Tutte le forme di tortura giudiziaria del Medioevo venivano inflitte solo a individui accusati di gravi crimini, quando su di loro pesavano sospetti precisi, al fine di ottenere una confessione che si erano rifiutati di fare durante l’interrogatorio ordinario. Il tormento della fune, o corda, o ancora della «colla», come questo supplizio veniva chiamato nel linguaggio piú corrente, era concepito per non far soffrire oltre un certo limite chi lo subiva. All’accusato venivano legate le mani dietro le spalle, poi lo si attaccava a una fune che passava per una carrucola fissata al soffitto della stanza e lo si tirava su, lasciandolo penzolare per aria per una durata che andava da un minuto a un’ora. La discesa poteva essere piú o meno brutale, a seconda della paura che si voleva mettere al delinquente. Lo si poteva anche lasciar ricadere d’un colpo fino a terra, dove si schiantava.
Se necessario, il «tratto» veniva ripetuto una, due o tre volte, prima che la vittima fosse riportata davanti al giudice. Allora e solo allora, dopo avergli lasciato il tempo di meditare sui pericoli corsi, il giudice riprendeva l’interrogatorio dell’imputato. Dal giudice e dagli esecutori dipendeva, dunque, in gran parte il grado di crudeltà del tormento inflitto all’imputato. Nel Medioevo non esistevano trattati su come praticare la tortura, e i codici di leggi – come per esempio gli Statuti comunali –, quando ne parlano, lo fanno con estrema sobrietà: si raccomanda tutt’al piú di limitare l’uso dei tormenti ai crimini piú gravi e di adeguare comunque la loro crudeltà alla condizione sociale dell’imputato e al valore degli indizi raccolti.
La «colla» presentava, appunto, il grosso vantaggio di consentire infinite gradazioni nelle sofferenze da infliggere al malcapitato e questa è senz’altro la ragione per la quale i giuristi del Medioevo la preferivano a ogni altro tipo di tortura. Può anche darsi, del resto, che la colla, o fune, fosse stata, all’inizio, l’unica forma di tortura ammessa dai tribunali dell’Italia comunale. Il che vuol dire che la tortura ha una sua storia che possiede, come tutte le storie, un inizio e una fine. La fine la conosciamo tutti, perché coincide con le grandi vittorie della civiltà moderna sui modi e costumi degli antichi regimi. Mentre pochi sanno, all’infuori degli storici del diritto, che la tortura nasce, o piuttosto rinasce, all’inizio del XIII secolo, in un contesto culturale ben preciso, quello appunto della «rinascita» del diritto romano, e che la sua diffusione segna una tappa decisiva nello sviluppo della civiltà giuridica.
Per comprenderlo, occorre accantonare per un momento il problema dei mezzi di tortura e focalizzare l’attenzione sulla funzione della tortura all’interno del sistema giudiziario. Fino al XII secolo, i tribunali seguivano un solo tipo di procedura, quella accusatoria: chi aveva subito un danno chiedeva giustizia al giudice, accusando l’autore del danno; in caso di omicidio, toccava alla famiglia della vittima – e a nessun altro – chiedere riparazione del crimine. L’accusatore, naturalmente, doveva produrre prove, orali o scritte, e il giudice, pur non essendo un conoscitore del diritto ma un «potente», cioè un conte o un signore, le esaminava con la dovuta attenzione. Ma al giudice non interessava la verità oggettiva dei fatti e nessuno gli chiedeva di indagare per sapere che cosa fosse realmente accaduto. Doveva solo ricercare o favorire la soluzione di un litigio che, se non fosse stato composto, avrebbe scatenato una guerra tra le parti e minacciato l’ordine pubblico.
Nei casi piú delicati, si poteva anche ricorrere all’ordalia, per esempio alla prova del ferro rovente o a quella dell’acqua bollente, oppure al duello, lasciando cosí alle forze sovrannaturali il compito di indicare l’esito del conflitto. Ma non alla tortura, che risponde, come vedremo fra un istante, a esigenze del tutto diverse. Il sistema giudiziario in vigore presso i popoli germanici non conosceva altri procedimenti e, quindi, negli Stati occidentali, la giustizia ha funzionato, salvo poche modifiche dovute a Carlo Magno, secondo le regole del processo accusatorio per tutto il periodo che va dall’arrivo dei barbari alla fine del XII secolo. Poi, nel giro di pochi decenni, le cose sono molto cambiate e si è assistito all’apparizione, accanto al procedimento accusatorio, di un nuovo tipo di processo: quello inquisitorio. Cos’era successo? Poco prima i giuristi italiani avevano scoperto le mille risorse del diritto romano, studiandolo direttamente sulle fonti originali, e non piú attraverso compilazioni tardive e corrotte. Ed è nei codici di Giustiniano, appunto, che i dottori di Bologna hanno scoperto l’esistenza di una procedura che consente allo Stato di perseguire gli autori di delitti pur in assenza di una parte querelante e che obbliga il giudice ad accertare la verità, se necessario anche con l’ausilio di mezzi coercitivi come il carcere e la tortura.
Il successo della nuova procedura fu immediato. Alla metà del XIII secolo era già di uso corrente presso i tribunali laici dell’Italia comunale. Ma la Chiesa, da parte sua, non fu meno solerte nell’intuire i vantaggi della procedura inquisitoria, che fu subito adottata dai tribunali creati alla stessa epoca – siamo nella prima metà del XIII secolo – dalla Santa Sede per reprimere l’eresia. Nascevano in tal modo i tribunali dell’Inquisizione, cosí chiamati proprio perché giudicavano secondo le regole del processo inquisitorio e agli inquisitori la Chiesa riconosceva, non meno che ai giudici laici, la facoltà di utilizzare la tortura. Inutile dire che il giudice, nell’impiegare questi metodi, deve agire con grande discernimento: la tortura serve ad accertare la verità, deve fornirgli la prova che manca, vale a dire la confessione di colui che tutti gli indizi indicano come il principale sospetto. Va quindi applicata in circostanze ben precise, che la legge, per esempio nei Comuni italiani, dove il suo uso si diffonde abbastanza presto, delimita con estrema severità: ci vogliono un presunto colpevole di cattiva fama, un crimine particolarmente grave, indizi seri e numerosi.
D’altra parte la tortura non deve far soffrire oltre il necessario, né mettere in pericolo la vita dell’imputato, o anche solo minacciarne l’integrità fisica. Tutte queste cautele per limitare l’uso e la crudeltà della tortura impediscono allo storico di oggi di formulare su di essa giudizi cosí severi come quelli emessi, in tempi ben diversi dai nostri, da personaggi come Voltaire e Cesare Beccaria. Ma c’è di piú: gli storici del diritto non dubitano un istante che la tortura, utilizzata e disciplinata come lo era nel quadro del processo inquisitorio, abbia segnato un grande progresso nel funzionamento della giustizia, perché fondava la sentenza sulla verità dei fatti, e non piú sulla capacità delle parti di far prevalere i propri diritti. E dal loro punto di vista, che è quello della dottrina giuridica, non hanno torto. Solo che, nella realtà di ogni giorno, molti giudici non esitavano a fare della tortura un uso distorto, applicandola fuori misura, con strumenti molto piú crudeli della semplice fune e al servizio di interessi che avevano ben poco da spartire con la manifestazione della verità.
Abbiamo per esempio la cronaca di Dino Compagni, un fiorentino dell’inizio del Trecento molto critico nei confronti dei giudici, ai quali rimprovera di essere corrotti e servi della nobiltà. Vi leggiamo che nella sua città, dove infuriava la lotta tra le due fazioni dei Neri e dei Bianchi, la colla veniva sistematicamente utilizzata per terrorizzare i prigionieri politici, anche quando non avevano piú niente da confessare. Uno di loro non sopravvisse al tormento. Per un altro, il giudice volle aggiungere i tormenti psicologici oltre a quelli fisici: ordinò di «mettere alla colla» l’imputato, che era un famoso uomo di legge di Firenze e poi, mentre lo si teneva sollevato, fece aprire finestre e porte del palazzo e invitò la folla ad assistere allo spettacolo e a deridere il suppliziato.
Ma, perlomeno, ci pare di capire che la Firenze dell’epoca di Dante non aveva ancora sostituito la colla con altri e piú terribili strumenti di tortura. Non fu dappertutto cosí e, senza parlare dei tormenti piú raccapriccianti che la barbarie umana non ha cessato mai di inventare, nel Medioevo come oggi, la giustizia medievale utilizzò, con la benedizione dei giuristi, forme di tortura che non ebbero tutte la relativa innocuità della colla. Una delle piú diffuse consisteva nello stringere al di là del sopportabile le membra del soggetto; i carnefici disponevano per questo di una gamma infinita di strumenti, dai piú semplici ai piú sofisticati.
Usavano per esempio lo stivaletto, o «stivale spagnolo», una specie di gambale di ferro dentro il quale, con un meccanismo a vite, si stringeva la gamba del malcapitato fino a spezzargli le ossa. Non serviva tanta crudeltà con donne e ragazzi: bastava mettere loro tra le dita delle mani congiunte zufoli o cannette e stringere con una cordicella. Il fuoco offriva naturalmente mille possibilità di tormento: una della piú semplici consisteva nell’ungere i piedi del malcapitato di turno con olio o lardo, accendendovi sotto un buon fuoco; il supplizio poteva durare «il tempo di un credo e di due miserere», ci dicono le fonti, e ripetersi a discrezione del giudice. E come non citare, per finire, il tormento della «lingua caprina», noto tanto in Occidente come in Oriente?
La tecnica non cambiava da una civiltà – si fa per dire – all’altra: si cospargevano di sale o di acqua salata i piedi del reo, assicurato a una seggiola, e si invitava una capra, possibilmente affamata, a leccarglieli; in teoria, la capra con la sua lingua ruvida poteva consumare pelle e muscoli del suppliziato e arrivare fino all’osso. In teoria: perché nella realtà sembra che questo tormento sia esistito solo nell’immaginazione fertile e perversa di certi giuristi. Che sollievo!
Usavano per esempio lo stivaletto, o «stivale spagnolo», una specie di gambale di ferro dentro il quale, con un meccanismo a vite, si stringeva la gamba del malcapitato fino a spezzargli le ossa. Non serviva tanta crudeltà con donne e ragazzi: bastava mettere loro tra le dita delle mani congiunte zufoli o cannette e stringere con una cordicella. Il fuoco offriva naturalmente mille possibilità di tormento: una della piú semplici consisteva nell’ungere i piedi del malcapitato di turno con olio o lardo, accendendovi sotto un buon fuoco; il supplizio poteva durare «il tempo di un credo e di due miserere», ci dicono le fonti, e ripetersi a discrezione del giudice. E come non citare, per finire, il tormento della «lingua caprina», noto tanto in Occidente come in Oriente?
La tecnica non cambiava da una civiltà – si fa per dire – all’altra: si cospargevano di sale o di acqua salata i piedi del reo, assicurato a una seggiola, e si invitava una capra, possibilmente affamata, a leccarglieli; in teoria, la capra con la sua lingua ruvida poteva consumare pelle e muscoli del suppliziato e arrivare fino all’osso. In teoria: perché nella realtà sembra che questo tormento sia esistito solo nell’immaginazione fertile e perversa di certi giuristi. Che sollievo!
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