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lunedì 27 agosto 2012

VIRGILIO, L'IMMORTALE

1.    Il poeta Virgilio tra le muse Clio e Melpomene (fonte: centrostudilaruna.it).
L’immaginario leggendario italiano, sovente, si nutre di memorie care ai tempi illustri che furono, ricamando attorno ad esse - ed all’alone di gloria vetusta che da loro ancora promana - le trame di alcune delle più strabilianti favole destinate a passare di mano in mano e di bocca in bocca nel corso dei secoli. Il Medioevo non fa certo eccezione, attingendo a piene mani dai fasti d’epoca classica ed ancor più dagli eroi di quell’età gloriosa. Ora, Virgilio non è certo un eroe in senso stretto.



Più che alla spada, infatti, la sua solida nomea si deve alla penna. Eppure, in quel terreno incerto e fecondo che la leggenda rappresenta, al poeta tocca in sorte di vedere rimodellata questa fama salvifica, sottraendosi per una volta sola alla sua stessa identità di cantore della travagliata vicenda del principe d’Ilio e fondatore della gens Julia, Enea, per divenire mago e taumaturgo, astrologo e santo profano di una città, Napoli, sul suolo della quale soggiornò a lungo in vita, e dove ancora riposano le sue ossa. Così, memore del suo prolifico passaggio, dal 1100 Napoli ricorda Virgilio celebrandone per sempre il supposto, prezioso contributo alla sistemazione del territorio urbano ed extra-urbano.

2.    Il porto di Napoli nel Medioevo (fonte: xoom.it).
Virgilio, il mago capace d’ogni astuzia per il popolo. Virgilio, il negromante aduso a patteggiare con le forze oscure pur di avvantaggiare la sua gente. Virgilio, l’immortale deceduto in un’epoca, quella classica, e tornato miracolosamente in vita nell’evo successivo, quello medievale, per sistemare gli – infiniti - guai della città. Leggenda vuole che, in gioventù, al poeta fosse inaspettatamente riuscita l’impresa delle imprese. Quella di penetrare l’imprendibile Monte Barbaro, in compagnia del fedele servo/discepolo Filomeno, per far luce sull’esistenza della misteriosa città che il monte celava, terra di stupore e di prodigi a motivo di un’altra, salvifica presenza, quella del filosofo Chironte. Raggiunto il sepolcro di quest’ultimo, Virgilio vi ritrova un magico tomo, forse il sospirato Libro del Comando che tanta fama riscuoteva in epoca medievale per le doti terribili e decisamente trascendenti che era in grado di trasmettere al suo possessore. Prelevando il volume adagiato sotto la nuca del cadavere di Chironte, Virgilio non ruba soltanto il segreto della negromanzia e delle arti magicamente oscure che tanto contribuiranno a farne un sommo mago nella leggenda partenopea. Piuttosto, si impadronisce di un lascito autentico, di un’eredità che da allora in poi lo accomunerà al miracoloso filosofo nella comune difesa di un popolo contro le avversità della natura e del fato. Sottraendo il libro di Chironte, insomma, Virgilio diventa un po’ Chironte. Solo che, invece di supportare il popolo fatato del Monte Barbaro, a lui toccherà risollevare le sorti di Napoli. Il poeta raggiungerà il suolo partenopeo da fuggiasco, dopo essere rocambolescamente evaso dalle carceri di Roma, dove era stato gettato a seguito del prometeico furto con il quale aveva privato l’Urbe del fuoco per vendicarsi d’una beffa subita. Virgilio riuscirà a disfarsi della prigionia tracciando nel cortile delle carceri la sagoma di una nave ed intimando ad alcuni suoi compagni di pena di simulare una vogata intensa, che avrà l’effetto di far sollevare l’imbarcazione fatata dal suolo e farla fluttuare in aria proprio alla volta di Napoli. Approdati in questo luogo, tutti i fuggiaschi si erano dileguati, lasciando il poeta intento a godersi la ritrovata libertà e l’amenità del luogo. Un bel posto in cui restare per qualche tempo a godersi la vita e, perché no, trarre ispirazione per la propria fervida penna. Ma la bellezza del luogo è minata dagli acquitrini che martoriano le porte dell’abitato, e che fanno affluire nelle case e nelle piazze sciami di mosche infestanti. Così, il mago costruisce una mosca d’oro puro grande quanto una rana, alla vista della quale tutti gli insetti di palude si danno alla fuga liberando l’aria della città. L’artificio è accolto con tanto entusiasmo che, una volta liberata la città dal flagello, la popolazione trasla la mosca d’oro presso il castello di Cicale, dove tuttavia il simulacro d’insetto smette di funzionare. Disfattosi delle mosche, al poeta mago tocca occuparsi delle sanguisughe, che liquida ricorrendo al medesimo stratagemma: fabbricando cioè un grosso verme dorato che poi getta nel primo pozzo disponibile, sanando così le acque. Non contento, Virgilio dà sfogo alla sua vena d’artigiano cesellando nel metallo una grossa statua equestre al cospetto della quale tutti i cavalli infermi della città riacquistano prodigiosamente la salute perduta. Eppure, la misura riesce comunque a scontentare qualcuno, visto che i maniscalchi si ritrovano senza lavoro e decidono di adottare la draconiana misura del sabotaggio. A notte fonda, si radunano al cospetto della statua e le procurano un vistoso foro nel ventre, che finisce per privarla delle sue doti taumaturgiche tanto che, nel 1322, il cavallo metallico viene fuso, utilizzandone la materia per farne le campane della Chiesa Maggiore. Non a caso, Piazza Capuana reca proprio l’emblema di un equino dorato privo di briglie.

3.    Lo stemma del Sedile di Capuana a Napoli (fonte: nobili-napoletani.it).
Nottetempo, Virgilio viene tuttavia svegliato dal canto insistente delle troppe cicale che infestano la campagna. Decide così di salvare il proprio sonno – e quello dei napoletani – progettando una cicala di rame che appende ad un tronco d’albero a mezzo di una sottile catena. Il buio torna ad essere pacifico. Ma sulla città incombe un altro influsso negativo, quello dell’Austro che, soffiando aria rovente, accelerava la decomposizione delle merci esposte nei mercati, carne in primis. Così, il mago fa appendere ai bastioni dell’arco di ingresso della piazza del Mercato Vecchio alcuni quarti di manzo. Improvvisamente, la carne fresca inizia a resistere fino a sette settimane, mentre quella salata raggiunge addirittura i tre anni. Ma neutralizzato l’Austro si fa avanti il Favonio, che fa a pezzi la vegetazione in aprile spirando dal Vesuvio folate di fumo nerissimo misto a cenere ardente che divorano alberi e coltivazioni nella Terra di Lavoro. Per battere il Favonio ed il respiro ardente della bocca dell’Inferno, il mago deve adoperarsi con tutta la sua arte. Studia gli allineamenti celesti e le congiunzioni del pianeti, ed in un preciso momento forgia una statua di rame che reca alle labbra una tromba. Investita dal Favonio, la statua filtra l’aria attraverso il suo metallico strumento dando origine ad un vento opposto che lo rende innocuo. Salvate le colture, Virgilio volge la sua attenzione alle piante medicinali. Il suolo della Terra di Lavoro è fertile, questo è vero, ma non sempre si trovano con facilità erbe e radici per farne decotti e medicamenti. Così il mago fa edificare un grande giardino ai piedi di Montevergine, nella zona compresa tra Mercogliano ed Avellino. Un giardino botanico in piena regola, magicamente accessibile soltanto a coloro che ne abbisognassero realmente, e perfettamente invisibile a tutti gli altri. A Napoli il mare è cosa seria. Ma i fondali sono troppo bassi per essere pescosi, dunque i pescatori sono in guai seri. Virgilio fa lavorare una pietra sulla quale installa un pesciolino, Pietra di Pesce la chiama, ed i banchi accorrono senza sosta. Sulla Porta Nolana fa scolpire due busti, il primo d’uomo ridente, l’altro di donna in lacrime. Chiunque varchi la porta dal primo accesso vedrà realizzarsi tutti i suoi sogni, al contrario di chi farà il suo ingresso dal secondo varco. Per esercitare gli uomini nell’uso delle armi, indice i giochi di Carbonara, simulazione lancio delle pietre e tiro con la fionda cui si abbina la lotta con mazze lignee. Si fa portare anche quattro teste di morti da lunga data, che interroga a piacimento per apprendere cosa accada nei quattro angoli del globo a beneficio del duca di Napoli. Ancora, sulla Porta Nolana appone un sigillo che libera all’istante la città da serpenti e vermi di ogni sorta. A Baia, nei pressi di Cuma, nota le acque sulfuree con virtù terapeutiche e decide subito di far costruire in questo luogo alcuni bagni pubblici – Tritula in primo luogo – decorati con iscrizioni riguardanti le virtù delle acque per migliorare la salute del popolo. Così accade, finché un gruppo di medici di Salerno non decide di sabotare la struttura e ne fa scempio. Ma la sventurata combriccola viene annientata da una tempesta marina che li coglie sulla via del ritorno. Eppure, una volta ripristinati i bagni il loro accesso da parte dei napoletani resta comunque arduo a motivo della presenza di un ripidissimo rilievo che sbarra il passo ai viandanti costringendoli ad una più che faticosa ascesa. Il mago lo fa traforare contribuendo alla nascita di Fuorigrotta. Resta ancora un’impresa, forse la più ardua e simbolica. Da anni si tenta di edificare un maniero su di uno scoglio. Castello Marino, dovrebbe chiamarsi, ma l’opera viene costantemente vanificata da crolli e mancanze di equilibrio che annullano gli sforzi dei manovali. Interviene proprio Virgilio, che con gioia si diletta a misurare il suo ingegno con quel miracolo di equilibrio che la sua arte ricollega al semplice esempio di un uovo. Il mago prende infatti un uovo, il primo deposto, lo pone in una caraffa ancora più stretta dell’uovo stesso per poi racchiudere quest’ultimo ed il suo angusto contenitore all’interno di una gabbia ferrea finemente lavorata. Poi la gabbia viene appesa con lamine anch’esse ferree ad una trave saldata per traverso alle mura di una cameretta costruita appositamente allo scopo, che riceve luce unicamente da due feritoie e da una pesante porta di metallo ermeticamente chiusa. Quella camera ed ancor più il suo contenuto vanno preservate ad ogni costo, ordina lo stregone. Perché da esse dipende la sorte del castello. Il Castello dell’Ovo. E’ l’ultima sfida di Virgilio, che in occasione di una visita a Brindisi trova la morte, la seconda ed ultima. Le sue spoglie vengono riportate in fretta a Napoli, che resiste alle infinite richieste di chi ha assistito ai prodigi del mago e vorrebbe giovarsi dei suoi poteri. Piuttosto, le ossa del poeta stregone vengono raccolte e deposte in un sacco di cuoio, presto murato proprio nel maschio partenopeo. L’unica cosa di Virgilio che lascia Napoli è, guarda caso, un grosso tomo che, all’interno del primo sepolcro del mago, gli faceva da cuscino, e che un medico inglese appartenente alla corte di Ruggiero, il normanno che regge la Sicilia, insiste per portare seco a Palermo. Il lascito continua, forse.

Articolo di Simone Petrelli. Tutti i diritti riservati                  
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