Matilde aprì faticosamente gli occhi abbagliati dalla luce, non riconobbe il luogo e si domandò dove fosse. La donna viveva con altre coetanee in una struttura modernissima nel cuore di Verona, ricordò di aver accettato di sottoporsi a un esperimento di viaggio nel tempo, nel XXIII era cosa comune per pagarsi gli studi. Lei era specializzata in storia medievale e voleva prendere un master in “arte della guerra in epoche medievali”. La macchina quantica dello scienziato dovrebbe riportarmi nel XXIII secolo tra una settimana, ricordò lei, e dovrò trovarmi all’alba in questo punto del bosco. Speriamo viva, ironizzò alla fine. La storica amava quell’epoca, le sue scoperte, la cavalleria, la morte per un ideale. Fece perno su un gomito, le girava la testa e si rese conto di sentire un fastidioso odore di bruciato, cercò di mettersi seduta, ma il dolore fu molto forte, qualcosa deve essere andato storto, pensò stringendosi il braccio ferito. Si esaminò il corpo e si rese conto di avere capelli bruciacchiati ed essere semi-nuda. Lo scienziato le aveva fornito degli abiti adatti all’epoca, un mantello, un vestito informe di lanetta e di un colore comune, per non destare sospetti e apparire una commerciante. Lentamente si alzò e s’incamminò verso sud est, come studiosa riteneva infatti che nel XII secolo in quella zona vi fosse un’Abbazia di notevoli dimensioni. Mi serve aiuto, le monache dovrebbero essere delle guaritrici, ricordò lei. Decise di seguire il sentiero battuto dagli zoccoli dei cavalli e ruote di legno dei carri. Grandi querce e roverelle si stagliavano alte ai bordi della strada, gli uccellini, svegliati dal sorgere del sole, cinguettavano felici nel verde. Ogni tanto Matilde sentiva dei rumori nel sottobosco e un paio di volte scorse delle lepri e un cervo. Verso le otto del mattino uscì dalla penombra boscosa e giunse in un ampio cortile circondato da mura. Nessuno era di guardia al cancello d’ingresso, dolorante entrò, sul lato destro e sinistro si ergevano due caseggiati di sassi e legno con ampie aperture, chiuse da portoni di legno. Bussò ad uno e rimase in attesa sull’uscio, speriamo di aver avuto ragione e che questa sia l’Abbazia delle monache, sospirò.
Una novizia aprì e la squadrò senza battere ciglio.
“Vado a chiamare la badessa, attenda qui”, affermò la ragazzina dirigendosi all’interno.
Si era espressa in dialetto veneto dell’epoca, Matilde lo studiava da molti anni e non fu difficile comprenderlo. Dopo qualche minuto d’attesa si affacciò sul portone una suora minuta con chiari occhi verdi e modi sbrigativi, accompagnata da altre due monache.
“ Come ti chiami cara? Cosa è accaduto?”, sondò gentilmente la religiosa.
Matilde vide nei suoi occhi bontà e accoglienza, un senso di fiducia l’invase.
“ Mi chiamo Matilde, sono una commerciante, viaggiavo con la mia famiglia, ma siamo stati assaliti da berrovieri, solo io mi sono salvata”, piagnucolò falsamente lei.
“ Io sono la badessa dell’Abbazia, mi chiamo suor Amelina. Vieni con noi, ti cureremo le ferite”, sostenne la clericale.
In un primo momento le monache la portarono in un ampio stanzone dove erano stati sistemati dei giacigli di paglia, le tolsero il mantello e videro che i suoi indumenti erano praticamente a brandelli. Matilde si spaventò e il panico le montò dentro come una marea, forse sono più grave di quanto sospettassi. Una giovane suora, molto carina, snella e alta con qualche lentiggine sul naso ben modellato le tolse la veste, sotto la quale portava una camiciola di cotone grezzo lunghezza cosce. Un’altra s’avvicinò e le spalmò sulla scottatura un impacco di foglie di bardana dalla proprietà rinfrescanti. Matilde aveva riconosciuto il profumo dell’erba. Il panico di Matilde si sedò un poco, in fondo le suore sono competenti, vogliono solo aiutarmi. Le religiose, secondo quanto aveva appreso da anni di letture medievaliste e conferenze a tema, poiché donne, non potevano studiare anatomia e medicina, solo i ricchi e ambiziosi preti, se lo desideravano, potevano studiare scienza medica nelle città. In ogni caso quelle donne ne sapevano molto riguardo a malattie e spesso il medico non era interpellato, specialmente quando il paziente non poteva pagare. La giornata passò lentamente all’ospedale, scandito dalle pozioni e medicazioni delle religiose.
All’alba del giorno nuovo sentendosi bene si alzò dal giaciglio, in fondo erano solo delle ustioni di primo grado, mi sono spaventata per nulla, rimuginò lei mentre salutava e ringraziava le monache. Doveva cercare di entrare nel castello di Fumane, secondo i testi di storia il castellano e i suoi cavalieri avevano dato origine alla ribellione contro gli anti-imperiali di Federico I, il Barbarossa nel 1163-1164. Nel cielo non vi era una nuvola e una fresca brezza soffiava da ovest. Su suggerimento di sorella Amelina si diresse verso il torrente che scorreva da ovest ad est e divideva il monastero dagli altri villaggi della Valle Provininensis. Superato il torrente avrebbe trovato il paese di Arbizzano e forse un passaggio a Fumane, sperò lei. Il sole di fine agosto la fece sudare, il lungo abito marrone non era esattamente pratico e le suore non avevano altro da offrirle. Giunse a destinazione verso le otto di mattina, non vide alcun ponte, solo dei sassi collocati dove l’acqua era più bassa. Dev’essere piovuto recentemente, soppesò contrariata osservando il torrente in piena. Matilde era sporca, si sentiva maleodorante, ne approfitterò per fare un bagno, pensò togliendosi l’abito di lanetta marrone e s’immerse in acqua trasportando la veste dall’altra parte. Il ruscello era freddo e piacevole, è così profondo, rimuginò. Dopo aver deposto l’indumento sulla riva opposta fece alcune bracciate verso il largo perduta nelle sue fantasie, poi tornando indietro staccò con le mani una radice di saponaria e facendola schiumare su di un sasso si lavò, viso, braccia, gambe, parti intime e capelli. I libri, che aveva letto e studiato nella sua vita, finalmente le stavano tornando utili. In quel periodo storico raramente le persone dedicavano un po’ di tempo alla pulizia quotidiana, salvo per mani e viso. Aveva appena finito di risciacquarsi, quando udì distintamente un rumore di cavalli al galoppo e le voci indistinte di uomini. Uscì velocemente dall’acqua e si nascose, portando con sé anche l’abito. Dal sentiero della foresta, davanti a lei, sbucarono improvvisamente tre cavalieri in brigantina1, armati di archi, scudi e spade. Uno di loro parlò in una lingua che a Matilde parve simile al francese e capì poco quello che stavano urlando. Forse è occitano. Durante il Medioevo, in Francia e in Italia, era una lingua amministrativa e giuridica in competizione con il latino, ricordò lei. Rimuginò osservandoli e le venne in mente che, molti cavalieri, figli minori di duchi e conti italiani, i quali non ereditavano la terra, erano costretti a cercare fortuna in giro per l’Europa e vendere le loro competenze di guerrieri ad altre ricche casate. Gentilmente costrinsero le cavalcature ad entrare in acqua. Erano giunti nel mezzo del rivo, quando uno dei destrieri, innervosito da qualcosa, s’imbizzarrì disarcionando un cavaliere, che cadde pesantemente nelle acque impetuose. Il peso della sua armatura lo trascinò a fondo, annegherà senza aiuto, pensò lei preoccupandosi. Istintivamente si lanciò in acqua, cercando di raggiungere l’uomo il più in fretta possibile, la sua testa era già scomparsa nei flutti, Matilde s’immerse prendendo fiato. Scorse il corpo che lottava cercando di liberarsi degli oggetti di metallo, gli prese il viso tra le mani e gli diede la sua aria, poi ritornò in superficie sbuffando, infine s’immerse di nuovo. Nel frattempo lui aveva gettato via lo scudo, arco e spada. Rimaneva solo la brigantina, anch’essa in parte di metallo, l’uomo era a corto d’aria, stava annegando. Freneticamente Matilde gli sfilò il pesante indumento, come aveva visto fare durante una fiera medioevale e con tutta la forza che possedeva lo trascinò verso riva.
“ Ehi voi, aiutatemi a sollevarlo, non ce la faccio da sola!”, urlò in dialetto agli altri due uomini che la stavano fissando attoniti.
Era quasi giunta sulla sponda, nuda, e l’acqua non poteva più aiutarla ad alleggerire il corpo. Uno dei due si riprese per primo e l’aiutò con il cavaliere svenuto.
“Mettetelo supino, presto!”, ordinò lei.
Una volta effettuata l’operazione, iniziò a praticargli la respirazione artificiale e il massaggio cardiaco.
“Uno, due, tre…”, contò lei fino a trenta, “uno, due….respiro”, cadenzò ricordando le nozioni di pronto soccorso.
Finalmente l’uomo emise un colpo di tosse e vomitò l’acqua che aveva bevuto. Continuò a tossire per circa dieci minuti, poi traendo un profondo respiro, si girò a guardarla. Il cavaliere le sorrise, aveva degli splendidi e maliziosi occhi chiari da gatto, e capelli scuri, con molti ricci scomposti. Un pizzetto scuro e riccio gli ricopriva il mento. Matilde rendendosi conto della sua nudità schizzò verso il cespuglio dove aveva nascosto il vestito, lo indossò velocemente, poi ritornò dal cavaliere. Questo le parlò in occitano, poi non ricevendo riposta da parte sua, passò al dialetto della valle Provininensis.
“ Chi siete? Una fata dei boschi?”, sondò scherzoso l’uomo.
“ Sono solo una donna, non una fata della foresta venuta a salvarvi. Stavo recandomi ad Arbizzano quando vi ho sentito cadere in acqua”, affermò ora respirando più tranquillamente.
“ Vi muovete agilmente nel torrente. E’ infido e profondo in alcuni punti”, replicò questi nello stesso idioma.
“ Vedo che vi siete ripreso, devo andarmene ora, felice di esservi stata d’aiuto”, si congedò Matilde.
Improvvisamente uno dei cavalieri, quello più anziano, che non era sceso da cavallo, la prese alle spalle e la trascinò sul suo baio. Matilde lottò tentando di liberarsi, ma l’uomo era troppo forte e continuava a tenerla ferma e stretta sul suo palafreno mentre discuteva con l’altro in occitano.
“Lasciatemi!”, urlò Matilde indignata e impaurita in francese.
Stranamente i cavalieri parvero comprenderla, tuttavia il guerriero che aveva salvato sbraitò degli ordini al più giovane che s’affrettò ad ubbidire. Matilde cercò di divincolarsi e fuggire, ma anche se molto giovane, il subordinato era robusto e determinato. La legò sul grosso cavallo da guerra del bel cavaliere e lei non poté far altro che attendere il suo destino. Il tragitto verso la meta sconosciuta non fu traumatico, Matilde infatti era tenuta in equilibrio dalle robuste braccia dell’uomo.
“ Io sono Paolo Aligari, figlio minore del conte Aligari, al quale sono state affidate le terre collinari di Fumane a Ovest di Verona. Voi chi siete?”, le domandò il cavaliere abbastanza gentilmente in un misto tra veneto e latino, con un forte accento occitano.
Matilde non si capacitava di tanta fortuna, tra tutti i cavalieri e guerrieri della valle aveva soccorso proprio un abitante del castello di Fumane.
“Mi chiamo Matilde, figlia di Ernesto il commerciante. I miei parenti sono morti in un’imboscata, io sola sono sopravvissuta. Il Signore Dio mi ha risparmiata”, raccontò brevemente in dialetto cercando di essere credibile.
Dopo alcune ore di cavalcata arrivarono alla fortificazione degli Aligari, questa ospitava la compagnia d’armi destinata a difendere la zona di Fumane dalle invasioni imperiali di Federico I, il Barbarossa, che, da alcuni decenni, minacciava con assedi, incendi e rapine molte città della Padania e dell’Italia settentrionale. La costruzione, un Mastio circondato da alte mura e arroccato su di una collina, sovrastava il villaggio e campi coltivati. Inoltre ai quattro punti cardinali erano state costruite delle tozze torri collegate tra loro dal bastione, dal quale le guardie potevano vigilare sul territorio. I terrazzamenti agricoli sottostanti erano coltivati a vigne, miglio, panico e sorgo. Le colture, destinate in gran parte al signore della terra e alla chiesa, sotto forma di decima, si muovevano con il vento. Rimane gran poco per sfamare la povera gente che fatica tutto il giorno nei campi, i cui raccolti sono soggetti alle sfavorevoli condizioni meteorologiche, rifletté Matilde osservando l’insieme.
“ Guardia, solleva la grata, porto una prigioniera”, urlò Paolo alla sentinella.
Questa ubbidì al suo signore, dentro le mura Matilde notò ad est una piccola cappella per le funzioni religiose dei nobili, ad ovest invece, vi erano le stalle e una costruzione bassa per la preparazione dei pasti. Là verranno grigliati interi cinghiali, cervi, maiali, piccoli vitelli e preparati minestroni, si eccitò lei. Ad attenderli di fronte al portone del Mastio c’era un uomo vestito riccamente, con capelli ricci brizzolati e folto pizzetto scuro. Sarà il castellano?, si domandò la studiosa aiutata a smontare dalle massicce braccia del guerriero.
“ Chi è la prigioniera Paolo?”, sondò questi.
“ L’abbiamo catturata vicino al torrente di Arbizzano padre. Si è comportata in modo molto strano. Vento si è imbizzarrito e io sono precipitato in acqua come un masso, sarei certamente annegato senza il suo aiuto. Mi ha soffiandomi aria nei polmoni e ho sputato tutta l’acqua”, raccontò succintamente il cavaliere trascinandola nella sala banchetti seguito dal nobile genitore e dagli altri due uomini.
“ Inoltre ha uno strano accento, decisamente non proviene dai villaggi della valle”, affermò il cavaliere più anziano.
Il vecchio castellano brizzolato la guardò attentamente, e Matilde rabbrividì. Lei non era una bellezza, troppo magra, di un pallore malsano, con poco seno, alta circa un metro e sessantatré centimetri, troppo per quel periodo, considerando che la donna media era circa un metro e quarantacinque/cinquanta centimetri, lentigginosa e con i capelli castano-rossicci tagliati malamente dalle suore alle spalle.
“ E’ certamente una spia di Federico I, rinchiudila nelle segrete”, ordinò burberamente il castellano.
“ No! Ho tutelato la vita di vostro figlio, non significa nulla per voi?”, urlò angosciata la studiosa del futuro.
Sapeva di non avere un bell’ accento, tuttavia sperava che il popolo della valle fosse tollerante in proposito.
“ No!”, replicò questi sgarbatamente.
Le cose non dovevano andare così, non voglio morire in una cella maleodorante, pensò lei presa dal panico, mentre il bellissimo giovane cavaliere la trascinava per buie scalette verso la prigione. Dovevo proprio amare il Medioevo, non potevo impazzire per i cavalli o per il giardinaggio?, rimuginò tristemente mentre l’uomo la spingeva dentro una cella e chiudeva la porta a chiave, Ora la macchina quantica giungerà, ma io non ci sarò e ripartirà vuota, pensò sconfitta.
1 Brigantina: Giubba foderata di piccole piastre di metallo attaccate con rivetti: le teste dei rivetti si vedono sull’esterno della giubba.
Articolo di Barbieri Giovanna del sito http://ilmondodigiovanna.wordpress.com. Tutti i diritti riservati.
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