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giovedì 2 ottobre 2014

I CAVALIERI IN CEPPI E CATENE 1307-1308


Le accuse contro i Templari si fanno sempre più violente e a nulla valsero le confessioni, estorte sotto tortura. Una prassi richiesta dallo stesso papa Clemente V. Dopo gli arresti e i primi interrogatori, il 19 ottobre 1307 il grande inquisitore di Francia, Guillaume Imbert, si trasferí nella sede parigina del Tempio, per dirigere e coordinare l’inchiesta: interrogò personalmente 140 Templari e, come previsto dalla procedura, i Domenicani elencarono i capi d’imputazione agli inquisiti: la gravità e la quantità dei reati ascritti impressionarono tutti gli imputati. Dopo dieci giorni di carcere duro, il 24 ottobre anche Jacques de Molay fu interrogato da Imbert, che pretese l’ammissione delle colpe. Il maestro, secondo il verbale, avrebbe raccontato che era entrato nell’Ordine 42 anni prima, accolto dal maestro d’Inghilterra, Hubert de Pérraud (zio del gran visitatore di Francia), a Beaune, nella diocesi di Autun: alla cerimonia era presente anche il maestro di Francia Amaury de la Roche. Il verbale prosegue descrivendo la modalità d’ingresso nell’Ordine: «Dopo aver promesso di rispettare le osservanze e gli statuti del detto Ordine, gli posero un mantello legato al collo. E lui che lo accoglie fece portare una croce di bronzo nella quale c’era la figura del crocefisso, e gli dice e gli ordina di rinnegare Cristo la cui immagine era lí. Cosa che lui fece, sebbene contrario e poi gli fu ordinato di sputare sopra l’immagine, e lui sputò a terra. Interrogato quante volte, rispose sempre sotto giuramento che non sputò se non una volta, e su questo argomento ben si ricorda». Infine respinse ogni altra imputazione, compresa l’accusa di sodomia e confermò quanto l’inquisitore pretendeva. Qualche giorno piú tardi, il 25 ottobre, Guglielmo di Nogaret convocò una grande assemblea presso la casa del Tempio di Parigi, composta dai dottori della Sorbona, dai baccellieri e dai notabili, selezionati per la loro provata fedeltà alla corona. Secondo la tesi piú accreditata, sarebbero stati obbligati a intervenire sia il maestro Jacques de Molay che alcuni fratelli. I collaboratori di Imbert lessero pubblicamente le confessioni dei Templari, e lo stesso de Molay, rilasciò ulteriori ammissioni di colpa (o almeno cosí è riportato da alcuni storici sulla base di una successiva bolla di Clemente V). Il giorno dopo si svolse un’altra riunione pubblica alla Sorbona, con la presenza anche degli studenti, che avrebbe riproposto quanto era avvenuto il giorno prima. Di quelle assemblee esiste la testimonianza diretta di uno dei dottori presenti alla Sorbona, certo Matteo (o Romeo) di Brugaria, che scrisse a Giacomo II d’Aragona: nella missiva, si limita a precisare che il maestro aveva ammesso solo due colpe, quelle relative al rinnegamento di Cristo e lo sputo sulla croce, mentre per tutte le ulteriori accuse aveva detto d’interrogare gli altri fratelli. In sostanza, la lettera riporta le confessioni contenute nel verbale redatto dal grande inquisitore di Francia e non offre alcuna certezza sulla presenza fisica del maestro, né sul suo comportamento in pubblico, cosa che Matteo avrebbe certamente descritto se de Molay fosse stato presente e sull’eventuale reazione della folla alla vista del maestro e degli altri dignitari in catene. Il 26 ottobre 1307 fu un giorno d’intensa attività e di molte iniziative: Filippo scrisse a Giacomo per informarlo che le confessioni, ormai di dominio pubblico, erano state ammesse dal maestro e da altri frati appartenenti all’Ordine; sperava che anche il grande d’Aragona si muovesse e arrestasse i Templari. I Francescani e i Domenicani dilagarono per le vie di Parigi informando il popolo su quanto stava accadendo e sulle colpe dei cavalieri dell’Ordine. Clemente, consapevole che ormai la vicenda gli era sfuggita di mano, intervenne indirizzando a Filippo due lettere: una in forma privata e l’altra in veste ufficiale. Nella prima dichiara: «Senza aver ricevuto alcuna disposizione, mentre eravamo assenti, hai osato far violenza contro i beni e le persone dei Templari fino al punto di arrivare ad arrestarli. Per giunta e per crudeltà, non solo non sono stati ancora rilasciati, ma hai aggravato il tuo operato infliggendo ulteriori sofferenze a loro già provati per essere stati sottoposti alla detenzione: ma sulla qualità di queste sofferenze giudichiamo necessario tacere a causa della vergogna che ne prova la Chiesa e che tu a maggior ragione dovresti provare». La seconda, frutto delle decisioni del concistoro, dove scoprí di non avere piú una vera maggioranza, porta la data del 27 ottobre. Nella missiva il papa ribadisce il ruolo assoluto della Chiesa a difesa della dottrina della fede e, infine, accusa direttamente il re per il sopruso fatto: «Voi avete infierito sulle persone di un gruppo soggetto alla Chiesa di Roma (...) In questa vostra azione cosí inaspettata tutti vedono, non senza ragione, un oltraggioso dispetto nei Nostri confronti e nei confronti della Chiesa di Roma» (Malcolm Barber, Processo ai Templari, Genova 1998). La protesta non modificava la situazione, ma serví a Clemente per riaffermare il suo ruolo di pontefice e con esso la conseguente sovranità sull’Ordine. Il colpo di mano di Filippo pose il papa in una situazione insostenibile e lo indusse a valutare anche la strada dello scontro diretto, ma la via della mediazione gli sembrò piú saggia e piú utile e cosí Clemente inviò a Parigi due suoi legati, con la bolla Ad Praeclaras, che sollecitava il re a consegnare i Templari all’autorità ecclesiastica. Filippo non consegnò i Templari, né concesse udienza alla delegazione del papa, che fu invece ricevuta da alcuni suoi collaboratori. Secondo alcune fonti Clemente li rispedí a Parigi con una lettera autografa che imponeva il colloquio, altrimenti il re sarebbe incorso in una scomunica. Nel frattempo, Imbert, ignorando le proteste del pontefice, continuava a raccogliere o meglio estorcere le testimonianze dei frati utili alla sua inchiesta e, il 9 novembre, interrogò anche Hugues de Pérraud. L’imputato rilasciò un’ampia confessione, secondo le modalità volute dall’inquisitore e ammise l’identica procedura d’ingresso, confermando di averla praticata anche in seguito, nell’accogliere i postulanti e aggiunse che «li conduceva in un luogo appartato e ordinava loro di baciargli la parte piú bassa della schiena, l’ombelico e la bocca, quindi faceva portare una croce e diceva loro che, secondo gli statuti del detto Ordine, era necessario rinnegare Cristo e la Croce tre volte nonché sputare sulla croce e sull’immagine di Cristo crocefisso, dichiarando che sebbene ordinasse ciò, la richiesta non proveniva dal cuore» (Edgard Boutaric, Clemente V, Philippe le Bel et Les Templiers, Parigi 1872). Ammise anche di aver visto una testa adorata in certe particolari riunioni, «di averla tenuta in mano e accarezzata a Montpellier durante un certo capitolo nel quale l’aveva adorata insieme con altri fratelli. Affermò tuttavia di averla adorata con la bocca allo scopo di fingere e non con il cuore, ma di non sapere se gli altri fratelli l’avessero adorata con il cuore. (...) Disse che la testa aveva quattro piedi, due avanti e due dietro» (Jules Michelet, Le procès des Templiers, Parigi 1841-1851). Un’ammissione utile a sostenere le accuse di idolatria piú volte mosse nei confronti dei Templari (vedi anche, nel capitolo successivo, il box alle pp. 136-137). Mentre Imbert completava il suo lavoro, il 17 novembre Clemente inviò a Parigi il proprio cappellano, Arnaud de Faugères, per incontrare Filippo e conoscere i dettagli su come si erano svolti gli arresti e quanto era emerso dai primi interrogatori. Il pontefice, ancora una volta in ritardo, non fu convinto dalle risposte riferite e, finalmente, emanò la bolla Pastoralis praeminentiae, che sospendeva l’inchiesta del monarca e avocava l’indagine alla Santa Sede. La decisione del papa tolse qualsiasi ruolo all’inquisitore di Francia, che rischiava la scomunica se avesse ignorato le sue disposizioni. Imbert concluse rapidamente l’indagine e il 24 novembre consegnò tutti i verbali alla curia pontificia. Il re temeva i tempi lunghi e aveva urgenza di celebrare e chiudere il difficile processo. Invece Clemente intendeva usare la politica del rinvio, come un ricatto per allontanare l’altra pericolosa minaccia, quella di un processo contro Bonifacio VIII, velatamente richiesto dallo stesso Filippo e ufficialmente da Nogaret e dalla famiglia Colonna. Durante la sospensione dell’indagine, il re avviò una campagna diffamatoria contro Clemente, e furono avanzate velate insinuazioni di presunte collusioni con gli eretici templari: il papa era forse posseduto dal demonio? E, per dimostrare che era disposto ad andare fino in fondo, il 25 marzo 1308, Filippo spedí la convocazione degli Stati Generali, programmata a Tours per il 5 maggio successivo: nel testo, erano elencati tutti gli errori e le colpe commesse dall’Ordine del Tempio. A Filippo, sempre il 25 marzo, erano giunte le risposte ai quesiti sulla legittimità delle sue azioni sottoposti ai dottori della Sorbona. Pronunciamenti che giustificavano solo parzialmente l’operato della corona, mentre affidavano la questione dei Templari all’autorità della Chiesa. E, per quanto riguardava i beni dell’Ordine, i dottori affermarono che appartenevano alla Chiesa e le risorse economiche dovevano essere impiegate per lo scopo che erano state accumulate, quello della crociata. Sebbene il documento confermasse la validità dell’operato del re e ammettesse l’eresia dei Templari, Filippo decise di non divulgarne il testo, poiché imponeva di consegnare i frati alla Santa Sede. Le convocazioni per la riunione degli Stati Generali erano state preparate in molte copie e furono inviate ai balivi che avevano il compito di moltiplicarle per tutte le zone di loro competenza. Ogni villaggio e ogni borgo del regno fu informato dell’incontro e incaricato d’inviare i propri rappresentanti nelle città piú vicine per le assemblee di zona. In quelle sedi periferiche si sarebbe discussa la questione dei Templari, dando lettura delle loro confessioni. Una mobilitazione senza precedenti, che aveva il duplice scopo di diffondere e documentare le prove contro l’Ordine e di giustificare l’operato del monarca. L’assemblea tenne la sua prima seduta, a Tours, il 5 maggio, e i lavori si protrassero per circa dieci giorni. Il documento conclusivo del dibattimento appoggiava le scelte compiute dal re e chiedeva di agire contro il Tempio, senza indugio. Forte del mandato popolare, Filippo si preparò all’incontro con il papa e, il 26 maggio, raggiunse Poitiers. Il pontefice convocò il concistoro pubblico per il 29 maggio, nel palazzo reale di Poitiers: erano presenti tutti i cardinali, i consiglieri del re e le maggiori cariche ecclesiastiche e laiche del regno. I collaboratori di Filippo seguivano un piano preordinato per attaccare le posizioni assunte da Clemente e il ministro Plaisians fu il primo ad aprire lo scontro, affermando pubblicamente che il clero e il popolo erano schierati con il monarca, mentre la figura del pontefice era sempre piú isolata. Quest’ultimo non si scompose mai, e quando, alla fine, prese la parola si dichiarò pienamente d’accordo nell’odiare il male, a cui si doveva contrapporre il bene, regola fondamentale per tutti gli ecclesiastici e soprattutto per il papa, ma la lotta al male poteva compiersi soltanto rispettando la giustizia. Clemente parlava in latino, intercalando ciò che riteneva importante in francese, perché tutti comprendessero. Ripercorse parte della sua vita ricordando che prima dell’investitura a pontefice non aveva avuto modo di conoscere direttamente i Templari, anche perché nella zona in cui viveva si erano registrati rari casi d’adesione a quella milizia. In seguito ebbe modo di conoscerli meglio e molti di loro gli sembrarono uomini pii, ma questa personale impressione aveva poca importanza se si fossero macchiati d’infamia, in quanto li avrebbe odiati come era suo dovere e li avrebbe processati. Quindi preferiva non agire in modo impulsivo, considerando che l’onestà e la ponderatezza erano i piú saggi consiglieri per un pontefice. Inoltre precisò che se anche aveva parlato dei Templari con il re, al momento della sua investitura a Lione, non ritenne le accuse fondate e per quanto riguardava i colloqui successivi di Poitiers non si ricordava molto. Comunque credeva alla buona fede di Filippo e dei suoi collaboratori, che avevano agito non per avidità, ma per la difesa del cristianesimo e pertanto i beni del Tempio «avrebbero dovuto essere messi a disposizione della Chiesa e usati per la Terra Santa». Concluse garantendo di svolgere rapidamente l’inchiesta e promise l’indulgenza a tutti i fedeli che s’impegnavano a recitare ogni giorno cinque Padre Nostro e sette Ave Maria, per implorare l’Altissimo affinché lo sostenesse nella sua missione, a gloria di Dio. Clemente aveva promesso di attivarsi per la verifica, ma in sostanza era libero d’agire come meglio credeva. Il re era rimasto insoddisfatto e non voleva chiudere la questione in quel modo, senza garanzie di una soluzione a lui favorevole. Il 14 giugno, durante un’altra sessione generale, Plaisians fu costretto a riprendere la parola e rinnovò le richieste fatte dal re: la prima riguardava l’avvio immediato di tutti i processi in Francia e fuori del regno, per giudicare i Templari; la seconda sosteneva la revoca immediata della sospensione dell’inchiesta regia in corso; la terza, poiché le colpe erano state ampiamente dimostrate, imponeva di procedere senza indugio all’espulsione dell’Ordine dalla Chiesa, rappresentando una pericolosa minaccia per la cristianità. Clemente cercò di riprendere in pugno la situazione, interrompendo piú volte Plaisians e provocando un violento battibecco. Quando finalmente il papa riuscí a parlare per trarre le conclusioni del concistoro, ribadí con forza le proprie posizioni e il re, non potendo piú replicare, si riservò di comunicare le proprie decisioni dopo aver consultato i suoi consiglieri. Anche se le divergenze sembravano destinate a perdurare, la Chiesa e la Corona erano obbligati a mantenere una sotterranea alleanza per conservare il proprio potere. E cosí il papa, per dimostrare la sua disponibilità alla collaborazione, il 18 giugno inviò una lettera ai prelati e ai principi elettori tedeschi per proporre la candidatura di Carlo di Valois, fratello di Filippo, alla guida dell’impero, il cui trono era rimasto vacante dopo l’assassinio di Alberto d’Asburgo d’Austria: un gesto che contribuí a rasserenare i rapporti con il re di Francia, il quale accettò l’inchiesta del papa sul Tempio. Cadeva cosí la pretesa dell’immediata soppressione dell’Ordine, la cui fine gli avrebbe permesso d’incamerarne i beni. Il re sopperí a questa perdita, promettendo che avrebbe amministrato il loro patrimonio in modo oculato. In sostanza non cambiava molto, visto che fin dagli arresti dei Templari disponeva delle risorse dei frati come meglio credeva e grazie a questi introiti a Parigi erano ripresi i lavori della cattedrale di Notre Dame. Clemente volle poi dare un’ulteriore prova di fiducia e di distensione verso il re: il 5 luglio, riabilitò Guillaume Imbert e lo riconfermò nel ruolo di grande inquisitore di Francia. Subito dopo emanò la bolla Subit assidue, nella quale ribadí che non era mai stato informato degli arresti dei Templari. Poi, per dare ordine ai lavori e al ruolo primario della Santa Sede, dal 9 al 12 luglio, nominò i curatori pontifici per l’amministrazione dei beni templari e, il 13, stabilí la composizione delle commissioni episcopali per tutte le piú importanti diocesi di Francia. Ogni commissione era presieduta dal vescovo locale, coadiuvato da due canonici della cattedrale, da due Domenicani e da due Francescani: in sette avrebbero provveduto a istruire l’inchiesta per l’accertamento della colpa dei singoli Templari. Infine, Clemente annunciò l’imminente trasferimento della curia pontificia da Poitiers ad Avignone. Filippo, ottenute le importanti concessioni, il 20 luglio rientrò a Parigi, lasciando presso il papa, come ospiti permanenti, i suoi fedeli collaboratori: l’arcivescovo di Narbona, Nogaret e Plaisians. Oltre a controllare le mosse del papa, i tre avevano ricevuto l’ordine di ostacolare l’inchiesta della Santa Sede, rinnovando anche la richiesta del processo contro Bonifacio VIII. Clemente, per ribadire la sua assoluta autorità in materia ecclesiastica, pretese d’interrogare personalmente i Templari e Nogaret si dichiarò disponibile al trasferimento dei prigionieri. Una scorta di arcieri e balestrieri, prese in consegna il gruppo dei Templari scelti per l’incontro, che furono condotti a Chinon, dove vennero gettati nelle prigioni.  Il 12 agosto, in base alla data ufficiale della bolla, dopo aver interrogato 72 Templari – ma non il gran maestro (vedi box alle pp. 128-129), né gli alti dignitari dell’Ordine –, che a gruppi erano stati scortati alle udienze di Poitiers, Clemente prese la grave decisione di procedere contro l’Ordine, non solo nel regno di Francia, ma anche negli altri Stati ed emanò la Faciens Misericordiam, che imponeva a tutti i regnanti d’arrestare i Templari per sottoporli a tortura e interrogatorio, al fine di accertarne le colpe. Clemente non accettò mai l’idea che una congiura ordita a danno del Tempio avesse potuto costruire una simile campagna diffamatoria, perché la riteneva troppo rischiosa e troppo ampia per non avere qualche fondo di verità. Né si pose mai il problema del perché tutti, alla fine, confessassero le colpe di cui erano accusati. Era anche a conoscenza delle torture e sapeva che i prigionieri dopo i suoi incontri, tornavano nelle mani di Nogaret. Questa prassi, anomala per un’inchiesta della curia pontificia, avrebbe dovuto almeno insospettirlo, ma non lo fece. Anche le confessioni del maestro e degli altri dignitari sembrano inverosimili, come l’inginocchiarsi per chiedere perdono delle loro colpe blasfeme. Se Clemente ha davvero creduto a tali confessioni, ha dimostrato tutta la sua ingenuità (che però non palesò in altre delicate questioni giuridiche); se invece si è reso complice del complotto, allora risulta coerente con la scelta di campo che ha compiuto e cioè quella di evitare a ogni costo il processo contro Bonifacio VIII, che avrebbe provocato lo scontro diretto con il re e una probabile scissione della Chiesa gallicana. Sempre in data 12 agosto, Clemente emanò un’altra bolla, la Regnans in Coelis, per indire un apposito concilio, convocato per il 1° ottobre 1310 a Vienne, che avrebbe affrontato la questione templare e si sarebbe dovuto pronunciare anche sull’ipotesi di una nuova crociata. Infine, con la bolla Ad omnium fere notitiam, precisò che i beni dei Templari erano di proprietà della Chiesa. Nello stesso agosto del 1308 giunse in Occidente una notizia che dirottò l’attenzione da quanto accadeva a Chinon e forse contribuí alla svolta definitiva per il destino del Tempio. Nel precedente mese di luglio, una galea, salpata da Costantinopoli per portare rifornimenti alla guarnigione greca di Rodi, fu sospinta da una tempesta verso Famagosta. Un cavaliere cipriota riuscí a impossessarsene e la consegnò alle forze genovesi che operavano con gli Ospitalieri. I loro emissari convinsero il comandante della galea a negoziare la resa della guarnigione: posto un blocco navale intorno all’isola e aperte le trattative, il 15 agosto 1308 Rodi si consegnò nelle mani degli Ospitalieri. La conquista dell’importante caposaldo fu salutata come una grande vittoria crociata. In quel momento i Templari erano in prigione, accusati d’eresia, e la diffamazione nei loro confronti, diffusa dal Nogaret e dai Domenicani, aveva raggiunto tutte le province del regno, compresi alcuni Stati esteri. Gli uomini di Filippo non avevano piú bisogno di calcare ancora la mano contro il Tempio, era sufficiente esaltare l’eroismo e la grandezza degli Ospitalieri: il confronto tra i due Ordini era sotto gli occhi di tutti e pendeva a favore dei secondi.

Articolo di Fabio Giovanni Giannini. Medioevo n.2 Giugno 2011. Per gentile concessione

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