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giovedì 5 aprile 2012

L'ASSEDIO DI GROSSETO

L'assedio di Grosseto fu una battaglia storica tra Ludovico il Bavaro, di ritorno da Roma dopo essere stato incoronato Imperatore, e la città di Grosseto, tra il 17 e il 21 settembre 1328. Dopo la morte, improvvisa, di Enrico VII del Sacro Romano Impero nel 1314, la maggioranza dei principi elettori crea l'imperatore Ludovico della casata di Wittelsbach. Ludovico tentò inutilmente di ottenere il riconoscimento dell'elezione da parte di Papa Giovanni XXII, ma invece finì interdetto. Da allora Ludovico venne chiamato, dispregiativamente, il Bavaro. Ludovico progettava ora di indebolire la posizione del papa in Italia. D'accordo con diversi esponenti ghibellini, sul finire del 1326 iniziò la sua marcia su Roma. Molte città ghibelline accolsero fra grandi acclamazioni l'Imperatore, che seguito dalle sue truppe e dai suoi cortigiani, vescovi e cardinali, imponeva tributi ed esigeva omaggio dai principi, conti e vescovi feudatari dell'Impero. Durante una dieta di rappresentanti delle maggiori città italiane, fu dichiarato il Pontefice romano eretico ed indegno, e presa la corona di ferro a Milano dalle mani di Guido Tarlati, scomunicato vescovo di Arezzo, avanzò in Toscana, scrivendo lettere ai Comuni per i quali doveva passare, lungo la via Aurelia, da Pisa verso Roma, invitandoli di porsi ai suoi ordini e di comparirgli davanti, al suo passaggio, conducendo con sè i propri sindaci.

Grosseto, città murata che si sforzava ancora di guadagnare una certa autonomia politica di fronte ai diritti dei suoi signori e a quelli della repubblica senese, pur avendo preso parte con i ghibellini nella battaglia di Montaperti, e quindi aderente alla causa dei sovrani tedeschi, si trovava invece compreso nella lega guelfa, come lo erano fino al 1311 i suoi nuovi signori, gli Abati, discendenti del traditore fiorentino Bocca degli Abati, ora legati con Siena. Grosseto si trovò quindi impossibilitata a spalancare le porte al sovrano tedesco.
Ludovico e il suo seguito si recarono quindi a Castiglione della Pescaia, allora sotto il dominio di Pisa, città devota all'Imperatore, e vi celebrò il Natale 1327. Dopo aver soggiornato nel borgo per diverse settimane, permettendo così alle sue truppe di riposarsi e rinvigorirsi dopo il lungo viaggio, riprese il cammino. Ripresa la via Aurelia, l'imperatore, non volendo proprio in quel momento entrare in conflitto con Siena, preferì non attraversare la città di Grosseto, e quindi, fatto fare un ponte volante sul fiume Ombrone, passò con il suo seguito poco distante dalla città e riprese verso i borghi di Magliano e Manciano, lungo le valli dei fiumi Albegna e Fiora. Toccarono la città di Viterbo e infine giunsero a Roma. Ludovico ricevette la corona imperiale in San Pietro per mano del cardinale Sciarra Colonna, prendendo il nome di Luigi IV del Sacro Romano Impero, e nominò il francescano Pietro Rainalducci da Corvara come antipapa Niccolò V, il 12 maggio 1328. L'Imperatore ripartì quindi per Viterbo, dove insieme all'antipapa si mise in cammino per Pisa, dove la morte di Castruccio Castracani poteva portare alla caduta della città in mano dei Fiorentini. Questa volta l'Imperatore e il suo seguito decidettero di non risparmiare la città di Grosseto. Spinto dai conti di Santa Fiora che chiedevano di eliminare Grosseto, utilizzata come porto e fortino dai guelfi di Toscana, l'esercitò imperiale entrò nella Maremma grossetana e si presentò sotto la città il 17 settembre 1328. Al suono di trombe e bandiere spiegate, fecero capire di volere entrare a diritto in città. Ma Grosseto, situata presso la riva di un grande fiume, l'Ombrone, adatto alla navigazione, e difesa da salde mura e da torri molto elevate, si era preparata a resistere, sotto il comando di Bino degli Abati del Malia, e dei suoi figli Malìa ed Abbatino. I contadini grossetani misero il bestiame al sicuro e corsero al riparo nella fortezza della città sulla rocca, mentre i soldati, le sentinelle e i cittadini più combattivi si radunarono sulle mura e torri, pronti alla battaglia. Alla richiesta dell'Imperatore di viveri e denaro, oltre la dovuta obbedienza e promessa di fedeltà, i Grossetani diedero risposta negativa e accorsero subito a sbarrare le porte della cinta muraria, pronti più alla morte che alla resa. L'Imperatore ordinò di far accostare le macchine da guerra e diede il via agli assalti alla rocca. La battaglia, pressoché improvvisata, con donne e bambini che dall'alto della rocca gettavano tegole, sassi e oggetti infuocati alle schiere tedesche, diventò presto ordinata ed energica. L'esercito del Bavaro, non riuscendo subito a far breccia nelle salde mura, iniziò una serie di razzie e saccheggi nel territorio intorno alla città, trucidando famiglie che non erano riuscite ad entrare in tempo al sicuro nella rocca, bruciando case, rapinando i bestiami. Ludovico era certo che la città, così piccola ed indebolita dalla malaria presto avrebbe capitolato, e quindi continuò ad ordinare le razzie, che si sarebbero arrestate soltanto con l'apertura delle porte e l'accoglienza in città di Sua Maestà l'Imperatore. Gli assalti non si risolsero quel giorno del 17 settembre, e così, nei giorni successivi, l'assedio continuò. La repubblica di Siena, per soccorrere la città sulla quale vantava diritto di dominio, spedì a Grosseto Lionetto dell'Avellana, conestabile senese, con un piccolo contingente. Il re di Sicilia Federico II inviò delle truppe in aiuto al Bavaro, che, sbarcate a Talamone, raggiunsero la città, ma furono respinte dai Grossetani, nonostante fossero riuscite a salire più volte sulle mura. Così lo storico senese e vescovo di Grosseto Giovanni Pecci, scrivendo una monografia sulla città, riprendendo il cronista fiorentino Giovanni Villani, scrive: <>, e poi di nuovo: <>. Infatti, dopo i ripetuti tentativi, e la situazione pisana sempre più urgente, Ludovico e l'antipapa ripartirono con il loro seguito, abbandonando l'idea di espugnare quella piccola, ma tenace città. Come narra una cronaca del Medioevo, così i Tedeschi appellarono i Grossetani: uomini maledetti, nefandi, figliolanza di vipere e serpentacci tortuosi, discendenza pestifera, schiatta velenosa, cani rivomitatori e porci rivolgentisi nel brago, attossicata genia, generazione inflessibile e più dura del macigno, grossolani come il loro nome, non piegabili né per blandizie, né per minacce. I Grossetani, a ricordo dell'eroica difesa, vollero che il grifone argenteo sullo sfondo rosso, stemma della città, fosse armato di spada nel braccio destro, assumendo quindi l'aspetto che porta ancora oggi. La vittoria della città però portò inesorabilmente la sua completa sottomissione a Siena, interessata sempre più alla città, e da libero comune venne completamente sottomessa nel 1336. La battaglia fu ricordata in un dipinto su una tela nel Teatro degli Industri nel 1840, dal pittore Maffei di Siena, e successivamente, sempre nel Teatro dopo la sua ristrutturazione del 1890, dal pittore fiorentino Tito Lessi. L'assedio è ricordato con una lapide posta sotto Porta Vecchia a Grosseto.

Fonte: Wikipedia

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