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lunedì 9 luglio 2012

MEDIOEVO L'ETA' D'ORO DELLA CARNE



Negli ultimi anni è cresciuto su scala mondiale il consumo di carne e, di conseguenza, il timore per i problemi che ne conseguono. Campi coltivati che potrebbero servire a produrre cibo per gli umani, sono invece volti a fornire mangime per animali da macello: è il modello americano, ereditato in parte dagli europei e al quale ormai aderiscono anche popoli che solo di recente vanno mutando la loro dieta in tal senso. Ovviamente i primi a cui pensiamo sono i cinesi, se non altro per il loro numero: se oltre un miliardo di individui decidesse di seguire il modello di consumi americano, quali sarebbero le conseguenze per l’ambiente? È una preoccupazione che riguarda i consumi in generale, ma che quando si parla di alimentazione tocca davvero bisogni e timori primordiali. Nel mondo cinese, tradizionalmente, quando si parlava di carne si intendeva automaticamente il maiale, che si nutre di tutto ed è facile da crescere. Ma se i cinesi volessero passare tutti a una dieta di bistecche e hamburger di manzo, quanto nuovo pascolo sarebbe necessario? E quanto potrebbero salire i prezzi dei generi alimentari?
Di fronte a queste tendenze si invoca il mantenimento di tradizioni alimentari antiche e, va da sé, quindi sane per definizione. La bella dieta mediterranea della quale si parla di continuo, per esempio, rivendicandone equilibrio e bontà. Tuttavia, le tradizioni non sono certo immobili, e leggendo l’ultimo libro del principale storico italiano dell’alimentazione, Massimo Montanari (Gusti del Medioevo. I prodotti, la cucina, la tavola, Editori Laterza, Bari, 2012, 280 pp., euro 19), è facile rendersene conto. Nella società medievale proprio la carne era infatti l’alimento considerato al di sopra di tutti gli altri. Anzi, afferma Montanari, «la fortuna alimentare della carne nasce col medioevo, sul piano della mentalità oltre che dei consumi. L’età romana non le aveva dato lo stesso rilievo, né sul piano delle scelte produttive, né su quello della riflessione dietetica; tanto meno l’aveva valorizzata sul piano ideologico» (p. 69). La carne era infatti il cibo dei barbari del nord, laddove l’alimentazione romana era incardinata sulla triade pane, vino, olio. Tuttavia, quando i popoli germanici si insediarono sui territori della pars Occidentis dell’impero, ecco che la loro ideologia alimentare divenne quella dominante; difatti, se i barbari non erano prevalenti sul piano numerico, costituivano pur sempre le élite armate e di potere; se molti elementi della latinità ne influenzarono i costumi, è certamente anche vero il contrario: di conseguenza l’alimentazione carnea divenne certamente, nel corso dei secoli medievali, il cibo prediletto dei ceti dirigenti. Persino l’uso dell’olio si andava riducendo a favore delle cotture e delle conserve a base di grasso animale; è un dato che non si può scindere dalle peculiarità regionali, ma più che la geografia, anche in questo caso faceva il ceto sociale. Non che i contadini amassero invece attenersi a una dieta vegetariana; nell’età altomedievale villaggi e aree coltivate restavano immersi fra i boschi, le paludi, le aree a pascolo delle colline e delle montagne. Il contadino medievale non era quindi soltanto un agricoltore; egli era anche pastore, cacciatore, allevatore, pescatore, raccoglitore di frutti spontanei. Sulla sua tavola comparivano pertanto cibi variati e non necessariamente scarsi. Una vecchia visione di questo problema, che privilegiava unilateralmente la storia dell’agricoltura, situava il miglioramento dell’alimentazione e quindi dei livelli di vita contadina a partire dall’XI secolo, da quando cioè una netta ripresa demografica continentale favorì e rese necessaria la messa a coltura di nuovi campi. Ma da quell’età ebbe inizio, piuttosto, un aumento quantitativo dello stock annuo di cereali a disposizione degli abitanti, senza il quale essi non avrebbero potuto sostentarsi: il livello medio pro capite, forse quantitativo, senza dubbio qualitativo, tuttavia scese di parecchio. I nuovi campi erano sottratti al bosco e alla brughiera: quindi si riduceva l’habitat di selvaggina, pesci d’acqua dolce, frutti spontanei. A questo dato se ne aggiunse un altro di tipo politico. Il feudalesimo, affermandosi con crescente rigore tra il X e il XII secolo, andò limitando per i ceti subalterni il libero uso della caccia e della pesca, sempre più ristretto ora alla “riserva” signoriale. L’alimentazione dei ceti dirigenti e quella dei ceti subalterni si andò da allora progressivamente distanziando. Invece il pesce, che negli ultimi anni è diventato per noi un alimento alla moda, in regola con i dettami della dietetica contemporanea, era un alimento nei confronti del quale si usava diffidenza; legato non tanto a una scelta, quanto piuttosto alla necessità: per esempio nei giorni di astinenza sostituiva la carne, al pari del formaggio, verso il quale pure regnava una certa circospezione dovuta alle concezioni mediche vigenti. Curioso il paragone fra la carne e il vino: si può dire infatti che, se nel primo caso trionfarono i popoli del nord, con il secondo il Mediterraneo trovò la sua rivincita. Anche lì dove la birra era prevalente, il vino veniva comunque considerato prodotto di maggior pregio. Il consumo seguiva concezioni dietetiche più che di semplice gusto, lo si speziava sovente e lo si utilizzava per correggere il gusto di acque cattive o, al meglio, insipide. L’ascesa della carne nella scala valutativa dell’alimentazione è insomma un lascito medievale di lunghissima durata. Nonostante oggi non si possano sottovalutare gli interessi dell’industria nel sospingerne il consumo, è indubbio come sia proprio un modello alimentare su basi ideologiche storicamente ben definite quello che l’Occidente ha esportato anche oltre i suoi confini: accedere al consumo generalizzato di carne significa lasciarsi alle spalle l’ombra terribile delle carestie e, simbolicamente, passare dallo status di popoli subalterni a quello di nuovi dominanti. 

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