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giovedì 5 aprile 2012

LA BATTAGLIA DI OTRANTO

La battaglia di Otranto è il nome con cui è conosciuto il combattimento nell'omonima città salentina del 1480, quando un esercito ottomano, in realtà diretto a Brindisi, ma dirottato più a sud da un forte vento di tramontana attaccò la cittadina allora appartenente agli Aragonesi. Il luogo dello sbarco avvenne su una spiaggia a nord di Otranto che prese il nome proprio da quest'avvenimento tutt'oggi chiamata baia dei turchi. La città fu posta sotto assedio per circa due settimane e i suoi abitanti si rifugiarono all'interno delle mura resistendo e respingendo con vigore le offese. Una volta, però, che i turchi riuscirono ad aprire una breccia, gli otrantini (per la maggior parte disarmati) non riuscirono a contenere la furia degli invasori soccombendo sotto i colpi di scimitarra. I bambini più fortunati furono presi e portati in Turchia per fare da schiavi, altri furono violentati e uccisi con le donne, altri ancora dovettero subire tremende mutilazioni.
Al termine della battaglia, il 14 agosto 1480 furono decapitati sul colle della Minerva 800 otrantini che si erano rifiutati di rinnegare la religione cristiana: sono ricordati come i Beati martiri di Otranto, le cui reliquie sono custodite nella cattedrale del paese. In seguito alla battaglia e all'invasione degli ottomani, andò distrutto il monastero di San Nicola di Casole, che ospitava allora una delle biblioteche più ricche d'Europa. Maometto II, a circa un trentennio dalla presa di Costantinopoli (1453) disponeva di una flotta ed un esercito sempre più efficaci in grado da minacciare l'Europa e tale era anche la sua artiglieria capace di produrre consistenti devastazioni .
Su questa base aveva provato a liberarsi dei Cavalieri di Rodi, aveva fallito nel suo intento ed alla ricerca di nuove guerre aveva posto fra i suoi obiettivi Rodi l' ultima isola nemica che resisteva, circondata dai possessi del Sultano. Nel maggio del 1480 la flotta turca fece rotta ancora una volta su Rodi, e Ferrante di Napoli spedì due grosse navi in soccorso ai cavalieri gerosolimitani. In realtà questa era solo una azione diversiva infatti il sultano, contro le aspettative e quasi contemporaneamente, fece salpare una seconda flotta approntata a Valona. Il Sultano voleva attaccare il Reame di Napoli e non Rodi. Aveva scelto come bersaglio Brindisi, scovando il pretesto in presunti diritti turchi sull'eredità dei principi di Taranto. Maometto II intendeva nell'immediato, indipendentemente dalla sua manifesta volontà di realizzare il sogno di espugnare Roma, punire Ferrante di Napoli per l'aiuto da questi fornito ai Cavalieri di Rodi e agli insorti albanesi. Comandante della flotta turca era Gedik Ahmet Pascià, noto come Giacometto, rinnegato greco o forse albanese, che era stato uno dei primi fra coloro che avevano istruito i Turchi sull'arte della navigazione. Gedik Ahmet Pascià era stato da poco nominato 'sançak bey', governatore del sangiaccato (cioè parte di una provincia) di Valona. La sua flotta era imponente. Stando alle varie fonti storiche essa era composta da un numero compreso tra le 70 e le 200 navi nominalmente capaci di trasportare tra i 18.000 e i 100.000 uomini: cifre in continua oscillazione nelle stime anche a seconda della classificazione di ciascuna imbarcazione poiché le armate marittime, oltre alle navi da guerra, includevano una serie di legni minori che andavano dalla nave da trasporto sino alla piccola barca di appoggio. Per approssimazione, la flotta doveva disporre in fatto di navi da guerra di 90 galee, 40 galeotte e altre 20 navi, per un totale quindi di circa 150 imbarcazioni. È più credibile quindi un numero trasportabile pari a 18.000 uomini. L'armata turca si concentrò a Valona per imbarcare le truppe. Attraversò il canale d'Otranto di notte, ed il 28 luglio 1480, a causa di una portentosa tramontana, si ritrovò davanti ad Otranto, porto facile da espugnare e più vicino alla costa albanese. Otranto era una città ricca e fiorente ma mal fortificata nei confronti di un attacco portato dalle artiglierie turche. Otranto , non contando che 6.000 abitanti, avrebbe però dovuto contare proprio sulle fortificazioni a fronte del soverchio numero degli avversari. La crisi italiana favoriva i Turchi. Gli Stati italiani divisi tra loro non avrebbero contrapposto alcuna forza politico-militare. Nel 1479 la pace che aveva concluso la lunga guerra turco-veneta aveva reso Venezia neutrale; la Serenissima sarebbe comunque stata ostile a Ferdinando di Napoli (1458-94) al quale voleva togliere le città pugliesi, per cui non contrastò in alcun modo il passaggio di una così grande flotta. I Turchi sapevano inoltre che le armate aragonesi e pontificie erano impegnate dal 1478 contro Firenze, e in questo quadro generale concepirono il proposito di occupare un lembo strategico del Salento, come testa di ponte e spina nel fianco delle potenze cristiane. Il 28 luglio, presso i laghi Alimini, dalla flotta turca sbarcarono 16.000 uomini (nella zona oggi chiamata Baia dei Turchi). Nei primi momenti dello sbarco si scontrarono in isolate scaramucce con i soldati della guarnigione otrantina che cercava di bloccarli mentre scendevano dai navigli. Tuttavia, i soldati pugliesi furono messi alle strette dal continuo accrescersi delle forze turche e costretti a riparare nelle mura. A quel punto, portate a terra le artiglierie, Ahmet Pascià iniziava l'assedio. Il 29 luglio la guarnigione e tutti gli abitanti abbandonarono il borgo in mano ai Turchi per ritirarsi nel castello che ne costituiva la cittadella. Già il giorno successivo al primo attacco i Turchi, occupato il borgo, compivano razzie nei casali vicini. A difendere Otranto c' erano solo 400 uomini guidati dai capitani Francesco Zurlo e Giovanni Antonio Delli Falconi; la città sguarnita e mal difesa, non avrebbe potuto contenere a lungo l'impeto formidabile dell'artiglieria turca, ma volle resistere comunque. Quando Ahmet Pascià pretese la resa dai difensori, questi rifiutarono immediatamente. Zurlo sdegnosamente respinse la proposta di Ahmet - la vita in cambio della resa - ed in risposta le artiglierie turche martellarono immediatamente con il loro fuoco la città. La cittadella otrantina era sprovvista di cannoni e le sue mura vennero incessantemente colpite dalla formidabile artiglieria ottomana. Gli otrantini opposero un'eroica resistenza; durante la notte e nella situazione più disperata, il popolo guidato da Ladislao De Marco, si raccolse nella cattedrale e qui giurò di resistere sino all'ultimo. Le truppe musulmane si erano divise in due gruppi. Di questi uno proseguiva il bombardamento e l'assedio e l'altro, separato in piccoli reparti, dilagava nel territorio saccheggiando, devastando, facendo molti schiavi e sconfinando anche a Lecce e Taranto. La difesa si protrasse disperatamente per due settimane, ma restò vana l'attesa dei soccorsi di Ferrante, re di Napoli e del di Lui figlio Alfonso duca di Calabria. L'11 agosto, dopo 15 giorni d'assedio, Ahmet ordinò l'attacco finale, durante il quale riuscì a sfondare. Il castello gli cedette e fu espugnato. Il grande divario di forze aveva deciso l'esito dell'assedio. Incredibili le crudeltà commesse dagli assalitori sugli otrantini inermi. Nel massacro tutti i maschi maggiori di quindici anni furono uccisi. Donne e bambini furono ridotti in schiavitù. Stando ad alcune stime i morti furono 12.000 (inclusi quelli periti nei combattimenti e per effetto dei bombardamenti delle grosse artiglierie) e gli schiavi 5.000; rimane il dubbio comunque che la città potesse contare così tanti abitanti (vanno probabilmente conteggiate anche le numerose vittime delle continue scorrerie nei paesi dell'entroterra). I superstiti e il clero si erano rifugiati nella cattedrale a pregare con l'arcivescovo Stefano Agricoli (e non Stefano Pendinelli, come si era creduto in un primo tempo). Ahmet impose loro di rinnegare la fede cristiana. Rifiutarono, e i Turchi con una proditoria irruzione nella Cattedrale, il 12 agosto 1480, li catturarono. Non ne risparmiarono alcuno e la chiesa, in segno di spregio, fu ridotta a stalla per i cavalli. Particolarmente barbara fu l'uccisione dell'anziano arcivescovo che in punto di morte, mentre stava per essere ucciso dai Turchi che sopraggiungevano, incitava i superstiti a rivolgersi a Dio . Fu sciabolato e fatto a pezzi con le scimitarre ed il suo capo mozzato fu infilzato su una picca e così portato per le vie della città. Il comandante della guarnigione Francesco Largo venne invece segato vivo. A capo degli Otrantini, che il 12 agosto 1480 si erano opposti alla conversione all'Islam, c'era anche Antonio Pezzulla, detto Primaldo. Il 14 agosto Ahmet fece legare i superstiti e li fece trascinare sul vicino colle della Minerva. Qui ne fece decapitare almeno 800 costringendo i parenti ad assistere alle esecuzioni. Tutte queste persone orrendamente massacrate vennero riconosciute martiri dalla Chiesa e venerati come beati martiri idruntini. La maggior parte delle loro ossa si trova in sette grandi armadi di legno collocati nella Cappella dei Martiri, ricavata nell'abside destro della cattedrale di Otranto; sul Colle della Minerva fu costruita la chiesetta a loro dedicata, Santa Maria dei Martiri. Anche se la cifra riportata dai cronisti appare esagerata, Otranto fu comunque colpita a morte e da quelle terribili stragi e se pure riuscì ancora a riprendersi, perse notevolmente di importanza rispetto alla città di Lecce.  Turchi, occupata Otranto, la utilizzarono come base per scorrazzare indisturbati in tutto il Salento, seminando terrore e morte fino al Gargano. La reazione aragonese stentava a formalizzarsi, anche perché Venezia persisteva nella sua neutralità, acquistata dopo una lunga guerra (nella quale, restata sola contro i Turchi ottomani, aveva pochi anni prima firmato una tregua perpetua), e gli altri Stati italiani erano interessati più delle guerre in terraferma che sul mare. Da questo indulgere i Turchi ricavarono il tempo per fortificare Otranto secondo concetti difensivi avanzati. Ferrante aveva subito richiamato dalla Toscana il figlio Alfonso. Questi era in quella regione con gran parte dell'esercito e avrebbe potuto dirigersi su Otranto per la via degli Abruzzi. Perciò a fine agosto 1480 Ahmet Pascià compì una manovra diversiva per disorientare Alfonso. Attaccò dal mare, con 70 navi, la città di Vieste nel Gargano e la mise ferro e fuoco. Il 12 settembre i Turchi incendiavano la chiesetta di Santa Maria di Merino, posta a sette chilometri da Vieste. Questa chiesa era quanto rimaneva dell'antico borgo e custodiva al suo interno la Madonna di Merino, opera in tiglio dei secoli XIV-XV, immagine oggetto di venerazione in tutto il territorio di Vieste e meta di frequenti pellegrinaggi. Saldo sulle sue posizioni, nell'ottobre del 1480 Gedik Ahmet Pascià ripassò il Canale di Otranto con gran parte delle sue truppe dopo aver ripetutamente devastato con continue scorrerie i territori di Lecce, Taranto e Brindisi. Lasciò a Otranto solo una guarnigione di 800 fanti e 500 cavalieri. La sua decisione era dettata soprattutto dalla difficoltà di non poter mantenere tutto l'inverno un esercito enorme in armi; inoltre, avendo fortificato Otranto, poteva bastare una guarnigione più ridotta. Si stava ricompattando la parte antiturca. Una crescente pressione veniva dalle forze aragonesi finanziate dal denaro fiorentino e supportate attivamente da Sisto IV che proclamò la crociata contro i Turchi. Era tuttavia certo che il Pascià pensasse di trascorrere l'inverno nell'Impero per ripassare lo stretto l'anno dopo. Restava il mito dell'invincibilità turca e per tutto l'inverno il terrore in Italia fu altissimo e proliferarono le voci di un abbandono di Roma da parte del Papa. Il re di Napoli inviò a Sisto IV l'ambasciatore Francesco Scales il quale, assieme all'oratore Aniello Arcamone, espose il pericolo incombente su tutta la cristianità e soprattutto sulle terre della Chiesa e sulla stessa persona del pontefice qualora i Turchi avessero invaso il Regno di Napoli. La caduta e il massacro di Otranto suscitarono viva emozione tra i cristiani; ma anche i timori di una possibile invasione, per cui alla corte pontificia qualcuno arrivò addirittura a proporre il trasferimento della corte papale ad Avignone. Sisto IV riprese in mano la situazione. Concluse la pace con Firenze, per la quale pertanto l'attacco musulmano significava salvezza, e, fattosi promotore di una tregua tra i vari stati italiani, pubblicò una bolla con il bando di crociata cui invitò tutti i principi cristiani. Sisto IV costituiva così un'alleanza di Genova con Firenze, con il re d'Ungheria ed i duchi di Milano e Ferrara. Gli aiuti promessi tardavano ad arrivare ed erano evidenti le disparità tra le forze in campo. L'inverno del 1481 passava nelle vane promesse di aiuti, mentre gli Ottomani ricevevano via mare rinforzi; alcune scaramucce nell'entroterra e sulle acque non sembravano decidere le sorti dell'occupazione: i turchi rimanevano saldamente padroni della città, nonostante gli attacchi che si facevano sempre più frequenti provocando crudeli ritorsioni nei confronti degli inermi cittadini che nel frattempo non erano stati massacrati o fatti schiavi. Al momento di realizzare la crociata sopraggiunse una serie di defezioni. Venezia, avendo nel 1479 appena terminato la guerra con un trattato della durata di 16 anni che dietro pagamento di tributi nell'ordine di 10.000 ducati annui le garantiva la possibilità di proseguire i suoi traffici in Oriente, non rispose all'appello. Bologna era propensa ad armare al massimo una sola triremi. Lorenzo il Magnifico, nemico del pontefice e del re di Napoli, fece beffardamente coniare una medaglia celebrativa della vittoria di Ahmet Pascià. Il re d'Inghilterra si ritirò. Luigi XI di Francia lasciò intravedere deboli disponibilità da parte sua. In definitiva il pontefice ed il re di Napoli erano isolati. Con l'arrivo della buona stagione, l'aragonese accelerò le operazioni di assedio grazie agli aiuti ottenuti dagli Stati italiani che finalmente si resero conto del pericolo per la loro sopravvivenza rappresentato dall'occupazione turca. Finalmente il primo maggio si mise il campo presso Otranto con imponenti apparati difensivi studiati da Ciro Ciri, detto Ciro di Castel Durante, "maestro ingegnere" inviato dal duca di Urbino, e dal francese Pietro d'Orfeo. Sternatia fu il quartier generale delle truppe aragonesi di Napoli al comando di Alfonso d'Aragona, futuro re di Napoli, e di Giulio Antonio Acquaviva, duca di Atri e conte di Giulianova e Conversano. Quest'ultimo il 7 febbraio 1481 effettuò una uscita di perlustrazione con un gruppo di dodici uomini, ma nelle vicinanze di Serrano cadde in un'imboscata tesa dai Turchi. Il suo corpo decapitato rimase in arcione sul suo cavallo che lo riportò indietro, al castello di Sternatia. L'azione di Acquaviva in compenso portò fama e notorietà al suo casato, che per essa venne investito dal re di Napoli, Ferdinando I, dell'attributo reale D'Aragona, ereditato a partire dal figlio Andrea Matteo, il quale fu pure impegnato, nel maggio 1481, nella liberazione di Otranto. Nei suoi stati, Sisto IV aveva armato ad Ancona 5 galee. Inviò inoltre il cardinale Savelli a Genova per noleggiare altre 20 unità. Da Genova riuscì ad ottenere molte galee, 74 secondo Pastor, ma più probabilmente 24, come attesta Giustiniani. Il 30 giugno 1481 le galee si radunavano alla foce del Tevere, ove si svolse un rapido concistoro al termine del quale venne destinato comandante il nobile genovese Paolo Fregoso, già arcivescovo, doge, pirata ed infine cardinale. Dopo l'investitura ufficiale, Fregoso il 4 luglio salpò da Civitavecchia ed a Napoli si riunì alla squadra del reame, comandata da Galeazzo Caracciolo, condottiero (da distinguere dal nipote omonimo, il calvinista Galeazzo Caracciolo) ed alle milizie del re d'Ungheria. L'armata fu inoltre ampliata dalle altre galee portoghesi e napoletane convogliate prima a Roma, quindi proseguì per l'Adriatico, mentre da terra Alfonso di Calabria si preparava con un grosso esercito ad assediare Otranto. La città era stretta d'assedio, sia per terra che per mare, ed i Turchi si sentirono per la prima volta assediati da terra e dal mare dove continua ad ingrossarsi la flotta "cristiana". A risolvere la situazione fu la morte del cinquantaduenne sultano Maometto II, avvenuta tra il 3 e il 4 maggio 1481. L'avvenimento decise le sorti dell'assedio e fu accolto con sollievo da parte dei cristiani, poiché la successione del sultano ottomano aveva aperto le ostilità tra i di lui figli Bayazit e Cem. In conseguenza era sorta una nuova crisi per l'impero turco, per il vuoto politico creatosi, e Ahmet venne richiamato in patria. A Otranto l'esercito ottomano, privo di rinforzi e pressato dagli eserciti e dalle milizie cristiane, subì il 23 agosto un violentissimo attacco che provocò nelle due parti notevoli perdite umane. I turchi furono costretti dopo una disperata resistenza a cedere, e Ahmet Pascià accettò una resa dignitosa. Il 10 settembre 1481 riconsegnò la città al duca Alfonso di Calabria, arrendendosi onorevolmente e tornando a Valona: i turchi restituivano una città ridotta a un cumulo di macerie, nella quale erano sopravvissuti solo 300 abitanti. Gedik Ahmet Pascià non abbandonò mai del tutto il suo sogno di conquiste nella penisola: fu anche per questo che tra i due figli del sultano in lotta fra loro appoggiò subito Bayazit II e gli chiese il supporto per la spedizione in Italia. Bayazit però non fidandosi di lui lo richiamò a Costantinopoli dove lo fece imprigionare. Quando Bayazit divenne sultano, diede l'ordine di assassinare Ahmet, ordine eseguito il 18 novembre 1482 ad Adrianopoli.Sisto IV si complimentò con Fregoso e lo esortò a proseguire per Valona, città che intendeva riconquistare con l'aiuto albanese. Caracciolo concordava con il disegno papale di attacco in Albania e distruzione della flotta turca, ma Fregoso non volle muoversi da Otranto. In seno alla sua armata erano sorte grosse dispute sulla ripartizione del bottino e sul mancato invio della paga lamentato dai capitani, ed a completare la crisi erano giunti alcuni casi di peste, per cui i proprietari delle galee genovesi non ne vollero sapere di proseguire l'impresa. Fregoso falsificò gli ordini papali e comunicò il suo rientro al re di Napoli; per Sisto IV, che considerava il momento delle discordie tra Jem e Bayazit come opportuno per terminare l'impresa, fu un vero colpo. Fregoso non si curò affatto della disciplina. Tra l'altro lo pressava il bisogno di rientrare a Genova dove proprio allora aveva occasione di recuperare il dogato. Giunto a Civitavecchia continuò a rifiutare le proposte di un papa disposto anche a vendere il pontificio vasellame d'argento e ad impegnare la mitria pur di ottenere i finanziamenti necessari a pagare i soldati e proseguire la guerra; si rivelò irremovibile e l'armata fu sciolta. Le speranze del papa si infransero: delle galee promesse dal re di Portogallo e di quelle annunciate da Ferdinando d'Aragona, futuro Ferdinando il Cattolico, non se ne vide neppure l'ombra.

Fonte: Wikipedia

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