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giovedì 12 luglio 2012

ER GREVETTO DE LI MONTI

Un'antica mappa del Rione I – Montes (fonte: romeartlover.it).
Sciolti di parola ed altrettanto svelti di lama. Perché questo richiede la vita che si vive lungo i vicoli, negli anfratti e nei recessi luridi in cui i nobili non mettono mai piede. Quelli sono per il popolo, per i poveracci, per i disperati che non hanno un futuro. Per chi si arrangia a campare come può, a limitare al massimo i danni che la vita gli mette sulla strada. Per chi, ancora, ha voluto o dovuto varcare la linea sottile che distingue l’uomo per bene, rispettoso ed osservante della legge, dai gentiluomini di fortuna, dai duri, dai grevi, come si dice a Roma. Dagli attaccabrighe coraggiosi e strafottenti proprio come Nino. Robusto quanto basta per lavorare da uomo di fatica, da spallone, da facchino. Cresciuto in fretta in Monti. Nato e morto Monticiano, in quel fazzoletto di Roma che prende a prestito il nome dall’inclusione dell’Esquilino e del Viminale, del Celio e perfino di una buona parte del Quirinale.


















Il rione dei rilievi, insomma, un tempo tra i più estesi della città e che, ad oggi, risulta invece aver perduto porzioni ingenti di territorio e d’anima. Ormai Monti non ha più nulla a che fare col Quirinale, e lo stesso può dirsi della zona di Castro Pretorio e del Celio. Frammenti dell’Urbe che non gli appartengono più, e che della loro presenza hanno lasciato traccia solo nel nome del quartiere. Quello sì è rimasto, ad imperitura memoria di quello che in un tempo lontanissimo il rione di Nino ha rappresentato. Monti. Zona affollatissima già in epoca romana, se solo si considera come la parte più alta del rione, quella che promanava dalle Terme di Diocleziano e che corrisponde all’odierna Via Urbana, fosse costituita dal Vicus Patricius costellato di domus signorili. Eppure, l’aria più autentica si respirava nell’altra parte, quella bassa dei pantani in cui brancolavano le torme inesauste di plebei. La Suburra che si riempiva il petto dei legni marci delle locande più  malfamate e dei postriboli più a buon mercato. Più oltre, a segnare l’accesso alla valle distesa tra Campidoglio e Palatino in cui si aprivano i Fori Imperiali, una possente muraglia in pietra gabina fungeva al contempo da quinta architettonica al Foro Augusteo e da argine alle fiamme dei frequenti quanto famelici incendi che, troppo spesso, finivano per divorare gli effimeri edifici lignei della zona popolare. Eppure, tutto sommato in Monti si stava ancora bene. Col Medioevo - ed il danneggiamento irreversibile degli acquedotti di romana fattura che a quell’epoca risale – accadde l’irreparabile. Venute meno le condotte idriche predisposte dai Cesari, le asperità del terreno ebbero la meglio sull’approvvigionamento idrico. Così, buona parte della popolazione residente fu costretta a muovere sul limitrofo Campo Marzio, trovando sollievo e soprattutto acqua nella pianura a valle dei colli ormai riarsi, complice la prossimità di un Tevere allora come non mai potabile. A Monti non rimase che la fama di zona ideale per vigne ed orti, scarsamente popolata perché tutto sommato disagevole per chi avesse desiderato insediarvisi in pianta stabile e sommamente distante dal Vaticano che in epoca medievale aveva surclassato e sostituito i fori quale centro pulsante della vita cittadina. Pochi resistevano. Pochi affezionati coltivatori. Pochi monaci e sacerdoti destinati ad officiare nelle basiliche di San Giovanni in Laterano e Santa Maria Maggiore, queste ultime ancora mèta agognata di torme di pellegrini provenienti da ogni dove. Eppure, sottratti i contadini ed il clero locale dal conteggio complessivo, dal Medioevo in poi la popolazione dei Monti assommava ad un numero non certo impressionate. Un microcosmo in eterna e spesso cruenta lotta col rione vicino, il Trastevere, e tanto isolato ed autosufficiente da crearsi nel corso dei secoli un’identità separata, e perfino un dialetto unico, il Monticiano, differente rispetto a quello parlato altrove nell’Urbe. Un vernacolo da vicolo e da schermaglia, per la precisione, proprio come quello parlato dal bel Nino, il Grevetto de li Monti.
Meo Patacca, cavallaro di Trastevere e Greve per antonomasia (fonte: wikipedia.org).



















Bullo nel senso esatto del termine tedesco bühle da cui questa realtà deriva. Amatore, amante, ganzo piuttosto che arrogante, violento, teppista. Perché il bullo nato tra i vicoli della Roma medievale, più che un personaggio da operetta o un semplice reietto della piccola mala locale, è un fenomeno di affermazione personale e di supremazia sul branco priva di fini loschi o di sciocche velleità di lucro. Il bullo possiede un carisma forte, e decide pur narcisisticamente di piegare questo suo ascendente magnetico in favore della collettività del rione. E’ esibizionista, certo, perché va in cerca di occasioni per ostentare il suo dominio in netta e perenne competizione con chi condivide con lui quell’estro selvaggio, quella volontà di essere omo de panza che divide i cristiani dell’Urbe ed assegna ad ogni rione il suo Greve, uomo di nomea, d’onore, e di parola soprattutto. Coraggioso sempre, e sempre incapace di ritrarsi di fronte ad una lama o ad una sfida. Guascone, certo, spavaldo, sicuro, e proprio per questo perfettamente a suo agio nel rione, dove il bullo si fa rispettare perché è compito, perché può permettersi di declamare lentamente e con austerità. Lasciando scivolare le sue terribili minacce sotto toni tutto sommato pacati ma fermi. E’ questo lo stile del bravo. Sono questi i risoluti modi di un genio manesco. Di un bullo, di un capoccia di rione. Proprio come Nino er Monticiano. Da sempre, uomo d’onore e di lama, certo. E da sempre innamorato di Clementina, passione trasteverina che si trovava a condividere suo malgrado con un omone avvezzo come lui alla fatica, un trasportatore di merci su chiatta fluviale che per questo era divenuto suo nemico mortale. Massiccione, quest’ultimo, come i suoi due altrettanto imponenti fratelli minori. Clementina, a dirla tutta, non aveva occhi che per Nino. Ma tutto questo ai Massiccioni poco importava. Quelli, in realtà, si limitavano ad attendere, che tanto prima o poi il destino gli avrebbe messo in mano la carta giusta. Un brutto giorno Nino e Clementina litigarono, e furiosamente. Per puntiglio, Nino giunse a lasciare la sua donna e lei, per ricambiare l’affronto, volò dritta dritta tra le possenti braccia del barcaiolo. Nino seppe tutto in fretta, che tanto le voci nei rioni si propagano a dismisura. Ma da bravo omo de panza rimaneva troppo orgoglioso per chiedere a Clementina di tornare sui suoi passi. Eppure, il Grevetto seguitava a trascinarsi nelle sue lunghe serate solitarie per Trastevere, sperando in cuor suo di incontrarla nuovamente. Una sera come tante era in Vicolo del Moro, bighellonava come sempre riverito dal popolino che lo riconosceva a naso e per fama. Finché, nello svoltare un angolo, la sua attenzione di animale da preda non finì per captare qualcosa che non andava. Un movimento brusco di troppo, un gemito che non doveva essere. Poco distante, in un cantuccio della strada, stava l’imponente Massiccione, che menava fendenti con le pesanti mani su un corpicino ben più esile, rannicchiato quasi in terra. Quella era Clementina. E non c’era un minuto da perdere. Il tempo di tirare su le maniche della camicia e Nino diede sfogo a quella rabbia sorda che aveva fino a quel momento stupidamente covato e controllato. Al Massiccione piovve addosso una massicciata di pugni e schiaffi che lo scaraventò in terra, fiaccandone poi le reni a forza di calci. La furia era tanta che più Nino picchiava e meno si sentiva stanco. Poi tornò in sé, richiamato da un mugolìo che si faceva sempre più alto nella sua testa e che lo riportava lentamente alla vita, al buio della sera in Trastevere, al puzzo che albergava nei recessi di Vicolo del Moro. Era ancora Clementina, che piangeva e si lamentava per lo spavento. Il Massiccione non era più cosciente. Riverso in terra, malconcio, continuava a prenderle come un pupo di pezza. Finché Nino non smise, si riebbe, iniziò la fuga per evitare gli sbirri che, ne era sicuro, erano già per la via. Non passò che una settimana, inerte e lunga senza vedere il viso dell’amata, che Nino, svoltando l’angolo che divide Via della Polveriera da Via Eudossiana, gli si fecero incontro tre ombre scure che gli sbarrarono il passo. Senza giacche, con la sola camicia che, all’uso popolare romano, si mostrava prima dei regolamenti di conti. Un sospetto del quale Nino ricevette presto conferma, notando le tre lame che scintillavano nell’ombra. Uno dei tre zoppicava ancora. Era il Massiccione del quale aveva avuto ragione in Trastevere, coi suoi fratelli e compagni di mattanza. Radunati per fargli la festa. Nino prese la fuga, ma fatti pochi passi ricordò chi era e cosa gli si imponeva di fare. Un Grevetto non fugge, mai. E allora di corsa verso San Pietro in Vincoli, scartando la via di quel tanto che bastava per acquattarsi ed attendere nell’ombra l’arrivo dei suoi inseguitori. Frugò nella tasca, e ritrovò al sicuro, avvolto nel fazzoletto che sua madre gli aveva spruzzato di colonia, il ferro che, qualche tempo prima, gli era stato donato dalla sua Clementina. Un segno d’onore per il pegno d’onore della verginità perduta, complice la luna ed un bicchiere di troppo. Nino era pronto alla battaglia. E sapeva che non sarebbe stata cosa da poco. Ma se la giocò comunque, ed al meglio della sua astuzia di Greve. Malconcio, ferito e barcollante, poco meno di mezzora dopo caracollava verso il porto di Ripetta, la lama lorda del sangue dei tre nemici che ormai dormivano un sonno di morte per mano sua. Stavolta, la voce della rissa sarebbe corsa ancora più in fretta delle sue gambe di ragazzo di strada. Stavolta ci era scappato il morto, e gli sbirri non si sarebbero certo fatti attendere. Ma al porto aveva ancora una possibilità. Un amico barcarolo che, forse, avrebbe potuto aiutarlo ad allontanarsi più in fretta. L’amico alla fine si dimostrò tale, e lo condusse rapidamente fuori dai confini dell’Urbe e dalle grinfie di chi lo cercava furiosamente. Per lui fu la latitanza. Un oblio di mesi cui tuttavia Nino alla fine decise di sottrarsi, riguadagnando le porte della sua città e, soprattutto, del suo rione. Un giorno, passeggiando con cautela lungo il Tevere, udì alte grida provenire dai flutti. Affacciatosi, notò una donna che annaspava e si catapultò in acqua, procedendo al salvamento che il suo radicato senso dell’onore imponeva. Raggiunse la donna e la trascinò a riva. Era bella, molto bella, anche sconvolta dallo scampato terrore e dalla fatica accumulata per restare sul pelo dell’acqua e non farsi inghiottire dalla corrente. Riavutasi dallo spavento, ringraziò lungamente il sui salvatore e prese a conversare con lui mentre entrambi cercavano di asciugarsi al sole. Vuoi per ingannare l’attesa, vuoi per i mesi passati a nascondersi, vuoi per l’adrenalina, Nino, debitamente interrogato su chi fosse, vuotò il doloroso sacco della sua vita di Grevetto. Fu uno sfogo amaro e profondo il suo, che malediceva quell’amore indegno ed ingrato e, di contro, magnificava i suoi slanci di coraggio ed astuzia. La donna, intanto, lo ascoltava in perfetto silenzio. Quando Nino finì di raccontare le sue traversie, la donna mise mano ad un sacchetto che recava alla cintura, ne estrasse delle monete che regalò al suo salvatore e, prima di accomiatarsi da lui, gli fece promettere che si sarebbero rivisti alla mezzanotte presso la Chiesa di Sant'Agata dei Goti. Nino acconsentì e la bella sconosciuta fu libera di allontanarsi. Lasciò nel Grevetto una strana smania, che il ragazzo non avvertiva da lungo tempo. Era voglia di rivederla, la stessa molla che lo spinse a trovarsi di fronte alla canonica nell’orario prestabilito. Era buio fitto, e la zona era ovviamente silente a quell’ora di notte. Nonostante il tempo trascorresse e la donna non si presentasse, Nino restò come inchiodato al suolo. Attendeva invano di poter risvegliare quella fiammella di speranza d’amore, da lungo tempo sopita nel suo cuore blindato d’onore. Alla fine si appisolò appoggiato ad un muro, sicuro che sarebbe stato risvegliato dalla sue bella sconosciuta. Invece, lo sgomento ebbe la meglio sulle sue forze di bravo di strada quando il suo narcolettico attendere venne infranto dagli scossoni degli sbirri, che giunsero in forze sul luogo e lo trascinarono in galera. Così finiva la storia di Nino il bullo, nato e morto Monticiano. Er Grevetto de li Monti.
Lo stemma del Rione Monti (fonte: wikipedia.org).


















Articolo di Simone Petrelli. Tutti i diritti riservati




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