaliere, e lui mi ha promesso che, potendo, avrebbe fatto la prima cosa che gli avessi chiesto... Ebbene» soggiunse «davanti a questa corte io vi chiedo, messer cavaliere, che mi prendiate in moglie. Sapete benissimo che v'ho salvata la vita. Sul vostro onore negatelo, se non è vero!».
Rispose il cavaliere: «Ah, me sventurato! so bene qual era la mia promessa... Ma, per amor di Dio, fammi un'altra richiesta. Prenditi tutte le mie ricchezze, ma non la mia persona!».
«Ah no!» fece lei «piuttosto tutt'e due dannati! Per brutta, vecchia e povera che io sia, rifiuterei tutti i metalli e le pietre preziose che sono sotto e sopra la terra, pur di essere vostra moglie e l'amor vostro!»
«L'amor mio?» fece lui. «No, la mia dannazione! Ah, che uno del mio grado dovesse mai finire così malamente!...»
Ma tutto inutile. Il fatto è che alla fine egli fu costretto e dovette per forza accettare di sposarla, ed eccolo prendersi la sua vecchia e andarsene a letto... Qualcuno forse potrebbe accusarmi di negligenza perché trascuro di riferirvi l'allegria e il tripudio che vi furono quel giorno alla festa. Ma è presto detto. Non vi fu né festa né allegria, ma soltanto una gran tristezza e una gran mestizia: la sposò infatti di nascosto la mattina e se ne rimase intanato per tutto il giorno come un gufo, tanto era avvilito per la bruttezza di sua moglie...
Ma la maggior pena che il cavaliere provò nel suo animo, fu quando con sua moglie venne condotto a letto! Non fece che voltarsi e rivoltarsi da una parte all'altra. La vecchia sposa, sempre sorridente, si coricò e gli disse: «"Benedicite", mio caro sposo! È così che un cavaliere si comporta con sua moglie? È questa la legge della corte di re Artù? Son tutti così schizzinosi i suoi cavalieri?... Io sono il vostro amore e vostra moglie. Son io che vi ho salvato la vita, e non vi ho davvero fatto mai torto. Perché dunque vi comportate così con me fin dalla prima notte? Sembrate proprio uno che abbia perso la ragione! Che colpa ho commesso? Per amor di Dio, ditemelo, che se posso cercherò di rimediarvi».
«Rimediarvi?» disse il cavaliere. «Ahimè, no, no, non c'è più nessun rimedio! Sei così ripugnante e vecchia, e per giunta di così bassa schiatta, che non c'è proprio da meravigliarsi se mi giro e mi contorco. Dio volesse che mi si spezzasse il cuore!»
«Tutto qui» fece lei «il motivo della vostra irrequietezza?»
«Sì, certo» rispose lui «ti sembra poco?»
«Ebbene, signore» ella disse «se volessi, in tre giorni, io potrei rimediare a tutto... Però voi dovreste comportarvi bene con me. Parlare invece di schiatta, di nobiltà che discende da antica ricchezza e in grazia della quale si diventa gentiluomini, è una pretesa che non vale un pollo! Guardate, piuttosto, chi è sempre onesto con sé e con gli altri, e cerca sempre di agire più nobilmente che può: quello è il più gran gentiluomo. Cristo vuole che prendiamo da lui la nobiltà, non dai nostri antenati con la loro antica ricchezza. Anche se ci hanno lasciato tutto in eredità e noi perciò ci vantiamo d'essere d'elevata condizione, non possono in alcun modo averci lasciato la loro vita onesta, che è quella che li ha fatti diventar nobili, invitandoci a seguirli per quella strada. Dice bene quel saggio poeta di Firenze che si chiama Dante, con questa frase... Sentite in che tipo di rima è il motto di Dante:
'Rade volte risurge per li rami
L'umana probitate; e questo vole
Quei che la dà, perché da Lui si chiami.'.
Difatti dai nostri vecchi non possiamo pretendere che beni temporali, i quali si possono anche corrompere o danneggiare. Questo, come lo so io, lo sanno tutti: se la nobiltà s'innestasse naturalmente nel sangue, nessuno mancherebbe mai di fare con nobiltà il suo bravo dovere, sia in pubblico che in privato. Non potrebbe commettere nessuna offesa, nessun peccato. Prendete il fuoco e portatelo nella casa più buia che ci sia di qui fino ai monti del Caucaso, chiudete le porte e andatevene: quel fuoco continuerà tranquillamente ad ardere, come se fossero in ventimila a guardarlo. La sua funzione naturale, ve lo garantisco sulla mia vita, è quella di bruciare fino a spegnersi. Di qui si vede bene che la nobiltà non è legata a possedimenti, perché la gente non sempre esegue naturalmente le proprie funzioni, come appunto fa il fuoco. Dio sa quante volte si vede il figlio d'un gentiluomo commettere vergognosi atti da villano! Chi pretende di essere nobile, solo perché è nato da una nobile famiglia con antenati aristocratici e virtuosi, se non si mette anche lui a far qualcosa di buono, seguendo l'esempio dei suoi illustri antenati ormai defunti, non sarà mai nobile, pur avendo il titolo di duca o di conte. Plebeo lo diventi comportandoti male. La nobiltà non è semplicemente la rinomanza dei tuoi antenati con la loro gran bontà; questa è una cosa estranea alla tua persona; la tua nobiltà proviene soltanto da Dio. E' dalla grazia che proviene la nostra vera aristocrazia; non si tratta di qualcosa che ci vien lasciato in eredità con le nostre terre. Pensate, dice Valerio, quanto fu nobile Tullio Ostilio che s'innalzò a gran nobiltà dalla miseria! Leggete Seneca, leggete anche Boezio: vi troverete chiaramente espresso che nobile è soltanto colui che compie nobili azioni. Perciò, caro marito, concludendo, io vi dico che, anche se i miei vecchi erano plebei, io spero soltanto che il buon Dio mi conceda la grazia di vivere onestamente; e allora sì che sarò nobile, quando comincerò a vivere onestamente e senza peccato... In quanto poi al fatto che voi mi rimproverate perché sono povera, io vi dico che anche il sommo Iddio, in cui crediamo, decise di trascorrere la sua vita in volontaria povertà; e penso che chiunque, uomo, ragazzino o donna, riesca a comprendere che Gesù, re del Cielo, non avrebbe mai scelto una vita immorale. Cosa certamente onesta è la povertà lieta: lo dice Seneca, e con lui altri sapienti. Chi s'accontenta della propria povertà, secondo me, è ricco, anche se non avesse nemmeno la camicia. Povero è chi smania per qualcosa che non può avere; ma chi non ha nulla e non desidera nulla è ricco, anche se per voi non è che un miserabile. Chi è veramente povero è contento. Giovenale dice a questo proposito: 'Mettendosi in viaggio, il povero può ridere e cantare se incontra i ladri'. La povertà è un bene che a torto viene disprezzato e, secondo me, un grande stimolo all'operosità e anche una grande apportatrice di saggezza, per chi sappia accettarla con pazienza. Ecco che cos'è la povertà: una ricchezza che nessuno cercherà mai di derubarci. Spesso è povertà che insegna all'uomo, caduto in basso, a ritrovare il suo Dio e se stesso. La povertà per me è come una lente che aiuta a distinguere i veri amici. Perciò, signore, siccome non vi ho fatto alcun male, non rimproveratemi più perché son povera... Voi però, signore, mi rimproverate anche d'esser vecchia. Eppure, come se già non fosse scritto in autorevoli libri, voi gentiluomini onorati dite che un vecchio va trattato bene e chiamato per rispetto padre; potrei citarvi diversi autori se volessi... Ma oltre che vecchia voi dite che son brutta: ebbene, allora non avrete paura d'esser tradito; vi assicuro che bruttezza e vecchiaia son due grandi custodi della castità. Tuttavia, poiché so che cosa a voi può far piacere, saprò adeguarmi al vostro appetito... Dunque scegliete, una delle due: o mi tenete brutta e vecchia fino alla morte, ed io sarò per voi una moglie fedele e umile senza mai darvi dispiaceri per tutta la vita; oppure mi volete giovane e bella, e accettate il rischio d'aver la casa sempre piena di gente per causa mia e forse anche qualche altro luogo... Scegliete voi come vi piace.»
Pensa e sospira, il cavaliere alla fine disse: «Mia signora, amor mio e mia cara moglie, mi affido al vostro saggio consiglio. Scegliete voi stessa quel che a voi e a me sia di maggior piacere e onore. L'uno o l'altro non ha importanza: a me basta ciò che a voi piace».
«È dunque mio il comando» chiese lei «se posso scegliere di far come mi piace?»
«Ma certo, moglie!» disse lui «credo che sia meglio.»
«Baciatemi» disse lei «non siamo più adirati, perché in fede mia voglio essere per voi l'una e l'altra cosa, cioè sia bella che buona. Dio mi faccia morir pazza, se non sarò per voi buona e fedele come nessuna moglie al mondo. E se domani non sembrerò anch'io una signora, una imperatrice o una regina d'oriente o d'occidente, disporrete della mia vita e della mia sorte come vorrete. Alzate il lenzuolo e guardate ...»
E quando il cavaliere vide tutto questo, che in realtà lei era bella, giovane, se la strinse con gioia fra le braccia, col cuore inondato di beatitudine. Mille volte di seguito si mise a baciarla, e lei gli obbedì in ogni cosa che potesse dargli piacere e godimento. E così vissero fino alla fine, in perfetta gioia. Cristo Gesù e ci mandi dunque mariti mansueti, giovani e freschi a letto, e la grazia di sopravvivere a quelli che sposiamo; e inoltre prego Gesù d'accorciare la vita a quelli che non vogliono lasciarsi governare dalle mogli; e ai vecchi rabbiosi, tirchi nello spendere, Dio mandi subito una gran peste!
Qui termina il Racconto della Comare di Bath.

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