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giovedì 12 aprile 2012

SAN GIOVANNI BOCCADORO

San Giovanni Crisostomo, bassorilievo bizantino
del XI secolo custodito preso il Musée du Louvre
di Parigi (fonte: wikipedia.org)
347 anni dopo la nascita di Cristo, nell’Impero si verificano almeno tre fatti degni di nota. In primo luogo, a Coca, in quella che sarà poi la provincia autonoma di Castiglia e León, in piena terra di Spagna, nasce Flavio Teodosio. Ultimo imperatore romano a regnare su una terra ancora unificata, sarà presto magnificato con l’appellativo il Grande dagli scrittori cristiani, in quanto patrocinatore dell’ufficializzazione della religione del Cristo nell’Impero. Ancora, a Sardica, città dell’Illirico che corrisponde parzialmente al cuore dell’attuale metropoli bulgara di Sofia, proseguono i lavori dell’assemblea indetta da papa Giulio I. Un concilio ecumenico in terra neutrale che, nei fatti, complice la diserzione di massa attuata principalmente dai vescovi orientali, si trasforma in sinodo provinciale. Ma che pretende comunque di emanare scomunica formale nei confronti degli ariani e della loro negazione di divinità del Santo Verbo, parteggiando piuttosto per i niceni del vescovo di Alessandria. In terzo luogo, viene spiccato un ordine ufficiale di persecuzione nei confronti dei donatisti, esponenti scomodi di un’eresia cristiana nata in Africa trenta anni prima dalle prediche di uno scismatico di nome Donato di Case Nere. Il IV secolo è un’epoca di contrasti profondi. Cristiani e pagani si battono gli uni contro gli altri. Proprio come manichei ed ariani. E gnostici apollinari ed ebrei. Tutti contro tutti.
Ad oriente di Roma, le città veramente importanti si contano sulle dita di una mano. C’è Costantinopoli, che risplende della luce dei secoli mentre seguita ad adagiarsi sulle sponde del Bosforo, magnifica sebbene le poche decine di migliaia di suoi abitanti ne facciano una metropoli assai scarsamente popolata. Con il diffondersi del Cristianesimo, Alessandria è divenuta il nerbo della lotta all’eresia di Ario, per merito di Atanasio - vescovo, Magno e Santo per cattolici, copti ed ortodossi – e del Patriarcato che porta la sua impronta. Mentre l’Impero accenna a tramontare, i traffici che anticamente rendevano la città florida scemano, e con loro viene meno la popolazione, che lascia cadere a pezzi interi quartieri già minati. Antiochia è la terza città imperiale dell’est. Sin dalla predicazione di S.Barnaba, ha dimostrato di possedere le potenzialità di un baluardo della fede. Sede di uno dei quattro patriarcati iniziali, conta poco meno di mezzo milione di abitanti, che si affaccendano giorno dopo giorno tra i suoi monumenti maestosi ed il marmo dei suoi templi suggestivi, tra il nuovo foro di Caligola ed i fasti architettonici di aureliana memoria. E’una delle metropoli più belle e potenti dell’Impero. Nonostante i capricci sismici che sovente la tormentano. Nonostante gli incendi che troppo spesso la flagellano. Sembra proprio essere stata edificata per restare. Ad Antiochia, nell’impossibile connubio di gloria e rovina in cui si dibatte un’epoca intera, il 347 è l’anno di nascita di Giovanni. Figlio di Secundus, alto ufficiale dell’esercito di stanza in Siria, e di Antusa, benestante 22enne cristiana, diventato troppo presto orfano di padre Giovanni conduce una vita a dir poco monastica già in casa propria. Deceduta anche Antusa, ricerca con ansia il supporto perduto tra le braccia del magister Libanio. Questi è il più celebre oratore di Siria, e dischiude al discepolo irrequieto un mondo nuovo, composto di passioni forti e per lo più terrene. Appassionato dell’ars eloquentiae, massimamente forense, amante del teatro e cultore di gastronomia per puro diletto, Giovanni cresce in una delle culle del Cristianesimo senza tuttavia farsi eccessivamente tangere dal Divino Verbo. E’ il 365 quando, diciottenne, incontra l’uomo che gli cambierà, ancora una volta, la vita. Melezio, vescovo della Chiesa di Cristo ed artefice del suo battesimo. Melezio è una rivelazione vivente, soprattutto perché getta le basi di quella nuova affezione al sacro che, in Giovanni, cesserà di essere passione acerba per farsi missione quando il ragazzo prenderà a seguire l’esegesi della scuola retta da Diodoro di Tarso, che propugnava l’interpretazione letterale delle Sacre Scritture in diretta opposizione alle tendenze allegoriche radicate in quel di Alessandria. Giovanni è svelto, ed avido di conoscenza così come lo è stato dei piaceri terreni prima di incamminarsi sulla via della rettitudine. Termina in fretta gli studi e compie il grande passo. Presi gli ordini minori, si lascia letteralmente alle spalle la precedente esistenza per ritirarsi nel sacro romitaggio che consacra il suo tempo alla meditazione teologica ed allo studio dei dotti. La sua riflessione è tanto profonda che presto soverchia i limiti della sua mente e si rovescia nella composizione di un trattato, il De Sacerdotio, le cui pagine grondano delle influenze del Dottore e Padre della Chiesa Gregorio Nazianzeno, il Teologo vescovo di Costantinopoli. Un modello di vita e d’azione, dal quale non tarda ad ereditare la sua convinzione più radicale. 
Testa dell’imperatore Flavius
Arcadius (fonte: romanoimpero.com)
La perfezione non passa per forza attraverso il monachesimo. L’isolamento non è l’unica via che conduce alla grazia di Dio. Stare in mezzo alla mischia, piuttosto. Vivere da sacerdote, piuttosto, recando il Santo Verbo con sé, avvicinandolo alla gente, soppesandone il vigore nel mezzo delle tentazioni che un mondo corrotto e sull’orlo della follia può scatenare. Eccolo, il modo migliore di servire Dio. Una perpetua militanza di fede. Nell’inverno del 380 Giovanni ha ormai compiuto 33 anni. Il suo maestro Melezio lo richiama ad Antiochia. Sarà diacono, il primo grado di un’ascesa, quella lungo la scala della predicazione sacra, che lo vedrà presto divenire sacerdote, ed infine Crisostomo. Oratore di Dio, di fama tanto considerevole da calamitare stuoli di fedeli alle sue predicazioni. Tanti gli uditori, tanto catturati da iniziare presto a prendere addirittura nota delle parole che costellano le omelie del Santo. Giovanni è un fiume in piena, e quando non parla scrive. Produce un testo per ogni occasione. Tanti trattati e diverse centinaia di omelie. Esegesi delle Sacre Scritture, sui Salmi, sugli Atti degli Apostoli. Sul Vangelo di Matteo e su quello di Giovanni, ovviamente. Ma anche "Contro coloro che si oppongono alla vita monastica", "Sul sacerdozio" ed "Istruzioni per i Catecumeni". Omelie "Sull'incomprensibilità della Natura Divina", "Contro i Giudei", "Omelie per le Statue". Una produzione infinita. Il 397 è un annus horribilis che in quel di Milano si porta via il tedesco Aurelius Ambrosius. Vescovo e scrittore, dottore massimo e perfino uomo politico, soprattutto destinato ad essere venerato da tutte le Chiese cristiane che prevedano il culto dei santi. In Oriente è l’anno del trapasso di Nettario, primo arcivescovo patriarca di Bisanzio, che spalanca il baratro della contesa per la sua successione. L’imperatore Arcadio è perplesso. Di fronte a lui si agita un miscuglio di ecclesiasti senza requie. Tutti smaniano per gli onori della somma carica che la fede d’Oriente possa contemplare. Anche i funzionari di corte sono incerti. Perfino i più scaltri tentennano. Poi un giorno arriva Eutropio, l’eunuco più potente del seguito di Arcadio. Da mesi gli giungono voci di un prodigio di devozione che calamita le masse come fossero segugi in cerca di preda. Un giovane sacerdote siriano preceduto da una fama tanto più grande di lui. E da quel soprannome che desta tanta curiosità. Crisostomo, colui che pronuncia parole d’oro. Eutropio va dritto dall’imperatore e gli riferisce il tutto. Arcadio non ha più dubbi. Ha trovato il suo uomo e sciolto il suo nodo. Giovanni dirigerà la Chiesa dell’est. Con rigore. E forza. Inflessibile, si scaglierà contro malvagi e potenti, corrotti e licenziosi. Predicatore insuperabile, contrariamente al costume oratorio dell'epoca infarcito di allegorie, decide di adottare uno stile diretto. Che i passi biblici si facciano lezioni, ammaestramenti per la vita di tutti i giorni. Moralizza ovunque gli è possibile. Ammaestra. Corregge. Redarguisce. Con tanta sfrontatezza da annoverare ben presto un’infinità di nemici a corte. Troppi, perfino per uno come lui. Ma Giovanni procede diritto. La freccia di Dio che attraversa le coscienze non ammette intoppi o diversivi. Evangelizza le campagne. Crea ospedali. Indice processioni anti-ariane protette della polizia imperiale. Pronuncia sermoni di fuoco nei quali fa pubblico scempio di vizi e tiepidezze. Destituisce i presbiteri indegni, vescovo di Efeso compreso. Riconduce i chierici erranti all’interno dei monasteri. Flagella l’eresia in tutte le sue forme. Paganesimo o giudaismo per lui poco cambia. Che tutti si inchinino ai cristiani, “salvatori, protettori, capi e maestri della città”. Quando non parla o scrive è schivo. Mangia da solo, e pretende frugalità estrema da tutta la curia. Ma è un riformatore ed un prodigio, e tanto basta ad Arcadio per sostenerlo nonostante tutto. Nonostante gli odi. Soprattutto perché Giovanni ha un legame diretto con la corte. Un giorno si decide di traslare le reliquie di San Foca di Sinope. Un martire che il popolo conosce meglio come L'Ortolano, vissuto nel III secolo e fatto eliminare sotto il regno di Traiano. Proceduto al recupero delle ossa del martire, il corteo si snoda verso il nuovo sacrario predisposto per il suo secondo riposo. In testa c’è l’imperatrice, Eudoxia, cui è concesso di trasportare la reliquia attraverso la città adorante. Ma il rigore di Giovanni non ha limiti, e non ammette eccezioni. Gli manca – e palesemente - la diplomazia necessaria per cautelarsi dagli intrighi nei quali la corte bizantina è maestra indiscussa. Così arriva a rimproverare la stessa sovrana per essersi indebitamente appropriati dei terreni averi di una vedova. Il legame inizia a mostrare crepe evidenti. E’ il 402 quando i più zelanti tra i suoi detrattori decidono di giocarsi la carta più importante. Ricorrere a Teofilo, patriarca della Chiesa di Alessandria d’Egitto all’epoca in aperto dissidio con quella bizantina. 
Comana Pontica, oggi Gumenek,
 Turchia (fonte: panoramio.com)
L’occasione propizia si presenta quanto a Teofilo viene ordinato di raggiungere Costantinopoli per discolparsi di numerose accuse mossegli. Ma il patriarca non arriva nella capitale d’Oriente da solo. Al suo seguito c’è una nutrita schiera di vescovi alessandrini, che inonda il concilio dei bizantini e mette in minoranza Giovanni. Il Crisostomo, per la prima volta, viene messo in discussione. E stavolta non può contare sul supporto della corte. Viene repentinamente deposto ed esiliato. Ma nei giorni successivi avvengono fatti destinati a smuovere l’ago della bilancia. Eudoxia abortisce. Arcadio interpreta la disgrazia come un segno divino. Giovanni viene fatto richiamare a Bisanzio. Ora la corte sembra essere tornata sui suoi passi. Ma i nemici non mancano. Passano un paio d’anni e ci risiamo. Il 9 giugno 404 Giovanni patisce un nuovo ordine di allontanamento. Confinato a Cucusa. Tra i monti aspri dell’inospitale Armenia. Dove c’è molto da fare. E’ un lavoro durissimo. E l’ennesima croce da abbracciare. Ma Giovanni l’accetta, come sempre a modo suo. L’Armenia marcia. Passano tre anni e lo raggiunge un nuovo ordine. Trasferito sul Mar Nero per fare ordine in quel di Pitiunte. Prepara le sue cose e si mette in marcia. Ma è un viaggio pesante, ed il tempo è passato anche per lui. In più, sulla sua condizione iniziano a gravare gli anni di romitaggio, la solitudine e le privazioni che gli hanno minato la salute. Il 14 settembre 407 fa tappa a Comana, lungo la strada. Non si sente affatto bene. Stanco. Troppo debole. E nel Ponto finisce per incontrare la pace. Con la morte di Giovanni cala il sipario sulle vicende di un uomo fattosi largo tra le intemperie della sua epoca. Del Crisostomo, nelle cronache rimane una frase sola. Doxa to Theo pantòn eneke. Gloria a Dio in tutte le cose. Poco più di trenta anni dopo il suo decesso, l'Imperatore d'Oriente e figlio di Arcadio, Teodosio il Giovane, ordina ai suoi funzionari di accorrere presso il sepolcro pontico in cui il Padre della Chiesa riposa. I resti mortali del santo vengono cautamente prelevati e condotti in pompa magna nella capitale. Il 27 gennaio 438 è ormai notte fonda quando le spoglie del Crisostomo raggiungono Costantinopoli. Il corteo suda sette camicie per farsi strada fino alla Chiesa dei Santi Apostoli. A trattenere il codazzo di funzionari e dignitari e sacerdoti c'è una folla infinita ed osannante. Tutti ancora svegli per portare l'ultimo, commosso saluto deferente al figlio perduto e ritrovato della Chiesa, all'ex anacoreta, al ministro militante del Verbo di Cristo. Il Crisostomo, campione d'eloquenza sacra, Boccadoro capace come nessun altro di tessere le lodi dell'Onnipotente. Nel 1204 l'Oriente è spazzato dal disastro dell'ennesima crociata. La quarta. Bisanzio viene messa a ferro e fuoco, e sono poche le cose che scampano alla strage. Tra di esse, le spoglie di San Giovanni, il persiano, che ricevono degna ubicazione nell'austerità magica della Basilica Vaticana. Dovranno trascorrere ottocento anni perché quel che resta del campione d'Oriente possa far ritorno ai luoghi della sua vita mortale. A novembre 2004 sul soglio di Pietro siede un alfiere della Chiesa, un papa dell'est, un polacco per la precisione. Giovanni Paolo II. E' lui a donare parte delle reliquie del Crisostomo a Bartolomeo I, patriarca di Costantinopoli. Le ossa rimanenti resteranno in Vaticano, per alimentare la venerazione occidentale di quel Santo d'Oriente che ha saputo attrarre devoti tra le fila dei cattolici e degli ortodossi e perfino dei copti. Un'amore senza confini. Boccadoro. Praticamente nessuno lo chiama così. Non accade quasi mai. Il più delle volte, nella scelta della dicitura da impiegare prevale Crisostomo. Un suono, questo, esoticamente ellenico, e proprio per questo in un certo senso maggiormente ammantato di sacralità. Boccadoro no. Quello è un appellativo che ricorre più spesso altrove. Nella leggenda, per esempio. Ed infatti è Medioevo inoltrato quando tra il popolo romano inizia a circolare una storia che ha uno strano protagonista. E' una vicenda a tratti allegorica, sicuramente malinconica, senza dubbio di redenzione. La leggenda di San Giovanni Boccadoro. Con un Giovanni, quello storico e storicamente in prima linea nel riscatto della fede nell'Impero d'Oriente, uomo austero presto trasfigurato in Santo inarrivabile ed appena tumulato in San Pietro, al volgo non resta che crearne uno nuovo. Partendo da quelle radici mondanissime e controverse che riportano il Santo sulla terra in cui si trascinano i comuni mortali. Non più Crisostomo, dunque, ma Boccadoro. Un San Giovanni alle prese con il romitaggio, certo, seppellito nell'umile caverna impiegata come cella di meditazione antistante un convento sperduto nelle campagne del mondo. Tentato costantemente dal diavolo, e per questo reso ancor più fobico nei confronti dei contatti col prossimo. Un temporale furioso pone sulla sua strada una giovane e bellissima principessa che, disarcionata dal suo destriero imbizzarrito durante una passeggiata campestre, raggiunge il suo eremo sul fare della sera e chiede per tre volte ospitalità. In due occasioni Giovanni si mostra inflessibile, nella terza cede e fa entrare la ragazza nella cella. Questa si toglie alcuni degli abiti fradici indossati per cercare ristoro e requie, ma trova soltanto il risveglio della bestia, sopita e terribilmente terrena, dell'eremita che, sbavando in preda al furore, le balza addosso senza controllo. Fa i suoi comodi, il monaco impenitente, non resiste all'impeto. E nemmeno alla vergogna, tanto grande da costringerlo a sgozzare la principessa e gettarla in una cisterna antistante. Poi ritrova il raziocinio, ma è ormai tardi. Stupratore, violento, assassino. Per purgarsi del senno venuto meno che l'ha reso bestia per un'ora della sua vita di privazioni, Giovanni bestia lo diverrà davvero. Camminerà nei boschi a quattro zampe, lacero e sporco, un uomo selvaggio che ha dimenticato la sua natura ed abbracciato quella del lupo, quella dell'orso. Lui, il reo. Lui, il diavolo che aveva cercato di scacciare dal suo cospetto e che invece alla fine aveva posseduto il suo animo. Ad anni di distanza, barba e capelli lo ricoprono, unitamente ad una folta peluria che cancella dal suo essere qualsiasi residua parvenza di umanità. Un giorno cade preda dei cacciatori del re, che lo scovano e, postolo in ceppi come una fiera, lo conducono a palazzo per farne un monstrum, un fenomeno da baraccone destinato all'intrattenimento della corte. In una gabbia di tronchi, nel giardino del re, Giovanni vivrà giorni di cattività disperata, soffocato dal dolore lancinante che gli opprime le viscere. L'unica a provarne pena sarà la regina, inconsapevole madre della ragazza da lui assassinata e nuovamente in attesa delle gioie della maternità. Lo nutrirà compassionevolmente, la donna, con bocconi regali prelevati dai suoi stessi banchetti. Imboccandolo, noterà nei suoi occhi l'abisso senza fondo di chi ha smarrito sé stesso. Che strano animale. Che pena. Verrà il giorno del parto, con la regina che presto reca al mostro un bimbo nuovo, candido, innocente. Sarà quella vista ad incrinare la fortezza della bestialità di Giovanni. E il mostro verserà lacrime umane al cospetto dell'infante. Quest'ultimo, animato da volontà divina, gli rivolgerà parole miracolose per fargli sapere che sì, finalmente il suo castigo è terminato. Dio l'ha perdonato. Ora sta alla regina liberarlo dalla schiavitù della colpa. Giovanni ritroverà parole umane per confessare alla donna il suo orrendo crimine. Per comunicarle il luogo di improvvisato occultamento della figlia perduta. Immediati, gli sbirri del re correranno alla cisterna e vi faranno irruzione. Là, nel buio dell'incertezza, faranno la scoperta più grande. La principessa, viva e vegeta, una sola, piccola cicatrice a memoria del giorno in cui fu nascosta alla luce del sole. Prigioniera delle mura umide della cisterna, alla fanciulla sarà recato un unico, provvidenziale conforto. Un tozzo di pane al dì ed un calice di vino, recati in ogni giorno di prigionia alla ragazza rispettivamente da un corvo e da una colomba. Gli strumenti della pietà sconfinata di Dio. Rivelatore del crimine, ed ancor più del nascondiglio della principessa, Giovanni potrà allora accedere all'ultima, finale rivelazione. Quella del perdono degli uomini, che gli spalancherà il sonno della morte e la pace che tanto aveva inseguito castigandosi fino a smarrire sé stesso fra le pieghe del Creato. Non Crisostomo, perché qui non si disquisisce di eloquenza e di sacralità. Un più errabondo e terreno Boccadoro che, lungi dal far sfoggio della sua favella, di parole ne ha davvero poche ed umili. Che tribola e cade in errore proprio come i figli della Chiesa. Ma che pur di conquistare il perdono di Dio è pronto al sacrificio più estremo e terribile. Mettersi a nudo - nel bene e soprattutto nel male - di fronte agli occhi di tutti. 

Articolo di Simone Petrelli. Tutti i diritti riservati

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