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venerdì 6 aprile 2012

IL BASILISCO DI MEZZOCORONA

Le rovine del S.Gottardo sul pianoro antistante
la rupe Corona (fonte: forumcommunity.net)

I vecchi Brusacristi se la ricordano ancora, questa storia. Hanno avuto occasione di ascoltarla più e più volte, mentre la legna si consumava crepitando tra gli alari del camino ed il buio spandeva il suo guanto nero nella Piana Rotaliana, là dove un tempo non c’era altro che fango ed acquitrino. Gli ultimi dissodatori, quelli che avevano rivoltato le zolle della valle miz (bagnata), che avrebbe poi dato il nome alla zona, asciugando il ventre molle della piana, sono ormai andati ad ingrassare la terra. Ma i loro figli li hanno sentiti sospirare tante volte, mentre alzavano gli occhi al cielo verso la rupe, verso Corona, il nome antico con cui veniva indicato il castello S.Gottardo che dai primissimi anni del Medioevo vigilava sulla valle, ben riposto all’interno di una grossa caverna. Mezzocorona solo dal 1924, questo luogo ha cambiato nome spesso.
Corona de Metzo e Corona de Mez. Mezzotedesco e Metzio de Corona. Kronmetz e Deutschmetz. Indizi di una storia che si perde nella notte dei tempi, ben oltre la tenzone del 584 in Campo Rotaliano, che vide disputare le colonne dei Franchi di Chramnichi, da un lato, ed i Longobardi di Regilone conte di Lagare dall’altro, reduce quest’ultimo dalla ricca scorreria sul Castello di Anagnis e presto sopraffatto dai primi. Ben oltre, ancora, la Duecentesca disputa per il confine sul fiume Noce che oppose i Brusacristi tirolesi con il Vescovado di Trento ed i vicini di Mezzolombardo, i Forcoloti. Con poco più di 5mila abitanti, oggi non è altro che un tranquillo comune della provincia trentina. Che custodisce però la leggenda più antica della sua terra. Una storia che risale ai giorni immemori, in cui il S.Gottardo era già un rudere in disuso, buono per fare da culla alle rose selvatiche ed al caprifoglio, ai ciclamini ed ai rigogli dell’erica. Buono, soprattutto, per vegliare sul sonno placido dei pipistrelli e sull’isolamento dorato dei falchi. In un giorno di temporale, sulla valle per un attimo si fa più scuro che a tarda notte. Poi tutto tace, la pioggia riprende a cadere diritta finché l’acqua non cessa del tutto. Tutto normale. Tranne l’inferno che si è appena scatenato su Corona. Fuggono i pipistrelli a sciami, nonostante la luce del giorno. E strepitano i falconi, cacciati con terrore dalle loro casette sul pianoro. Una bestia più grande, infinitamente più crudele di loro ha guadagnato riparo fra i ruderi del maniero in rovina. Come serpe smisurata, il corpo tempestato di scaglie dure. Invulnerabile alle creature di terra, specialmente quando spicca il volo spinto dalle ali robuste. Si fa strada tra le rose ed i ciclamini, sradica l’erica e fa marcire il caprifoglio. In una nicchia si abbandona al sopore, cullato dal suo stesso lezzo che ha messo prima in allerta e poi in fuga le bestie del luogo. Il Basilisco. Il Piccolo Re. Re dei serpenti, per la precisione. La creatura più venefica in assoluto. Capace di uccidere con il morso, con il fiato, stridendo o sputando fiamme perpetue, con lo sguardo perfino. Animale da bestiario, da favoletta di Plinio il Vecchio, da poesiola di Lucano. Sul capo, una macchia lattea a mo’ di mitra, di diadema. Nato dalla copula blasfema di due galli di sette anni rinchiusi in una cella sotterranea. 
Castel Firmian (fonte: mondimedievali.net)
Perversamente scaturito da un uovo sferico, covato da una serpe o da un rospo per nove anni di fila. Abominio di natura, non può che vivere nel deserto, portatore sano com’è di una devastazione completa che annichilisce tutto ciò che lo contorna. Mostro meraviglioso, una volta abbattuto, bruciato e macinato consente di ottenere un tesoro alchemico, l’aurus hyspanicus. Simbolo di origine egizia della potenza e dell’eternità della stirpe, a malgrado del suo apparentamento con biscioni e rettili infidi di ogni tipo, finisce immortalato sugli stemmi dei casati nobili e su quelli di tante città d’Europa. Parente prossimo, ancora, del Serpente Regolo, pernicioso e vendicativo, con il capo delle dimensioni della testa di un bambino, che abita fossi e rovine, campi e foreste della Toscana, dell’Umbria e dell’Alto Lazio. Un basilisco è praticamente invulnerabile. Sono solo tre le cose che in tutto il Creato possono averne ragione. L’attacco di una donnola, destinata tuttavia a perire anch’essa indipendentemente dall’esito dello scontro. Il letale canto di un gallo, proprio come quello che gli ha donato la vita. L’immagine stessa della bestia, riprodotta da un provvidenziale specchio in grado di restituire al basilisco il suo sguardo di morte. Il mostro addormentato sul Corona è tutto questo. Soprattutto, è un potenziale flagello per tutta la zona. Dorme per un giorno intero. Poi qualcosa lo risveglia di colpo. I morsi della fame. Fischia il mostro, sbuffa d’impazienza fiutando l’aria in cerca di stimoli. Si trascina fuori dalla tana, sporge la testa di quel tanto che basta per imbattersi nella veduta della valle. Diradatosi il vapore del temporale, la Piana è un lungo mantello turchese di campi, intervallato da una profusione di vitigni e, qua e là, i dadi chiari delle abitazioni dei valligiani. Non trattiene più l’impeto, il basilisco del Corona, si getta a capofitto dalla rupe e spiega le ali in un fremito d’aria ghiacciata che, a sorpresa, non fa alcun rumore. Piomba in fretta su un agricoltore che sta arando il campo. L’uomo non realizza nemmeno che sta andando incontro alla morte, quando il drago solleva lui, il carro ed i buoi ed inghiotte tutto, in fretta. Non è ancora soddisfatto, il mostro, e seguita a volteggiare sulla valle e, di quando in quando, piomba su quelle formiche minuscole che sono uomini al lavoro e animali da fattoria e cani e qualsiasi altra creatura che ha la sventura di passare da quelle parti ora che Dio è così lontano. Al suolo cade copiosa la sua bava venefica, bruciando tutto ciò che ricopre e, laddove la terra non si scioglie, il suolo prende ad ardere per le fiamme fatali che sputa dalle fauci. Quando la scorreria finisce, della valle non è rimasto che un cumulo di macerie. Il demonio è tornato alla sua tana fra i monti. Dalle cantine del paese riemergono pian piano gli scampati. 
Picchiotto in forma di Basilisco, bronzo e
lacca bruna veneziana del 1600
(fonte: padovanet.it)
Non tutti riescono a mettere a fuoco la situazione. Alcuni intuiscono il dramma, ma non trovano parole abbastanza crude per pronunciare quel nome, quel fumo, quelle fiamme pestilenziali. E adesso, dopo il terrore e la strage, arrivava il peggio. Tra maledizioni e perdite di senno, tra improperi e lacrime amare, i valligiani devono decidere cosa fare. Fuggire da quel paese e da quella valle ormai maledetti? Nascondersi fino alla fine dei loro giorni? Abbandonarsi alla collera della bestia venuta a castigarli? Li risveglia dal delirio la possente voce del comando. Ugo Firmian, il conte. Astuto. Eccezionalmente forte. Reduce dalla disputa in Terrasanta, e dunque benedetto dal Signore. Più che un commento, il suo è un memento. Solo i vili si arrendono ancor prima di affrontare il pericolo. Cosa vuole, quel nobilotto impettito? Cosa pensa di fare lui contro la furia del demonio? Chi è per contrastare il castigo di Dio? Dev’essere impazzito, mormorano in molti. Ma lui prosegue. Super aspidem et basiliscum ambulabis, dice citando i salmi biblici. Camminerai sull'aspide e sul basilisco, mentre i più devoti popolano cadono in ginocchio e si segnano in cerca di salvezza. L’impresa è sua. Sfiderà il basilisco, comunque. Se vincerà, restituirà una vita normale, onesta, laboriosa ai suoi conterranei. Una vita come quella di sempre, con doveri e fatiche e matrimoni e nascite all’ombra del Corona. Se perderà, darà comunque tempo sufficiente alla gente, barricata nelle provvidenziali cantine del villaggio, per fuggire. Torna, torna in fretta a palazzo il Firmian. Chiama i servi e si fa abbigliare. Cotta di maglia e paramenti, armatura e spada che ciondola nel fodero. Poi si fa portare uno specchio dal suo camerino. Ed un secchio di latte dalle stalle di palazzo. Appiedato, i due fardelli nelle mani, il nobile si avvia all’impresa. Alcuni coraggiosi tra i paesani sono ancora fuori dai sotterranei. Lo vedono ed allibiscono. Va verso morte certa, ma così sia, visto che la follia l’ha sicuramente colto. Ugo Firmian avanza, scegliendo la penombra per non farsi scorgere anzitempo dalla bestia, Scivola tra covoni anneriti e palizzate in fiamme, tra voragini sul suolo e pozze di bava acida. E inizia l’ascesa alla rupe. Rallentato dal peso della cotta, della corazza, del secchio che minaccia di rovesciarsi e dallo specchio che sembra scivolare. Troppi cauti passi dopo è davanti al pianoro su cui il S.Gottardo giace ferito a morte dal tempo e dall’incuria. Il maniero non è l’unico quieto, visto che, nella sua tana di ruderi, il mostro gorgoglia addormentato. Il conte ci ha messo tanto ad arrivare in cima. Ma ora deve fare in fretta, il tempo è un lusso che fa a pugni con l’ardimento. Nei pressi della tana del mostro dispone il secchio col latte, poco lontano anche lo specchio. Controlla il tutto, poi cerca un riparo tra la vegetazione e si nasconde. Sorge un’alba rosata sulla rupe, presto la valle inizia ad inondarsi di luce del mattino. Ugo Firmian è ancora la suo posto, i nervi saldi hanno fatto posto alla sonnolenza e lui, proprio come i gatti, riposa vigile, con un occhio solo. Poi un rumore lo riporta alla delicata realtà che si è scelto. Il basilisco grugnisce e si sveglia. Il suo enorme ventre brontola. La fame, ancora una volta, lo rende schiavo e lo spinge ad un nuovo, orrido pasto. Scagliato e verdognolo come una serpe, la più grande che il conte abbia mai visto, occhi piccoli, narici ricolme di vapore fetido, fauci enormi, il muso del basilisco esce dalla tana di fortuna. Si muove quel tanto che basta per fiutare il catino di latte. 
Basilisco di Ulisse Aldrovandi (fonte: summagallicana.it)
Ugo Firmian è ridotto ad un guizzo di nervi. Teso come una corda di violino. Attende. O la va o la spacca. La bestia si trascina al catino, ed inizia a lappare rumorosamente il latte. Lo finisce in un attimo, poi alza la testa e si incrocia nello specchio. E’ frastornato. Si squadra, muovendo zampe e fianchi per capire cosa, chi, ha di fronte. Poi arriva il momento. Il mostro si solleva, vorrebbe minacciare l’altro, l’animale che lo guarda dietro la superficie lucida. E basta quel poco al conte per lanciarsi, spada alla mano, verso il ventre dell’animale. Un affondo tra le scaglie, e l’incubo finisce per tutti. Il conte vincitore si sporge dalla rupe, fa un cono con le mani ed urla con tutto il fiato che ha nella valle. Chiama i paesani, invoca la vittoria appena riportata, celebra la vittoria conquistata con l’astuzia e l’incoscienza del giocatore incallito. I poveri valligiani tremano nell’oscurità delle cantine del paese. Ma alcuni hanno l’udito fine. Captano la voce del conte Firmian e si precipitano fuori dai nascondigli. In un attimo, tutto il paese si incolonna verso la rupe. Presto scorgono il nobile vincitore, alto sopra lo strapiombo, che ha sollevato sulla spada il pesante fardello del suo trionfo. Dalla sua daga pende, inerte, la carcassa del mostro. Cola il veleno, ricade sulla cotta. Una goccia, tuttavia, si fa strada lungo il braccio. Strazia le carni del coraggioso, che in un attimo diventa una torcia umana. Così, mentre i primi arrivano in cima al Corona, la vita del conte è già giunta al termine. Sulla spianata di fronte alle rovine del S.Gottardo rimane solo il basilisco morto e poco distante, un cadavere che sparge fumo dalla coltre di un’armatura ormai inutile. Festeggiarono piangendo, i valligiani, la liberazione dal giogo della belva che costò loro al contempo la morte dell’unico eroe che il loro minuscolo paese poteva permettersi. E’ una leggenda anomala, quella di Mezzocorona. Più umile di tante, più drammatica del consueto. Tanto particolare da attingere all’esotico oltre che al folklore nordico cui apparterrebbe per prossimità. La fiaba alpina sembrerebbe infatti ad un primo sguardo e semplicemente la più canonica delle derivazioni della storia di San Giorgio e il drago. Ma quello del basilisco di Mezzocorona è un racconto che, stante la motivazione salvifica universale che muove i passi del conte e cavaliere Firmian, richiama addirittura il Caos primordiale della tradizione egizia, personificato dal malvagio serpente -dragone Apopi. Questi, creato dal demiurgo Neith secondo la cosmogonia di Esna, costituiva una quotidiana minaccia per il dio Ra nel suo viaggio verso Duat. Per questo, doveva essere periodicamente domato dalle forze del bene, incatenato e trafitto con lame, affinché il suo sangue sgorgante tingesse di rosso vivido i cieli mattutini e serotini. Oggi, in una grotta sopra Mezzocorona si scorgono appena i ruderi di alcune antiche mura. E’ quel che resta di un vecchio castello che fu teatro dello scontro più importante di Val di Non. Quello per la liberazione finale da un’entità malvagia e fuori controllo, che senza giustificazione o diritto arrecò tanto danno in questa valle. I più anziani tra i Brusacristi, gli abitanti tradizionali del luogo, si sorprendono a volte a sospirare alzando gli occhi al cielo verso la rupe, verso Corona e le rovine del castello S.Gottardo. Cercano, forse, conferma ai racconti che in tante notti hanno udito ed imparato a memoria, raccolti intorno al focolare.

Articolo di Simone Petrelli. Tutti i diritti riservati

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