Dopo che tutti ebbero molto riso della buffa avventura del sagrestano Assalonne e del cortese Nicola, ognuno volle dire la sua, ma per la maggior parte sempre ridendo e scherzando. Nessuno, vidi, se la sarebbe presa per quel racconto se non fosse stato per Osvaldo, il Fattore, il quale, essendo della corporazione dei falegnami, ci rimase male, con un po' d'astio al cuore, e attaccò a crucciarsi e a brontolare.
«Mi venga un po' di bene» disse «se avessi voglia di raccontar canagliate, saprei io ripagarti con le beffe d'un tronfione di mugnaio... Ma son vecchio, non ho più voglia di scherzare. Per me è finita la stagione dell'erba, il mio foraggio ormai è diventato fieno. Questa cocuzza bianca porta scritti tutti i miei anni e, come i miei capelli, anche il mio cuore incomincia a far la muffa. Speriamo che non mi succeda come alle nespole, che più la tirano per le lunghe, più diventano aspre, e alla fine vanno a marcire sulla paglia o in un letamaio. Ma ho paura che noi vecchi facciamo proprio così: fin che non siamo marci, non possiamo essere maturi; e continuiamo a ballare finché al mondo c'è musica. Nella nostra smania sta sempre infitto un chiodo: d'aver la testa bianca e la coda verde, come il porro. Pur se ci mancano le forze, abbiamo sempre voglia di far follie. Quando non possiamo più far nulla, ci mettiamo a cianciare, ma pure sotto le vecchie ceneri sta raccolto il fuoco. E vi dirò che abbiamo quattro tizzoni: superbia, impostura, collera e ingordigia. Queste quattro scintille durano anche in vecchiaia. Le nostre frolle membra possono giusto essere stanche, ma la voglia non ci manca di sicuro. Ancora adesso ho un dente da puledro, eppure d'anni ne son passati tanti da quando il tappo della mia vita cominciò a scorrere. Come nacqui, la morte diede subito stura alla vita e la lasciò andare: da allora il tappo ha buttato tanto, che il caratello è quasi completamente vuoto. Ormai il rigagnolo della mia vita sgocciola sul fondo. La sciocca lingua può ben mettersi a dar fiato e scampanare di follie passate del tempo antico, ma per noi vecchi, salvo il rimbambimento, non c'è più nulla!»
Sentendo tutto questo quaresimale, il nostro Oste prese a parlare col tono sdegnoso d'un re. Disse: «A che serve tutta questa saggezza? Perché dovremmo parlare tutto il giorno di sacre scritture? È proprio vero che il demonio sa trasformare un fattore in predicante, come un ciabattino in marinaio o in medico. Su, racconta la tua storia e non perdere tempo. Ecco là Deptford! E siamo già a metà della mattina. Ed ecco Greenwich, il paese delle canaglie! Sarebbe ora che anche tu cominciassi il tuo racconto».
«Ebbene, signori» disse Osvaldo il Fattore «vi prego, non prendetevela, se a quello là io rispondo per le rime e lo metto un po' a posto: alla forza si risponde solo con la forza. Quel Mugnaio ubriacone ci ha raccontato ora in che modo fu gabbato un falegname, certo per farmi dispetto, perché anch'io sono di quel mestiere. Adesso, col vostro permesso, voglio rendergliela pari e patta, parlando proprio da tanghero come lui. Dio voglia che gli si spezzi l'osso del collo! Viene a cercarmi la paglia nell'occhio, ma non s'accorge che nel suo c'è una trave.»
RACCONTO DEL FATTORE
Qui comincia il Racconto del Fattore.
A Trumpington, non lontano da Cambridge, scorre un ruscello con sopra un ponte, e sul ruscello c'è un mulino, nel quale (racconto la verità io!) abitava da parecchio tempo un mugnaio. Era un mugnaio tronfio e vanitoso come un pavone. Sapeva suonare la cornamusa, andare a pesca, rabberciare le reti, costruire i coppi al tornio, fare alla lotta e tirare con l'arco. Appeso alla cintura portava un trinciante bislungo con la lama che tagliava come una spada, e in saccoccia si teneva un bel punteruolo. Non c'era pericolo che qualcuno lo toccasse: perfino nelle mutande si teneva nascosto un coltello di Sheffield! Aveva la faccia rotonda, il naso camuso e il cranio pelato come una scimmia. Al mercato cercava sempre d'attaccar briga. Bastava che uno con la mano gli sfiorasse una gamba, che lui subito giurava di volersi vendicare. Era in realtà un ladro di grano e di farina, e uno di quelli matricolati, che sanno bene come truffare. Di soprannome si chiamava Simoncino Boria.
Aveva una moglie che discendeva da nobile stirpe... Il padre di lei era il parroco del paese, il quale aveva sborsato anche parecchie piastre di rame, affinché Simoncino si decidesse a imparentarsi col suo sangue. Lei era stata allevata in un convento di monache, perché Simoncino (a sentir lui) non avrebbe mai voluto per moglie una donna che non fosse beneducata e vergine, in modo da tutelarsi nella sua dignità di possidente. E lei era arrogante e sfacciata come una cornacchia.
Era uno spettacolo vedere quei due insieme nei giorni di festa: lui partiva con una mantellina intorno al collo, e lei gli camminava dietro vestita di rosso; e della stessa stoffa erano le brache di Simoncino. Nessuno s'arrischiava a chiamarla se non col nome di «madama». Non c'era nessuno che, passando per la strada, osasse farle un complimento o uno scherzo, per non farsi accoppare da Simoncino col trinciante, col coltello o lo stiletto, perché i gelosi son sempre tipi pericolosi... o, almeno, così essi vorrebbero far pensare alle loro mogli. Lei, poi, essendo di nascita piuttosto torbida, era scostante come l'acqua d'una fogna, e piena di boria e di disprezzo. Credeva che ogni signora la dovesse riverire, per via del suo casato e dell'educazione avuta al convento.
Quei due non avevano che una figlia, di vent'anni, salvo un bambino di sei mesi, un bel maschietto che stava ancora nella culla. La ragazza era soda e ben piantata, col naso camuso, occhi grigi come il vetro, chiappe grosse, poppe tonde e sporgenti, ma soprattutto bellissimi capelli, non vi racconto storie.
Il parroco del paese, appunto perché lei era bella, aveva in mente di lasciarla sua erede, sia dei poderi che della casa, e faceva il difficile per trovarle marito. S'era messo in testa di sistemarla in alto con qualcuno che fosse di sangue nobile, perché i beni di Santa Chiesa vanno spesi per il sangue che di Santa Chiesa discende; e lui voleva trattarlo bene, il suo santo sangue, anche a costo di divorarla, la Santa Chiesa.
Il mugnaio, intanto, faceva affari d'oro col grano e con l'orzo di tutta la campagna dei dintorni, e specialmente con un grande collegio di Cambridge, chiamato Soler Hall, il quale pure mandava a macinare grano e orzo da lui. Un giorno, d'improvviso, accadde che l'economo di questo collegio s'ammalasse gravemente, tanto che ormai la gente pensava che sarebbe morto. Allora il mugnaio si mise a rubare farina e grano cento volte più di prima: se prima aveva rubato con una certa discrezione, ora faceva il ladro senza ritegno, tanto che ad un certo punto intervenne a protestare anche il rettore. Ma il mugnaio se ne infischiò, giurando che ciò non era vero.
Si fecero allora avanti due studenti, giovani e spiantati, che abitavano nel collegio di cui parlo. Costoro, testardi e amanti di scherzare, si recarono, per puro spasso e divertimento, a implorare un permesso al rettore, solo di poco tempo, per andare al mulino a veder macinare il loro grano: erano tutt'e due pronti a scommettere il collo che il mugnaio a loro non avrebbe rubato neanche mezzo staio di grano, né con l'astuzia né con la prepotenza... Il rettore alla fine li lasciò andare. Giovanni si chiamava l'uno, e l'altro Alan. Erano nati tutt'e due nello stesso paese, Strother, su nel settentrione... non so dirvi precisamente dove.
Alan preparò dunque tutta la roba e caricò subito il sacco in groppa al cavallo. E così quei due studenti, ossia Giovanni ed Alan, si misero in viaggio, con un brocchiere e una buona spada al fianco.
Giovanni sapeva la strada (non aveva bisogno di guide lui...) e, non appena giunse al mulino, scaricò il sacco. Il primo a parlare fu Alan: «Ehilà, salute Simone! Come sta la tua bella figliola, e tua moglie?».
«Alan! Benvenuto!» disse Simoncino. «Caspita, c'è anche Giovanni! Che diamine fate da queste parti?»
«Perdio, Simone,» disse Giovanni «la necessità non ha leggi. Chi non ha servi deve servirsi da solo, se no è uno stolto, come dicono i dotti. Il nostro economo... temo che a quest'ora sia bell'e morto, per il gran male che dai denti molari gli ha preso tutta la testa. Ecco perché sono venuto io, insieme con Alan, a macinare il nostro grano, e a riportarlo a casa. Ti prego di sbrigarci di qui più presto che puoi.»
«Sarà fatto» disse Simoncino «parola mia! E voi che cosa volete fare intanto che io ci metto mano?» «Perdio, mi piazzerò vicino alla tramoggia» disse Giovanni «a guardare come fa ad entrarvi il grano. Per tutta la tribù di mio padre, non ho mai visto una tramoggia andare avanti e indietro!»
E Alan di rimando: «Tu Giovanni fai così? Allora io mi metto di sotto, con la mia capocchia, a vedere come fa la farina a cadere giù nel trògolo: sarà il mio divertimento. Perché, parola mia, anch'io sono della tua razza, e di mulini non me ne intendo, come te». Il mugnaio sorrise a mezza bocca per questa loro fissazione, e pensò: 'Tutto ciò non ha che uno scopo. Loro credono che nessuno riesca ad imbrogliarli, e invece io, mi venga un po' di bene, li metterò nel sacco con tutta la loro astuzia e la loro filosofia. Più loro faranno i furbi, più io li deruberò quando sarà ora. Invece di farina, avranno della crusca! 'Val più la pratica che la grammatica', come disse quella volta la cavalla al lupo... Di tutta la loro istruzione non m'importa un cavolo!'.
Aspettò il momento buono, e poi uscì quatto quatto dalla porta. Cerca di qua e cerca di là, trovò il cavallo degli studenti legato dietro il mulino, sotto una pergola: s'avvicinò bel bello all'animale e in un attimo gli slacciò la briglia. Appena il cavallo si sentì slegato, si mise a correre, e via... nitrendo per boschi e per radure verso lo stagno, dove scorrazzavano libere alcune cavalle.
Senza dire una parola, il mugnaio se ne tornò in casa e si mise al suo lavoro scherzando con gli studenti sul più e sul meno, finché il grano non fu bell'e macinato. Appena la farina fu insaccata e legata, Giovanni uscì e trovò che il cavallo non c'era più: «Aiuto! poveri noi!» si mise a gridare «il nostro cavallo è sparito! Alan, per le ossa di Dio, muoviti! Vieni, amico mio, presto! Ahimè, è sparito il cavallo del rettore!».
Alan si scordò di tutto, farina e grano, e tutta la sua economia gli passò di mente: «Ma come? da che parte è andato?» si mise a gridare.
Saltò fuori di corsa la moglie del mugnaio. Disse: «Caspita! Il vostro cavallo se n'è andato correndo a più non posso dalle cavalle laggiù allo stagno. Accidenti alla mano di chi l'ha legato... bisognava allacciare meglio quelle redini!».
«Ahimè,» disse Giovanni «per tutti i triboli di Cristo, Alan, posa giù quella spada come faccio io! Dobbiamo alzare i tacchi, perdio, come capretti! Corpo di Dio, vedrai che a tutti e due non ci scapperà! Anche tu, perché non l'hai messa dentro la stalla, quella rozza! Diamine, Alan, sei proprio un lasagnone, perdio!»
E quegl'ingenui di studenti, tanto Alan che Giovanni, si precipitarono a tutta velocità verso lo stagno.
Appena se ne furono andati, il mugnaio si prese mezzo staio di fior di farina dal loro sacco e ordinò alla moglie di impastarlo e farne una focaccia. E disse: «Credo proprio che quegli studenti non si fidassero. Pure, un mugnaio sa farla a uno studente in barba a tutta la sua dottrina. Lasciali un po' correre ora! Guarda dove s'è cacciato... e quei marmocchi gli giocano dietro a chiapparello! Per la mia capocchia, non lo prenderanno tanto facilmente!».
E infatti quegl'inesperti di studenti correvano inutilmente su e giù gridando: «Dai! dai!... fermo! fermo!... giù di qua, attento dietro... tu fischiagli e io gli do da questa parte!».
Per farla corta, finché non fu notte fonda, per quanto facessero, non riuscirono ad acchiappare il cavallo, tanto quello correva forte, e finalmente l'andarono a raccogliere in un fosso.
Stanchi e bagnati come bestie sotto la pioggia, quei poveracci, Giovanni ed Alan, se ne tornarono indietro. «Accidenti al giorno che son nato!» disse Giovanni. «Ci siamo cacciati proprio in mezzo alle beffe e allo scorno. A quest'ora il grano è rubato, e tutti ci daranno del minchione, sia il rettore che i nostri compagni, e specialmente il mugnaio... Che disastro!»
Così si lamentava Giovanni, rifacendo la strada per tornare al mulino, con Baiardo per la briglia. E trovò il mugnaio seduto accanto al fuoco: siccome ormai era notte e non potevano mettersi per la strada, lo supplicarono, per amor di Dio, di accoglierli e alloggiarli, anche perché denaro ne avevano. Rispose il mugnaio: «Se v'accontentate, tale e quale com'è, avrete la vostra parte. In questa casa siamo allo stretto, ma voi avete studiato arte: coi vostri argomenti saprete magari trasformare un buco di venti piedi in una distesa larga un miglio. Vediamo un po' se questo spazio vi basta, se no, fatevelo più grande voi a modo vostro, coi vostri discorsi».
«Bravo, Simone!» fece Giovanni. «Ben detto! Per San Cutberto, tu sei proprio un mattacchione! Ho sempre sentito dire che le cose, o si prendono come stanno, o bisogna farsele da sé. Ma ora ti prego, caro ospite, dacci qualcosa da mangiare e da bere, e trattaci bene: noi ti pagheremo di tutto, come si deve. A mani vuote, non volano neppure i falchi. Eccoti qui il nostro denaro, pronto per pagare.»
Il mugnaio mandò in paese sua figlia a comprare birra e pane, fece arrostire un'oca, e andò perfino a legare il cavallo in modo che non potesse più scappare; poi in camera sua preparò per loro un letto con lenzuola e coperte belle grandi, discosto dal proprio appena dieci o dodici piedi. Anche la figlia aveva un letto tutto per sé là vicino, nella medesima stanza. Meglio di così non si poteva fare... in realtà non c'era posto per alloggiare più nessuno!
Tutti cenarono e chiacchierarono allegri e contenti, continuando a bere birra forte della migliore. E verso mezzanotte se ne andarono a riposare.
Il mugnaio s'era rimpinzato fino ai capelli, ed era così sbronzo, che di colore non era neanche più paonazzo, ma bianco come un cencio lavato. Singhiozzava e parlava nel naso, come se avesse avuto la raucedine o un gran raffreddore. S'infilò a letto, e sua moglie con lui; lei vispa e allegra come una gazza, dopo che s'era bagnato ben bene il becco. La culla fu messa ai piedi del letto, in modo da poter ninnare il bambino e dargli il succhiotto. E appena il boccale fu scolato fino in fondo, anche la figlia andò a letto; e altrettanto fecero Alan e Giovanni: intanto non c'era altro da fare, e certo nessuno aveva bisogno d'un soporifero per dormire.
Il mugnaio s'era lappata tanta birra, che nel sonno stronfiava come un cavallo, senza preoccuparsi della sua coda dietro... Sua moglie gli teneva bordone ronfando così forte, che si sentiva a mezzo miglio di distanza; e ronfava, in compagnia, anche la figlia.
Lo studente Alan, sentendo tutta quella melodia, diede di gomito a Giovanni e gli disse: «Ehi, dormi? Hai mai sentito una musica come questa? Senti che razza di vespro hanno intonato fra tutti! Li prendesse la rogna per tutto il corpo! Chi ha mai sentito una cosa simile? Eppure ci andranno alla malora una buona volta! Stanotte ormai non c'è verso di dormire, ma, forse, sarà per il meglio... Ehi, Giovanni,» disse «mi venga un po' di bene, se ci riesco, voglio montare la ragazza! Qualche risarcimento ci tocca anche per legge. Sai, Giovanni, c'è una legge che lo dice: se uno è stato danneggiato in una cosa, può rifarsi con un'altra. Insomma il grano c'è stato rubato, non c'è scusa che tenga, e c'è andata di traverso tutto il santo giorno. Siccome risarcimenti non ne avrò contro la mia perdita, voglio almeno qualche beneficio... Per l'anima di Dio, vedrai se non sarà così!».
Giovanni gli rispose: «Alan, stai attento! Il mugnaio è un uomo pericoloso. Se per caso gli passa il sonno, è capace di rovinarci tutti e due».
«Per me lui non è che un moscerino!» gli ribatté Alan. E in un attimo saltò su e andò a infilarsi accanto alla ragazza. La ragazza se ne stava sdraiata sulla groppa e dormiva sodo: prima che se ne rendesse conto, lui le fu così vicino, che ormai era troppo tardi per gridare, e poi, insomma, fecero presto a mettersi d'accordo. Ed ora, forza Alan! Noi intanto parliamo di Giovanni... Giovanni se ne stava là coricato a uno o due passi, a frignare e a lamentarsi: «Ah, che brutto scherzo!» sospirava «ormai posso ben dirlo d'essere un minchione. Il mio collega almeno si sta rifacendo del danno con la figlia del mugnaio fra le braccia. S'è dato da fare e s'è tolta una voglia, mentre io me ne sto qui nel letto come un sacco di loppa e, quando un giorno o l'altro si verrà a sapere questa storia, farò proprio la figura d'un tonto e d'un lasagnone! Parola, ora mi alzo e mi do da fare anch'io! Chi non risica non rosica, dicono ...». E balzò su e, zitto zitto, andò presso la culla: la prese fra le mani e, piano piano, la trasportò ai piedi del proprio letto.
Poco dopo, la moglie del mugnaio smise di ronfare, si svegliò e uscì fuori a fare un po' d'acqua; poi ritornò, si mise a cercare la culla annaspando qua e là, ma non la trovò più al suo posto. «Povera me!» disse «a momenti sbagliavo strada: per poco non andavo a finire nel letto degli studenti. "Benedicite!" allora sì che l'avrei combinata grossa!» E andò avanti finché non scontrò la culla. Sempre a tentoni, trovò il letto e, non sospettando nulla di male, perché la culla c'era e lei non vedeva dove si fosse a causa del buio, s'infilò bella bella nel letto dello studente, coricandosi tranquilla, disposta a farsi ancora una dormita. Dopo un po' lo studente Giovanni balzò su e le fu addosso, a quella brava moglie. E lei godette come da anni ormai non le accadeva, giacché lui pinzava duro e fondo come fosse ammattito.
Così tutti e due gli studenti si dettero alla bella vita fin quando il gallo non cantò tre volte.
Verso l'alba dunque, sentendosi frollo per aver lavorato tutta la notte, Alan disse: «Addio, Matilde, creatura mia dolce! Ormai è giorno, non posso più fermarmi qui. Ma tu m'hai reso così felice, che, dovunque io mi rechi a piedi o a cavallo, sarò sempre lo studente tuo!».
«Oh, amor mio caro,» disse lei «allora va', addio! Ma prima che tu parta, voglio dirti una cosa: quando passerai dal mulino, proprio accanto alla porta dietro, troverai una focaccia da mezzo staio, fatta con la tua farina, che mio padre, anche col mio aiuto, ti ha rubata. E ora, amor mio caro, Dio ti salvi e ti protegga!» Così dicendo, quasi si mise a piangere.
Alan s'alzò pensando: 'Prima che diventi chiaro, è meglio che torni vicino al mio compagno'. E annaspando con le mani, trovò la culla: ' culla: 'Perdio!' pensò 'ho sbagliato completamente strada. Mi gira la testa per la fatica di stanotte: non so neanche da che parte vado. Ma certo, se c'è la culla, ho sbagliato letto: qui ci dorme il mugnaio con sua moglie!'. E tirò avanti, per la via dei venti diavoli, fin dentro il letto dove proprio stava coricato il mugnaio. Credendo d'essersi infilato vicino al suo compagno Giovanni, lesto s'accostò al mugnaio, lo prese per il collo e gli disse sottovoce: «Ehi, Giovanni, capocchia di porco, svegliati, per l'anima di Dio, e ascolta che passatempo da gran signore! Per quel messere che si chiama San Giacomo, stanotte per tre volte mi son goduta la figlia del mugnaio a ventre in su, mentre tu, vigliacco, stavi qui ad aver paura!».
«Ah, brutto sporcaccione traditore,» disse il mugnaio «hai fatto questo? Ah, traditore ipocrita! studente imbroglione disse. «Ti farò la pelle, quant'è vero Iddio! Come hai avuto il coraggio di disonorare mia figlia che proviene da una famiglia come questa?» E acchiappò Alan per la gola: costui a sua volta lo abbrancò tutto infuriato e gli mollò un gran pugno sul naso. Giù un ruscello di sangue sul petto! E per terra, col naso rotto e la bocca spaccata, si rotolarono come due porci chiusi dentro un sacco. Ora s'alzavano, ora ricadevano a terra, finché il mugnaio non batté contro un sasso e cadde riverso addosso a sua moglie, che non sapeva niente di questa furiosa lotta, perché s'era un po' riaddormentata con lo studente Giovanni, dopo ch'erano stati a far veglia tutta la notte. A quel colpo, lei sobbalzò dal sonno: «Aiuto! Santa croce di Bromholm!» si mise a gridare. «"In manus tuas!" Signore, m'affido a te! Svegliati, Simone, m'è cascato addosso il diavolo! Mi scoppia il cuore, aiuto, muoio! Qualcuno mi sta schiacciando il ventre e la testa. Aiuto, Simoncino, questi studenti imbroglioni ora se le suonano!».
Giovanni balzò su più presto che poté, e si mise a raspare avanti e indietro per le pareti in cerca d'un bastone. Saltò su anche la donna: lei conosceva i recessi della casa molto meglio di Giovanni e in un attimo trovò un bastone appoggiato al muro, e scorse un barlume di luce, perché la luna splendeva chiara attraverso un pertugio, e a quella luce vide due che si picchiavano, ma, senza poterli distinguere, rimase abbagliata da qualcosa di bianco. Fissandosi su quella cosa bianca, pensò che lo studente avesse un berretto da notte: s'avvicinò pian piano col bastone e, credendo di suonarle ad Alan, colpì in pieno sul cranio pelato il mugnaio, che s'accasciò sul pavimento gridando: «Aiuto, sono morto!».
Gli studenti gliele suonarono ancora di santa ragione e lo lasciarono là per terra. Poi si vestirono, presero in fretta il cavallo e la farina, e se ne andarono. Al mulino raccolsero anche la focaccia da mezzo staio di fior di farina, tutta bella croccante.
Così quel tronfione di mugnaio le buscò sode, rimettendoci i soldi per la macina del grano e tutta la cena di Alan e Giovanni, che per giunta lo picchiarono. Sua moglie fu disonorata, e così sua figlia. Ecco quel che succede ai mugnai disonesti! Dice bene il proverbio: «Chi la fa, l'aspetti. L'imbroglione finisce sempre per essere imbrogliato». E ora Iddio, dall'alto della sua maestà, protegga, dal primo all'ultimo, quanti sono in questa compagnia! Io intanto, con questo racconto, l'ho resa al Mugnaio pari e patta.
Qui termina il Racconto del Fattore
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