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giovedì 12 dicembre 2013

ERESIA E REPRESSIONE

Mentre nell’Alto Medioevo furono gli Ordini monastici a rappresentare lo spirito del cristianesimo delle origini, dopo l’anno Mille una serie di profonde trasformazioni politiche e sociali determinò un quadro diverso: vasti strati della popolazione, traditi da un clero assai poco ligio ai dettami evangelici, si identificarono nei richiami lanciati da una nuova figura religiosa, il predicatore ereticale. Si diffuse, cosí, un fenomeno di contestazione ritenuto pericolosamente «eversivo» dalla Chiesa di Roma, la quale non tardò a mettere in atto la sua risposta… Solo a nominarla, la parola «eresia» evoca l’immagine di un abisso costellato da roghi, processi, sadiche figure di inquisitori, abiure estorte con la violenza della tortura. Aspetti certamente non secondari della storia dell’eresia medievale, o meglio, del cristianesimo tout court; ma quella dell’eresia è una storia, soprattutto tra il XII e il XIV secolo, di vicende umane delicatissime, di sentimenti profondi e di ambiziose aspirazioni di rinnovamento spirituale. Sarà forse meglio, allora, scindere fin da subito, come fanno le piú recenti e moderne tendenze storiografiche, la storia dell’eresia da quella della sua antagonista: l’Inquisizione. Fatta questa premessa, è possibile parlare di eresia in senso lato? È legittimo provare a fare una sintesi di ciò che venne considerato eretico nei secoli medievali? Esiste un filo rosso che attraversa i secoli dal XII al XIV e riguarda l’ambizione al rinnovamento spirituale della società, in alternativa, quindi, al modello proposto e incarnato dalla Chiesa romana, ma non si può esaurire tale ambizione alla sola opposizione alle gerarchie cattoliche. La storiografia classica e contemporanea parla di «movimenti ereticali», ossia di una pluralità di esperienze diverse che puntellarono la storia del cristianesimo medievale. Ne scaturisce non piú una storia dei sanguinosi processi inflitti ai protagonisti piú o meno consapevoli dei movimenti ereticali, bensí la descrizione del contesto entro il quale, alla richiesta di un forte rinnovamento spirituale, la Chiesa cattolica romana rispose con una netta chiusura. Quali strade presero i movimenti per seguire le proprie aspirazioni e quali strumenti la Chiesa mise in campo per contrastare quella che era percepita come una minaccia di sovversione dell’ordine costituito? L’arco temporale prescelto ha una valida ragion d’essere, sebbene l’eresia, nel senso di una asserzione spirituale differente e contrapposta a quella dominante proposta dalla Chiesa cattolica, sia esistita anche prima e dopo il periodo considerato. Né, del resto, la storia della Chiesa medievale e quella dei movimenti ereticali possono prescindere l’una dall’altra.
La definizione «movimento ereticale» verrà usata per semplicità e per la sua immediatezza, ma il termine stesso è una «invenzione» storiografica: il Medioevo non conosce il concetto di «movimento», bensí quello di «setta», quindi di un gruppo ristretto e antagonistico, che si contrappone a «ordine», ossia a tutto ciò che è istituzionale e che ruota attorno alle gerarchie ecclesiastiche. Le esperienze ereticali di questo periodo si incanalarono in due filoni principali: il catarismo, che proponeva un modello istituzionale e teologico del tutto diverso rispetto alla Chiesa cattolica, e i movimenti pauperistico-evangelici, che, invece, rifacendosi al Vangelo, chiedevano una vigorosa riforma in senso evangelico della Chiesa di Roma.
In questo periodo storico le esperienze di rinnovamento spirituale ebbero a grandi linee caratteristiche comuni e si inserirono fra la definitiva riuscita della riforma della Chiesa, che stava per culminare nell’affermazione della ierocrazia papale, e l’apocalittica fine dell’avventura dolciniana (vedi box a p. 86), che segnò una rottura con le esperienze successive e con i metodi usati dalla gerarchia ecclesiastica.
La storiografia classica inserisce la nascita dei movimenti ereticali nell’alveo della riforma della Chiesa dell’XI secolo, quando le aspirazioni al risanamento dei costumi del clero e a una maggiore adesione al modello evangelico liberarono una serie di energie positive, richiamando all’azione le masse popolari in veste di protagoniste (ne è un valido esempio l’esperienza della Pataria milanese, nella quale fu parte grandemente attiva il popolo di Milano). Nel solco della Riforma gregoriana nacque e si diffuse un po’ dappertutto in Europa un nuovo modo di pensare la Chiesa e il suo ruolo: l’essenza del cristianesimo non si sarebbe compiuta nella Chiesa quale istituto di salvezza, o nella sua dottrina, bensí in una forma di vita religiosa stringente e impegnativa per ogni cristiano che avesse voluto dirsi tale. Per questo diffuso spirito di riforma la prima necessità era quella di attenersi fedelmente agli insegnamenti del Vangelo, lasciando i beni terreni per seguire l’esempio del Cristo, operando per il Nuovo Testamento cosí come avevano fatto gli apostoli.
La Chiesa sarebbe stata in grado di uniformarsi a questo modello? Il suo ordinamento salvifico e il suo edificio dottrinale avrebbero dovuto, prima di tutto, provare la loro validità proprio alla luce di quelle norme evangeliche di vita cristiana: i modelli della povertà e della vita apostolica divennero per un numero di fedeli sempre crescente il punto focale di una nuova concezione del cristianesimo.
Se la riforma della Chiesa, voluta dalle sue stesse gerarchie, mirava alla costruzione di un ordo giuridicamente e dottrinalmente inattaccabile e a esclusivo appannaggio del clero, la domanda popolare si poneva, invece, l’obiettivo di un rinnovamento dei costumi morali dei religiosi e di un maggior coinvolgimento dei fedeli nella vita e nei destini della Chiesa universale. La dignità dei sacerdoti e la perfetta conduzione di una vita ispirata al Vangelo divennero obiettivi irrinunciabili per moltissimi fedeli, poiché in quel tempo il clero era considerato un tramite ineliminabile nel rapporto con Dio e, quindi, come strumento di salvezza: un sacerdote corrotto moralmente e impreparato dal punto di vista dottrinale avrebbe potuto inficiare l’efficacia dei sacramenti impartiti e dunque rendere vana l’aspirazione alla salvezza dei fedeli. Cosí, nel corso del XII secolo, cominciarono a comparire in Europa i primi predicatori che diffondevano la convinzione della necessità di abbandonare i beni terreni, sull’esempio di una Chiesa primitiva tradita dal clero contemporaneo, e di riprendere in prima persona il Vangelo come fonte di ispirazione e di esempio personale.
Focolai piú o meno piccoli di critica alla Chiesa romana si diffusero un po’ ovunque e a Roma cominciarono ad arrivare segnali inquietanti di una contestazione che andava allargandosi a macchia d’olio, incontrando il favore di molte comunità, cittadine e rurali. Con una grande novità: molti di coloro che chiedevano di farsi esempio vivente di vita evangelica erano laici. Che cosa comportava tutto ciò? Essenzialmente la messa in discussione del monopolio clericale sulla salvezza delle anime: una dequalificazione del ruolo sacerdotale davvero epocale.
L’aspirazione a una Chiesa povera traeva il suo fondamento da un passo degli Atti degli Apostoli nel quale la prima comunità cristiana di Gerusalemme veniva descritta come tale. Il modello principale era, ovviamente, l’immagine del Cristo umile e diseredato. Tuttavia, per la Chiesa romana, la povertà della prima comunità di Gerusalemme divenne un modello stringente solo per chi avesse scelto la via del monastero, e non indicativo per tutti i fedeli. L’aiuto agli indigenti rimase certamente una delle peculiarità della religione cristiana, ma l’aspirazione alla povertà venne relegata nell’ambito di una particolare scelta di fede: ecco allora che l’imitatio Christi fu riservata unicamente ai religiosi che abbracciavano la vita monastica e preclusa ai semplici laici, ma ancor di piú alle gerarchie ecclesiastiche.
Per tutto il Medioevo, e sino all’XI secolo, i grandi ordini monastici furono dunque gli interpreti piú veritieri dell’esempio primitivo, con la scelta di professare la povertà volontaria dei propri monaci, ma senza che ciò divenisse un obbligo per l’ordine stesso, inteso come istituzione religiosa.
In passato gli storici hanno legato la rinascita di questa esigenza religiosa alle profonde trasformazioni politiche e sociali avvenute a partire dall’XI secolo e, quindi, a una maggiore consapevolezza e voglia di partecipazione da parte di ampi settori popolari della società cristiana. Se questo approccio pare innegabile, tuttavia altri storici hanno posto maggiormente l’accento su una rinascita dell’evangelismo, un ritorno ai testi della rivelazione cristiana che spinse le masse a rivendicare una Chiesa diversa. Dalla lettura e dalla diffusione sempre maggiore di testi del Nuovo Testamento e dei Padri della Chiesa riemerse sempre piú netta non solo l’esigenza di tornare al modello della Chiesa primitiva, povera e largamente partecipata dai fedeli, ma anche il dovere della predicazione missionaria. Da qui alla predicazione itinerante il passo fu breve. L’aspirazione popolare era quella di avere, quanto meno, un clero capace di soddisfare l’immagine della comunità primitiva, cosí ben descritta negli Atti degli Apostoli, e su quell’ambizione faceva leva l’insegnamento di eremiti, monaci, predicatori itineranti. Le folle furono mosse da visioni ideali della Chiesa delle origini e della santità apostolica, che si mescolarono anche a interessi e speranze terrene. L’aspetto pauperistico prese velocemente piede nelle parole dei predicatori itineranti, che cominciarono a richiamarsi addirittura all’esempio totalizzante del Cristo, misero, abbandonato e deriso: qui si sentiva forte lo scarto fra gli ordini monastici, i cui membri vivevano in povertà, ma i cui conventi potevano detenere ricchezze enormi. Il nome dei catari avrebbe fatto tremare le vene ai polsi anche al piú sprovveduto fra i fedeli della Chiesa romana, la quale, tra il XII e il XIII secolo, si impegnò in uno sforzo immane per contenerne la diffusione. Agli inizi del Trecento, tuttavia, Roma ne uscí vittoriosa, con la distruzione e la cancellazione dalla memoria collettiva delle tracce di quella che era stata la minaccia piú grande per l’ortodossia cattolica. Risale all’anno 1144 la prima testimonianza dell’esistenza di una formazione catara in Europa; ne narra il monaco premostratense Evervino di Steinfeld, in una lettera a Bernardo di Clairvaux: «Essi dicono che la chiesa è soltanto di presso loro, al punto che essi seguono con coerenza le vestigia del Cristo e rimangono i veri imitatori della vita apostolica, perché non cercano le cose che sono del mondo, non possedendo casa, né campi, né proprietà alcuna: cosí come il Cristo non ebbe possessi, né ai suoi discepoli concesse di averne. (...) Di loro stessi dicono: “Noi, poveri del Cristo, senza una sede stabile, fuggendo di città in città, come agnelli in mezzo ai lupi, siamo perseguitati come lo furono gli apostoli e i martiri, conducendo una vita santa e durissima nel digiuno e nell’astinenza, perseverando giorno e notte in preghiera e lavori (...). Noi sopportiamo ciò poiché non siamo del mondo: voi invece che amate il mondo, avete pace con il mondo, perché siete del mondo”». Se ne trae l’immagine di un gruppo non solo organizzato, ma in netta contrapposizione con l’istituzione ecclesiastica cattolico-romana, che si richiamava esplicitamente a una tradizione religiosa cristiana – si autodefinivano «buoni cristiani» –, ma diversa da quella cattolica ufficiale, sopravvissuta attraverso contatti e scambi con l’area balcanica e greca, da cui aveva ereditato un dualismo moderato. Tra gli anni Quaranta e Sessanta del XII secolo, infatti, diverse autonome manifestazioni ereticali avevano cominciato a convergere verso modelli estremamente spiritualizzati, connotati da una moralità rigorosamente ascetica, da cui trassero il nome di catari, vale a dire «puri». Tali modelli sarebbero stati ereditati tramite contatti con religiosi bogomili (seguaci del movimento eretico cristiano diffusosi nei Balcani nel X secolo, che prende nome dal pope bulgaro Bogomil; vedi box a p. 81) espulsi da Bisanzio nel 1143 dall’imperatore Manuele Comneno. Notizia certa di un contatto si ha negli anni Sessanta del XII secolo, quando a San Felix de Caraman, nei pressi di Tolosa, si riuní un concilio di religiosi catari, a cui partecipò il vescovo dualista Niceta di Bisanzio. Durante i lavori, i rappresentanti delle Chiese del Nord e del Sud della Francia si confrontarono alla presenza di delegati italiani, e si diedero una fisionomia strutturale piú certa: Niceta impose il consolamentum, cioè il battesimo spirituale attraverso l’imposizione delle mani, a sette vescovi e, da quel momento, il catarismo poté presentarsi come alternativa istituzionalizzata alla Chiesa cattolica.
Mentre nel Nord Italia l’unitarietà degli intenti durò poco e diede vita a ben sei chiese distinte e indipendenti fra loro – fra cui le piú importanti a Concorezzo, a poca distanza da Milano, e a Desenzano sul Garda – nel Sud della Francia le quattro diocesi fondate da Niceta cercarono un coordinamento sempre piú stretto grazie anche al sostegno politico dei conti di Tolosa. La grande diffusione dell’eresia catara in gran parte dell’Europa si inserisce nel piú ampio contesto del fervore religioso e spirituale dell’epoca, ma si caratterizza anche per la solidarietà estesa che, soprattutto in Linguadoca, il movimento cataro seppe raccogliere in vasti strati della popolazione. A nulla erano valse le missioni dei legati pontifici per restringere gli spazi politici intorno ai buoni cristiani, né tanto meno i numerosi dibattiti teologici condotti sulla pubblica piazza per sconfessare gli eresiarchi; la soluzione individuata da papa Innocenzo III fu quella della vera e propria crociata contro gli Albigesi, cosí chiamati dal nome della città di Albi, nella Francia meridionale.
Nel 1208 il pontefice dichiarò aperta la missione, a cui parteciparono soprattutto signori e cavalieri del Nord, desiderosi di mettere presto mano alle ricchezze dei «colleghi» meridionali.
Si ebbero violenze e stragi, e l’elemento religioso lasciò sin troppo spesso spazio a quello politico: la crociata fu innanzitutto una guerra di conquista dei baroni dell’Île-de-France, guidati da Simone di Montfort, per estendere il potere del re di Francia su un’area che sfuggiva al suo controllo. La crociata ebbe fine nel 1229 e fu seguita da una repressione inquisitoriale feroce, affidata all’ordine domenicano, che proprio allora faceva il proprio esordio in seno alla Chiesa romana. Nel 1244, alla caduta di Montsegur, ultimo baluardo della difesa militare catara, il movimento ereticale francese era quasi completamente estirpato, battuto sul terreno dell’isolamento politico e sociale, piú che sconfitto dal punto di vista religioso. Come reagí la Chiesa di Roma di fronte all’ondata di protesta, animata da una rete sempre piú vasta di predicatori? La risposta cattolica fu inizialmente affidata alla repressione dei vescovi locali, ma presto dalla città di Pietro si manifestò l’intenzione di assumere in modo centralizzato la gestione del problema, la qual cosa permise ai pontefici di affermare, passo dopo passo, la supremazia definitiva non solo sul corpo della Chiesa, ma sull’intera società medievale.
Chi, dunque, era da considerarsi eretico e perché, verrebbe da domandarsi, se tutto ciò che si chiedeva era di seguire semplicemente e in povertà il Vangelo? Fu papa Gregorio VII a dare la prima risposta già alla metà dell’XI secolo: «Quod catholicus non habeatur, qui non concordat Romanae ecclesiae» («Che non sia da considerare cattolico colui il quale non è in comunione con la Chiesa romana», come si legge nella XXVI sentenza del Dictatus papae), un criterio teologico e allo stesso tempo giuridico per definire ciò che poteva essere considerato ortodosso e ciò che non lo era. La regola della fede venne riposta unicamente nella Chiesa di Roma e per questa via i vertici ecclesiastici decisero di richiamare le popolazioni europee al rispetto di normative universalmente valide. A giudicare tale azione con un metro contemporaneo la conseguenza piú palese e dannosa fu che la grande ricchezza spirituale e umana delle molte sensibilità che si mossero e si misero in gioco venne annullata. Inizialmente, infatti, la prima reazione della Chiesa romana fu quella della chiusura, del rifiuto totale di dare accoglienza alle richieste provenienti dai movimenti religiosi, bollati quindi come ereticali. Solo lentamente, ma con sempre maggiore decisione, da Roma cominciarono ad arrivare decretali ed encicliche che elencavano con minuzia i movimenti da condannare e le modalità per attuare una corretta repressione.  Solo al passaggio fra XII e XIII secolo l’azione del papato nei confronti dei movimenti ereticali assunse una propensione diversa, principalmente a causa del preoccupante diffondersi del catarismo, ma soprattutto grazie a due fra le piú importanti esperienze religiose dell’intero Medioevo, quelle dei Poveri di Lione e degli Umiliati. Le nuove impostazioni adottate da Roma prevedevano una doppia linea d’azione: da una parte si fece ricorso alla tecnica della terra bruciata intorno ai protagonisti della contestazione religiosa; dall’altra si cominciò a discernere fra i vari gruppi, tentando il recupero di quelli meno «eversivi». Tale percorso portò gradualmente le gerarchie ecclesiastiche a imporre l’ortodossia come metro di valutazione non solo per le eresie, ma per l’intera contemporaneità. Il disegno ierocratico, ossia la progressiva affermazione di Roma come vertice di tutta la cristianità, si accompagna alla definizione sempre piú precisa di un contesto repressivo. Dagli anni Trenta del XIII secolo sul territorio europeo cominciano ad agire i primi inquisitori delegati dalla sede apostolica, gli inquisitores haereticae pravitatis. L’Inquisizione come istituzione era ancora di là da venire, ma dalla sede pontificia partiva una nuova strategia per avversare l’eresia che andava ampiamente diffondendosi. Una strategia che, attraverso l’istituzione di una rete di agenti direttamente controllati da Roma, e a questa solo referenti, presupponeva un deciso cambio di procedura.
Gli inquisitori erano giudici ecclesiastici straordinari, la cui competenza si affiancava a quella dei vescovi, che comunque rimanevano giudici diocesani ordinari e che presiedevano l’ufficio inquisitoriale. Le loro competenze riguardavano esclusivamente la ricerca dell’eresia, ma con limiti territoriali ben piú ampi rispetto a quelli dei vescovi. In questo modo la strategia divenne piú aggressiva e proattiva rispetto a quella di questi ultimi: se prima l’azione del presule era motivata dalla notizia certa della presenza eterodossa sul territorio della diocesi, ora l’inquisitore promuoveva le indagini anche in assenza di delazioni da parte dei fedeli e, soprattutto, non era vincolato ai confini di alcuna diocesi. La questione della tortura e delle punizioni corporali inflitte agli eretici è paradigmatica, ma può essere considerata solo il primo passo: con il canone Sicut ai beatus Leo, approvato durante il Concilio Lateranense III del 1179, si stabilí che fossero i «principi cattolici» a impartire le pene corporali agli imputati di eresia. La Chiesa, attraverso i suoi inquisitori, avrebbe celebrato i processi, ma sarebbe stato il braccio secolare a eseguire la pena. Duchi, baroni, conti, divennero responsabili in prima persona del rispetto dell’ortodossia religiosa e se ne fecero garanti, prestando l’opera dei propri soldati nella repressione. Con la decretale Ad abolendam del 1184 (il termine decretale indica la promulgazione di una norma da parte del pontefice, n.d.r.), papa Lucio III compí un ulteriore passo avanti: i nobili che non si fossero resi protagonisti della repressione antiereticale sarebbero stati scomunicati e sulle loro terre sarebbe caduto l’interdetto. Il papato andava dunque affermando la propria supremazia politico-giurisdizionale e premeva affinché l’eresia fosse equiparata a un crimine vero e proprio, ma lo faceva affermando al contempo un forte orientamento ierocratico, ossia costruendo la superiorità del potere religioso su quello temporale, e concentrando ancora di piú questo potere nella figura del papa. La Ad abolendam, tuttavia, è importante anche per un altro motivo, essendo la prima lista ufficiale di movimenti religiosi ritenuti eretici: catari, patarini, umiliati, poveri di Lione, passagini, iosefini, arnaldisti.
Il passo successivo lo compí Innocenzo III con la decretale Vergentis in senium del 1199, con la quale l’eresia venne equiparata al crimen lesae maiestatis. Mentre la repressione antiereticale si affinava e al tempo stesso si inaspriva, la decretale rappresentava un atto di piú precisa concezione teorico-giuridica del potere monarchico del papa: in quanto monarca, di fronte al carattere ormai generalizzato dell’eresia e in relazione al compenetrarsi di diritto canonico e diritto romano, vedeva definite le prerogative del suo potere tout court. Innocenzo III, in sostanza, agiva come un sovrano modello per l’intera cristianità: nei territori del Patrimonio di San Pietro spettava al suo potere di imporre le pene conseguenti all’equiparazione del delitto di eresia a quello di lesa maestà, mentre gli altri sovrani avrebbero dovuto fare altrettanto nelle loro terre. Chi si conformava al modello papale legittimava l’esercizio della propria autorità sovrana: in questo modo la repressione dell’eresia diventava uno degli elementi costitutivi del potere regale. Il corollario che ne discese fu che gli eretici veri e propri, ma anche i loro figli e tutti coloro che vi fossero entrati in contatto o li avessero favoriti dovevano essere isolati dal resto della società: la coercizione lasciava il passo a qualsiasi tentativo di persuasione. L’eresia appariva a un tempo delitto religioso-dottrinale e crimine di natura politica, ma, al tempo stesso, si apriva la possibilità di un rovesciamento, per cui il crimine politico – quale, per esempio, l’opposizione ghibellina al potere pontificio – sarebbe stato punito come eresia. Innocenzo III, però, riuscí a recuperare all’ortodossia diversi gruppi ereticali; il suo pontificato, infatti, si caratterizzò da un lato per l’inasprimento della lotta antiereticale, dall’altro, per la sua volontà di trovare una collocazione per i movimenti, all’interno dell’ordinamento ecclesiastico. La grande innovazione fu quella di istituzionalizzare le eterogenee esperienze che via via si manifestavano, secondo un disegno che tendeva a ricondurle nell’ambito delle già consolidate correnti monastiche e canonicali. È questo uno dei fondamentali momenti di rottura nella storia dell’eresia medievale: l’inserimento nel cattolicesimo ufficiale di alcuni movimenti pauperistico-evangelici, unitamente all’inasprirsi della repressione antiereticale, contribuí a distinguere nettamente l’ortodossia dall’eterodossia, poiché quei gruppi che contestavano la crescente potenza politico-giuridica del papato assunsero posizioni, dal punto di vista dottrinale, via via piú radicali. Senza questo passaggio, per esempio, la proposta francescana e la piú generale ondata mendicante del XII secolo non avrebbero mai trovato la giusta soglia di attenzione a Roma. 
L’impegno della Chiesa finalizzato a disciplinare ogni forma di sperimentazione religiosa si svolse contestualmente all’affinamento degli strumenti di repressione antiereticale. Tra gli anni Trenta e Quaranta del XIII secolo, Federico II – per cercare l’accordo con la Chiesa romana, e su richiesta del papato – emanò una compiuta legislazione contro gli eretici, che accoglieva le norme previste in precedenti decretali pontificie. Piú o meno negli stessi anni, nel 1231-1232, Gregorio IX precisò le prerogative dell’ufficio inquisitoriale, istituendo ufficialmente l’Inquisizione, che, di lí a poco, venne affidata ai Domenicani prima e ai Francescani poi. Accanto alle sistemazioni giuridiche, tuttavia, si mise mano anche alla regolamentazione dei processi, necessaria per renderli equi, secondo il punto di vista degli inquisitori. Diversi furono i manuali prodotti, proprio a partire dall’età del pontificato di Gregorio IX: su tutti fu quello del domenicano Bernard Gui, la Practica officii inquisitionis del 1321, a ottenere la maggiore diffusione. L’affermazione a tutto campo della potenza del papato, tuttavia, fece sí che fra i secoli XIII e XIV si riaccendesse la polemica contro la secolarizzazione della sede apostolica; questa volta, però, la polemica venne messa in campo dall’interno del fronte cattolico, vale a dire dagli zelatori della regola francescana, gli spirituali. Ciononostante, il papato si fece via via piú intollerante verso ogni forma di disobbedienza, politica o religiosa, facendo ricadere tutte le manifestazioni che minacciavano l’autorità papale entro la definizione di eresia. Nonostante la critica mossa dagli spirituali, molti dei quali finirono perseguitati e arsi sul rogo, il pericolo cataro e il dissenso pauperistico-evangelico vennero isolati e messi all’angolo; in questo modo la cristianità esauriva una lunga fase storica apertasi nell’XI secolo. La ricerca di autenticità cristiana aveva dato vita a lotte religiose e morali drammatiche, che si erano inserite o sovrapposte a tensioni di natura diversa, politica, sociale ed economica. Da quel momento esperienze e sperimentazioni religiose sarebbero state accettate solamente quando avessero fatta salva l’obbedienza romana, e a condizione che si coordinassero con l’ordinamento ecclesiastico culminante nel papato. Gli Ordini mendicanti, Predicatori e Minori in particolare, furono un elemento di importanza primaria in questo senso: grazie alle confraternite devozionali legate ai Mendicanti, tanta parte della vita religiosa dei laici venne sottratta alle influenze «negative» e incanalata in un ambito ortodosso.
La funzione dell’Inquisizione medievale non si esaurí di colpo, rimanendo giudice ultimo a garanzia del rispetto dell’ortodossia romana. Di lí a poco nuovi nemici divennero oggetto delle attenzioni degli inquisitores haereticae pravitatis: musulmani, Ebrei e soprattutto quelle donne che la Chiesa definiva «streghe». 

Fonte: Medioevo.it

Articolo di Fabio Brioschi in Medioevo n.197 Giugno 2013

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