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martedì 26 giugno 2012

UOMINI SELVATICI NEL FOLKLORE ITALIANO


In principio era Enkidu. Il selvaggio per eccellenza, generato dagli déi per esaudire le preghiere del popolo di Uruk, Mesopotamia, vessato dallo stillicidio di esercizi guerreschi imposti dal tiranno che reggeva la città, il semidivo Gilgamesh. Il regolamento dei conti tra i due si consuma durante la festa di Ishkarra, ed è una lotta selvaggia e senza quartiere quella dell’uomo contro la bestia. Nessuno prevale, ed anzi il tiranno resta fortemente impressionato dal bellicoso valore del suo avversario. Tanto da deporre le armi e stringere con lui un patto solenne di amicizia. D’ora in poi si batteranno insieme, spalla contro spalla, e l’occasione propizia arriva praticamente subito. Poco fuori dalla città si apre una scura foresta di cedri. Quei tronchi farebbero proprio al caso loro, visto che ad Uruk il legname serve come il pane. Ma a guardia del pregiato bosco sta in agguato Khubaba. Lui sì, mostro assoluto. I due si incamminano per i sentieri della macchia, scovano il legno migliore ed iniziano a tagliarlo. Ma Khubaba si palesa ed attacca. Uniti, Gilgamesh ed Enkidu prevalgono. Tornano ad Uruk insieme al bottino della vittoria, e qui celebrano un trionfo tanto splendente da far sì che perfino la dea Ishtar proponga al semidivo di farle da sposo. Gilgamesh conosce bene la crudele volubilità della dea, ed oppone il suo netto rifiuto che scatena la collera di Ishtar sotto forma del Toro celeste Humbaba, proditoriamente sguinzagliato per procurare strage nei vicoli della città. Sulla strada del Toro si pone Enkidu, ma invano. Così, il selvaggio ritenta insieme al suo alleato. Preso per la coda, l’animale furioso viene infine abbattuto da un fendente di Gilgamesh che lo raggiunge nel mezzo del cranio, stramazzandolo a terra. Ancora una volta è la vittoria, ma il sorriso si spegne presto perché gli dèi decretano la malattia e la morte di Enkidu, insegnando a Gilgamesh per la prima volta nella sua vita d’eroe il significato dell’afflizione. Un dolore incolmabile per la scomparsa di quel sodale tanto diverso eppure tanto necessario. Perché dietro - e dentro - Enkidu sta lo spirito autentico dell’essere selvatico, dell’umano che non ha ancora reciso totalmente il suo legame con la terra e con il retaggio animalesco. Anzi, dell’uomo senza umanità. Enkidu è l’archetipo di tutto questo.
Gilgamesh ed Enkidu domano il Toro celeste (fonte: gwthomas.org).
Ed inaugura un ciclo destinato a durare nei secoli. Quello composto dalle irruzioni dell’inatteso, dell’estraneo, del non civilizzato nell’ordine costituito delle cose. Quello, ancora, che prende le forme e le sembianze degli innumerevoli uomini selvatici capaci, sotto differenti nomi, identità, particolarità, di popolare nei secoli le leggende italiane e non solo. Cös è un modesto paese da poco più di 5mila abitanti nel bel mezzo della Valtellina che avvolge la provincia di Sondrio. Una delle sue frazioni, proprio all’inizio della Val Gerola, si chiama Sacco ed ospita una vetusta abitazione di notai in cui è custodito un meraviglioso spaccato di come si viveva in terra orobica in pieno Quattrocento. La sala principale del palazzetto reca ancora i segni del suo ultimo utilizzo da fienile, che ha in buona parte leso gli intonaci delle pareti che un tempo ornavano le camere picte a decorazioni floreali e cartigli con proverbi in voga o sacre preghiere. Eppure, sui muri si intravedono ancora alcune nette figure. Una grande raffigurazione della Pietà. Un caritatevole San Bernardo presso cui sta, solennemente inginocchiato in atto di imperitura devozione, il committente dell’opera. L’architrave decorato con i tre Volti Sacri. Un cacciatore. E, in bella mostra nonostante la particolarità del soggetto, un uomo completamente nudo ad eccezione dei folti peli che ne ricoprono l’intero corpo, che brandisce una clava lignea e, in perfetta sintonia con le dinamiche proprie di una striscia comica, presenta un fumetto che gli fuoriesce dalle labbra e recita: Ego sonto un homo salvadego per natura,  chi me ofende ge fo pagura. Io sono un uomo selvatico di natura, a chi mi offende faccio paura.
L'uomo selvatico di Sacco (fonte: wordpress.com).
Un semplice spauracchio, verrebbe da pensare. Buono per spaventare gli sciocchi e gli irrispettosi, o magari per far paura ai bambini. Eppure, l’uomo selvatico erede del mediorientale Enkidu è ben più di questo. Anzitutto, si tratta di una narrazione che, come anticipato, ha finito per diffondersi a macchia d’olio. Oltre il folklore alpino valtellinese, certo, in una varietà tale di declinazioni che verrebbe da ipotizzare – e c’è già stato chi l’ha fatto esplicitamente – che più che di leggende su di un fiabesco uomo selvatico si tratti di frammenti di memoria legata alla presenza effettiva di ominidi cresciuti e vissuti accanto ed al di fuori dalla nostra civiltà. Proprio come Enkidu, decisamente altro sia rispetto al re Gilgamesh che, soprattutto, nei confronti dell’ordine sociale stesso di Uruk. E allora, largo all’ommo sarvadzo valdostano, ed al salvanel della Valsugana. Ma anche al salvan della Val Gardena o all’umìn selvàdich. Alle foulatones, al gigiat, al massaruò ed al sarvanot. Ai salvanelli – o sanguinelli – ed al bilmon, ai salvanchi, al mazzarol, all’om salvei ed alle sterminate fila delle anguane. Alla salvaria e addirittura al trittico composto dall’om dal bosch, dalla femena del bosk e dal bagon (figlio) del bosk. O all’om salvarek, ai crapòn, ai brüt. Lucca, Biella, Massa, Bellino e le Valli Valdesi. Il Cadore ed il cuneese, il Trentino e la Val Brembana, Sondrio, Ferrara, Mantova e perfino Milano e Venezia. Ovunque sembra esistere un uomo selvatico, alle volte imponente e minaccioso, in altri casi di dimensioni ben più contenute rispetto ad un comune essere umano.
Una delle tante rappresentazioni del selvaggio giunte sino a noi (fonte: nerocafe.net).
Per metà bestia, per metà folletto, mantiene saldo nella pelliccia che lo ricopre da capo a piedi e gli rende totalmente accessorio l’utilizzo di abiti di qualsiasi sorta quel legame ancestrale che vincola l’uomo con la terra, gli elementi, la semplicità dei cicli naturali. Così, sovente appare ingenuo e semplice nei modi e nel pensiero. Ma al contempo anche superiore all’uomo civilizzato in quelle attività che presuppongono un dialogo diretto e profondo con la natura. Gran maestro dell’arte casearia, nella maggior parte delle leggende giunte sino a noi è l’indiscusso detentore del sapere delle baite, e per questo insegna agli uomini a fare il burro ed il formaggio, disvelando l’uno dopo l’altro quasi tutti i suoi segreti. Quasi, perché un altro elemento comune alla totalità dei racconti popolari sul selvaggio per eccellenza è che la missione dell’uomo dei boschi non giunge mai a compimento. Lascia sempre dietro di sé un ultimo segreto, il più delle volte perché turbato dalla grettezza e dallo scherno dei suoi più civilizzati apprendisti. Ma i mezzi poco rispettosi, a volte, rappresentano anche la modalità d’elezione per estorcere all’Enkidu nostrano la sua saggezza. E allora l’uomo selvatico viene fatto ubriacare finché non confessa la sua arte segreta, ed a volte ci lascia perfino la pelle. E’ un’esperienza, la sua, che non si limita all’arte casearia ma abbraccia infinite conoscenze pratiche legate alla vita campestre. Guarisce il bestiame e lo accudisce scegliendo i pascoli migliori. Riconosce le erbe medicamentose ed insegna ad estrarne decotti prodigiosi. Sa perfino lavorare il ferro, ed all’occorrenza supporta i contadini chini sulle sementi. E’ una fiducia antica, quella che spinge il selvatico a confidare le sue eccellenti nozioni agli umani. Una fiducia semplice e genuina che, proprio per questo suo carattere ancestrale ed ancestralmente trasparente, finisce per essere tradita. Sempre. Ed è qui, nel tradimento del sapere puro portato dal selvaggio, che si consuma lo scarto più maestoso e definitivo tra l’impietosa, doppia modernità ed il passato ormai al tramonto. Il baratro che si va aprendo ed ampliando a dismisura tra chi è troppo occupato, come noi, a curarsi di un presente frenetico e l’Altro che, proprio come si faceva un tempo, riusciva a mantenere un filosofico distacco ed un’astrazione tale da concepire l’oggi come una parentesi effimera destinata a lasciar presto il passo al domani. Come s’allegra e canta l’uom salvatico Quand’il mal tempo tempestoso vede Sperando nello buono, ond’egli è pratico. Scrive Fazio degli Uberti nel suo Dittamondo del 1367. Gli fa eco addirittura il Boiardo, che nella sesta ottava del canto XXIII del primo libro dell’Orlando innamorato: E dicesi ch’egli ha cotal natura, Che sempre piange, quando è il cel sereno, Perché egli ha del mal tempo alor paura, E che ‘l caldo del sol li vegna meno; Ma quando pioggia e vento il cel saetta, Alor sta lieto, ché ‘l bon tempo aspetta. Tale è la filosofia dell’uomo selvatico. Ridere del brutto tempo perché presto tornerà il sereno, ed al contempo disperarsi per il sole che prelude alle perturbazioni. Pacifico per definizione, si imbatte invariabilmente nelle derisioni sciocche degli umani, che ne provocano infine la fuga ed il definitivo distacco dal mondo civile, popolato da quei simili remoti che tanto lo affascinano. Alle volte ride e balla sguaiatamente. Talora giunge a vestire i panni più propri del trickster, del folletto (non mancano le storielle che lo vedono addirittura abbigliato di stoffa rossa, e dunque imparentato al Piccolo Popolo) o comunque dello spirito goliardico e combina guai, capace di giocare tiri pesanti ma mai inopportuni come un novello e ridimensionato poltergeist di carne e pelo. Solitario per vocazione quando non per destino, anche nei rari casi in cui cerca la compagnia e massimamente l’affetto degli umani finisce sempre per pentirsi dell’unione impropria, e fuggire a gambe levate. Oggi, dopo tante cocenti delusioni ed altrettante repentine fughe, dell’uomo selvatico non restano neanche le orme diafane nel folto dei boschi. Altre tracce, quelle del suo passaggio di meteora mitica nella società contadina di un tempo, resistono ancora per chi sa vederle. Nel Biellese, in valle d’Andorno ed a poca distanza dal Lago della Vecchia, gli anziani indicano ancora una grotta oscura e dimenticata. E’ lo Speco dell’Uomo Selvatico. In alta Venosta, a Prevano, c’è il Sasso dell’Uomo Selvatico. La Tana dell’Uomo Selvatico spunta invece nel bel mezzo delle Alpi Apuane. A Melle si apre il Pertus dal Sarvanòt. Nella Val Ala, in località Chiampernotto, con un po’ di fortuna si trova il Bric del Selvatico, e sopra Cagnò, in Trentino, c’è il Bus del Salvanel. E la memoria del nostro Enkidu non resta confinata fuori dagli abitati. A Chiavenna si trova una via dell’Homo Selvatico. Vicino a Piazza San Marco, c’è la veneziana Calle Drio al Salvadego. Ed ancora, a Milano aveva aperto i battenti un’antica Osteria dell’Uomo Selvatico che, dopo la chiusura, è stata riaperta in altra sede come Trattoria dell’Uomo Selvatico. A Tirano, in provincia di Sondrio, la Porta Poschiavina fu abbellita dai dipinti (oggi assai rovinati) di due Salvanchi di pelo rossiccio, ciascuno munito dell’ovvio bastone ligneo. Se il primo fu con qualche sforzo accostato all’immagine di un’eremita, seppur pesantemente trascurato, l’altro incarnava a perfezione lo standard del salvadego. Oneta di San Giovanni Bianco, in Val Brembana, è invece conosciuta ai più perché ospita la cosiddetta Casa di Arlecchino, recante su di una parete l’immagine canonica del selvatico munito di clava, ed impreziosito dall’iscrizione:   Chi no e de chortesia non intragi in chasa mia se ge venes un polteron [poltrone] ce daro col mio baston. E’ ingombrante, la presenza dell’ominide delle selve. Ovunque spuntano come funghi le leggende e gli affreschi, le statue e perfino le maschere carnevalesche che ci riconsegnano la sua tradizionale immagine.
Un bozzetto di uomo selvatico munito dell'immancabile clava (fonte: storiadimilano.it).
Con un retaggio così profondo alle spalle, si fa davvero fatica e relegarlo nella sfera della fiaba, dell’invenzione, dell’evasione mitica dai canoni della realtà. Anche sforzandosi di separare il genuino dall’abbaglio – è il caso degli innumerevoli casi che le cronache storiche hanno documentato dipingendo la meraviglia di una società intera inconsapevole dell’esistenza di patologie quali l’ipertricosi – il dubbio rimane. A Genova, secondo quanto riportato dal naturalista e teologo svizzero Conrad Von Gesner, nel 1548 l’arciduca d’Austria Filippo portò con sé, oltre ad una sirena morta (!) ben due satiri, l’uno adulto e l’altro ancora giovane. Il naturalista Ulisse Aldrovandi cita invece il caso di una donna che, reduce da un viaggio all’estero, aveva portato seco una bambina di otto anni completamente ricoperta di pelo. La figlia di un uomo, anch’egli silvestre, originario delle Isole Canarie. Nel 1871, invece, le strade di Como erano imbrattate dai manifesti del Gran Serraglio Milanese, un’esotica esposizione itinerante di animali vari tra i quali uno stupefacente uomo selvatico, vivente anello di congiunzione tra la razza umana e la schiera delle scimmie. Evidenti casi di ipertricosi, come è ovvio supporre. Eppure, anche eliminando dalla casistica questo nutrito novero di vicende, ad oggi non sono poche le menzioni che, da ogni angolo di mondo, resocontano avvistamenti, incontri e rinvenimento di tracce di varia natura che condurrebbero a supporre l’esistenza di una specie Altra. Destinata dall’alba dei tempi – o forse dallo scherno che la nostra ottusa civiltà ha eretto a difesa da ciò che risulta radicalmente differente dai canoni più diffusi di normalità – a vivere accanto ed al di fuori dell’ufficiale civilizzazione. Articolo di Simone Petrelli. Tutti i diritti riservati
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