Usato, abusato, per molti versi sconosciuto. Il titolo di barone ha origini medievali nobiliari. In primo luogo, la radice celtica della parola stessa indicava, secondo Giuseppe Galluppi, il significato di forza e potenza. Meglio specificato, nelle lingue delle comunità nordiche, con l’altro di uomo libero. Una parola che era quindi sinonimo di nobiltà e di splendore, e così intesa all’interno delle nazioni conquistate dai Longobardi, riferita ai conquistatori cui erano generalmente riservate le aree di leadership politica e militare mentre prima dell’assorbimento del nuovo popolo settentrionale, la popolazione originaria di prevalente etnia latina era lasciata in condizione di inferiorità sociale. Come segno di grande dignità nello stesso etimo della parola, con il titolo di barone furono indicati persino alcuni sovrani europei e i grandi nobili dei loro regni. Fino al periodo della ereditarietà dei titoli di duca, marchese e conte, anche i maggiori feudatari ebbero infatti i maggiori possedimenti qualificati come baronie. Lord Coke osservava che la baronia era il titolo onnicomprensivo per tutta la nobiltà e che baroni erano tutti i duchi, marchesi e conti, tanto che si poteva parlare di Council de Baronage. Era in pratica come dire “la congiura dei baroni” per il famoso episodio di ribellione che vide protagonisti i maggiori nobili del Regno di Napoli. Ma occorre fare attenzione: in entrambi i casi, qui il barone non è propriamente un titolo, quanto il sinonimo di una classe. Tutti i nobili napoletani, inglesi o scozzesi di cui si parla avevano in genere altri titoli; mentre successivamente ritroveremo conti o duchi che non possiedono un titolo secondario di barone. In Italia meridionale il titolo è sovente concesso nel parlare comune a persone che non ne hanno diritto. A volte ci si rivolge con questa qualifica a notabili che nel migliore dei casi godono l’uso di uno stemma familiare, senza neppure essere “nobili viventi”. Accadeva spesso infatti che esponenti della piccola o media borghesia di città e paesi elaborassero liberamente le proprie armi che venivano scolpite su portali, cappelle e altari di patronato nelle chiese. Di qui ad essere considerati come nobili, specialmente nel caso in cui le famiglie si imparentavano con esponenti della vecchia nobiltà, il passo era breve. Il titolo non esisteva giuridicamente nel Meridione italiano prima del passaggio della Corona a Gioacchino Murat. Nel Regno di Napoli continentale si concessero feudi senza qualificazione oltre a quelli legati ai titoli di duca, marchese e conte. Solo con l’arrivo del sovrano napoleonico furono concessi i titoli di barone, anche legati al solo cognome e non più collegati al possesso effettivo di un feudo. In Sicilia, invece, il titolo era sempre esistito e come tale concesso o menzionato nei diplomi medievali che ricordavano le tasse che ogni feudatario era tenuto a pagare. Dunque, tranne che nei casi di espressa intitolazione, per coloro che possedevano feudi non titolati, la qualifica precisa dovrebbe essere quella di “signore del feudo di”. Tuttavia nell’Italia meridionale non si usò mai rivolgersi a una persona come “nobile signore” o “nobile” o “patrizio”. Anche se legalmente esiste il titolo di patrizio (patrizio di Bari, di Salerno, di Eboli, e così via), quando i grandi nobili che godevano di questo titolo non avevano altri feudi (come i Caravita patrizi di Eboli, poi Principi di Sirignano), in genere non erano qualificati come “patrizio” nella conversazione ma solo in documenti ufficiali come riunioni o processetti matrimoniali. Dunque, l’uso inveterato contribuì a trasformare socialmente titoli di nobile e patrizio in quello di barone e a definire in questo modo gli esponenti della nobiltà non titolata.
Articolo di Carmelo Currò Troiano. Tutti i diritti riservati.
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