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venerdì 17 giugno 2016

1529 - FIRENZE SOTTO ASSEDIO

L'assedio di Firenze, affresco in Palazzo Vecchio

Storia della disperata resistenza della Repubblica fiorentina alle truppe imperiali, fra realtà e mito. 

FIRENZE DOPO LA CALATA DEI LANZICHENECCHI

“Abbiamo preso d'assalto Roma; gli uccisi furono più di seimila, saccheggiata l'intera città, nelle chiese e dentro la terra prendemmo tutto ciò che trovammo”. Così scriveva Sebastian Scherthlin, un lanzichenecco che partecipò al sacco di Roma del 1527. Le sue brevi parole descrivono con rara efficacia la foga e la furia dell'esercito imperiale che per settimane ebbe tra le mani la preda più succosa che l'Europa aveva da offrire, la Città Eterna. Bartolomeo da Gattinara scrisse che i Lanzichenecchi si erano “governati come veri luterani”. Era questo il tragico epilogo della guerra accanita contro l'ingombrante presenza di Carlo V in Italia. La Lega di Cognac, formatasi nel 1526 e composta dalla Francia di Francesco I, dal Papato, dalla Repubblica di Firenze, dai Veneziani, dai Milanesi, dai Genovesi, subiva lo smacco più grave. L'obiettivo di allentare la morsa di Carlo V sulla penisola si era rivelato, in definitiva, troppo ambizioso. L'incontrastato imperversare delle truppe dell'imperatore su tutto il territorio italiano ne era la prova più eloquente.

A Firenze la notizia dello spaventoso sacco fu in un primo momento tenuta nascosta dalle autorità. La città era allora retta da Ippolito e Alessandro de' Medici, sotto la vigilanza del legato pontificio Silvio Passerini e con il benestare di papa Clemente VII, al secolo Giulio de' Medici (in quanto figlio illegittimo di quel Giuliano vittima della congiura dei Pazzi del 1478). Il motivo di tanta segretezza risiedeva nel timore che i repubblicani in città, ostili dalla dominazione medicea, insorgessero non appena saputo di Roma saccheggiata e di Clemente VII rinchiuso in Castel Sant'Angelo.

Le paure non erano infondate: all'udire la notizia del sacco, che del resto era fin troppo eclatante per poter essere tenuta nascosta a lungo, i Fiorentini colsero al volo l'occasione per restaurare le libertà repubblicane. Filippo Strozzi, Niccolò Capponi, Francesco Vettori e buona parte del patriziato fiorentino costrinsero il cardinal Passerini, Ippolito e Alessandro de' Medici a lasciare Firenze.

Rinacque così la Repubblica fiorentina, nella forma di un “regime democratico-oligarchico, di tipo veneziano” (Alessandro Monti). Furono perciò ripristinati organi e magistrature tipicamente repubblicani, come il Consiglio Maggiore o i Dieci di Libertà e Pace e alla carica di gonfaloniere venne eletto Niccolò Capponi, uomo di una certa età noto per la sua moderazione e la sua prudenza nonostante la passata vicinanza al Savonarola. La questione centrale, al di là del quadro istituzionale, era tuttavia una e una soltanto: come e con chi schierarsi nella complessa trama dei conflitti e delle relazioni internazionali?

LA REPUBBLICA CONTRO TUTTI

La Repubblica doveva darsi degli obiettivi in politica estera, assicurandosi al contempo la stabilità sul versante interno. Un compito, quest'ultimo, reso particolarmente difficile dalla diffidenza, dal sospetto e dalle accuse verso tutti coloro che in qualche modo erano stati legati al passato regime, come Francesco Guicciardini o Jacopo Salviati. Il Capponi si adoperò al massimo delle sue possibilità per la coesione della Repubblica, ma senza successo. La pestilenza scoppiata nel giugno dello stesso 1527 e il protrarsi della lotta contro le truppe imperiali certo non rendevano il quadro migliore. Forse fu proprio la gravità della situazione a spingere il Capponi a far proclamare Gesù Cristo Re di Firenze, come era accaduto ai tempi di Savonarola. La mossa se non altro gli valse il favore dei Piagnoni.

Ma era sul fronte della politica estera che la Repubblica di Firenze, quasi senza accorgersene, stava consumando quello che autorevolmente è stato definito il suo “peccato originale”. L'inclinazione naturale del nuovo regime, nato dalla totale rottura col passato mediceo e di conseguenza con Clemente VII, sarebbe stata quella filoimperiale: Carlo V avrebbe certamente accolto con favore un alleato tanto ostile al papa, specialmente se quell'alleato era un membro della lega di Cognac che mutava schieramento. E invece, contro ogni logica, ma in ossequio alla linea tradizionalmente tenuta dalla Firenze degli anni precedenti, la Repubblica aveva deciso di mantenere la sua posizione filofrancese, con il risultato di aver dato ai due uomini più potenti d'Europa, Carlo V e Clemente VII, un motivo in più per riavvicinarsi.

Il Capponi, da uomo avveduto qual era, era conscio dei rischi di una guerra contro l'Impero e il Papato, considerata in particolare l'esiguità delle forze fiorentine, ormai ridotte ai minimi termini dopo i conflitti degli ultimi anni. Proprio tali timori lo spinsero a riprendere le relazioni diplomatiche con alcuni emissari del papa, nella speranza di allontanare il pericolo di una guerra già persa in partenza. Questa sua iniziativa, realista e saggia, non passò tuttavia inosservata alle fazioni più estremiste della Repubblica: una lettera ritrovata il 16 aprile 1529 dal suo avversario Jacopo Gherardi rivelò la corrispondenza del gonfaloniere con l'odiato Clemente VII. L'accusa di aver tramato contro la Repubblica, certo una strumentalizzazione politica, costò al Capponi la carica. Già il 17 aprile dovette dimettersi.

Al suo posto fu eletto Francesco Carducci, un leader degli Arrabbiati di umili natali. Intransigente verso qualunque compromesso con i Medici e con gli esponenti della precedente classe dirigente, fino ad allora non aveva mai avuto un ruolo di primo piano nella politica fiorentina. Cionondimeno il suo estremismo compensò quel che gli mancava in termini di notorietà: il Carducci, stando a quanto riferito da una relazione inviata a Carlo V, “havea abbracciata la Repubblica con intention di doverla governare con quelle maniere, che più piacevano al popolo (…) e d'havere a essere asprissimo nimico de' nobili, e della famiglia de' Medici”. Inutile dire che le trattative con Clemente VII furono interrotte bruscamente. Firenze aveva scelto la guerra.

IL NEMICO ALLE PORTE

Nel frattempo gli ultimi sviluppi nel sistema delle alleanze avevano drasticamente mutato l'assetto delle relazioni internazionali. Nel giugno 1529 Carlo V e Clemente VII siglarono il trattato di Barcellona, con cui l'imperatore prometteva di riconquistare Firenze per i Medici in cambio della riappacificazione e dell'incoronazione papale (che sarebbe avvenuta a Bologna l'anno successivo). Inoltre nello stesso anno la pace di Cambrai pose fine, almeno per il momento, al conflitto tra Carlo V e Francesco I, sancendo la rinuncia di quest'ultimo a Napoli e a Milano in cambio della restituzione della Borgogna. Firenze era rimasta sola, come previsto dal Capponi.

Alla Repubblica non restò che preparare le sue difese. Dell'arduo compito si occupò, tra gli altri, Michelangelo, incaricato di potenziare le fortezze del dominio, come Livorno e Pisa, e di progettare nuove fortificazioni per la città attorno alla chiesa di San Miniato, luogo ideale per l'artiglieria. Il risultato fu ottimo: all'inizio dell'assedio Firenze “era ben fortificata e pressoché inespugnabile” (Najemy).

L'esercito fiorentino era composto da 10.000 mercenari e dalla milizia cittadina, rifondata nel novembre del 1528. Quest'ultima arrivò a contare diecimila uomini e durante l'assedio, spinta dall'ardore repubblicano e dalla retorica che si ricollegava alla grandezza di Roma e di Sparta, diede prove di valore e di coesione degne di nota. Il comando della difesa fu assegnato a Malatesta Baglioni, signore di Perugia, figura tra le più controverse dell'intera vicenda. Almeno sulla carta era un soldato di professione e la guerra la conosceva bene, come aveva dimostrato al servizio della Repubblica di Venezia. Ma nei fatti si sarebbe rivelato meno affidabile di quel che sembrava.

LA REPUBBLICA SOTTO ASSEDIO

Le truppe imperiali si presentarono di fronte alla città già sul finire del 1529. Il comando degli assedianti fu affidato a Filiberto di Chalons, principe d'Orange, generale molto apprezzato dall'imperatore Carlo V per la prudenza e le doti diplomatiche. Fra truppe tedesche, italiane e spagnole, disponeva inizialmente di circa 11.000 uomini, ma in seguito arrivò forse a contare su 30.000 unità.

L'esercito imperiale si accampò a sud dell'Arno. Il 12 ottobre il fuoco d'artiglieria proveniente dalle postazioni della Repubblica segnò l'inizio di un lungo, estenuante assedio. Nonostante i propositi del principe d'Orange di far breccia rapidamente nelle mura fiorentine, i combattimenti precipitarono in una fase di sconfortante stallo: gli assedianti, da un lato, si cimentavano in infruttuosi assalti alle fortificazioni di Firenze; gli assediati, dall'altro, tentavano disperate sortite per scompigliare lo schieramento imperiale.

Furono mesi orribili per i Fiorentini, terrorizzati dal martellamento dei bombardamenti avversari e decimati dalla peste e dalle cruente scaramucce. Persa fiducia nell'immobilismo del Baglioni, sempre più speranze erano riposte in un altro condottiero della Repubblica, Francesco Ferrucci. Allora quarantenne, il Ferrucci sarebbe divenuto l'eroe dell'assedio di Firenze, un onore che ben pochi di quelli che lo conoscevano gli avrebbero attribuito. Il filomediceo Francesco Baldovinetti ha scritto infatti che era un “uomo levato ad alterarsi, bestiale, bestemmiatore, crudelissimo, volenteroso, animoso e senza ragione”. Divenuto commissario a Empoli per conto della Repubblica fiorentina nel 1528, seppe tuttavia dimostrare la sua tenacia e il suo valore sul campo, dando un importante contributo nella predisposizione delle difese di Firenze e dell'area circostante. Divenne famoso per la repressione della rivolta della ribelle Volterra nell'aprile del 1530 e per il modo in cui riuscì a respingere i successivi attacchi di Fabrizio Maramaldo, capitano di ventura al servizio delle truppe imperiali. Malgrado le stravaganze, il Ferrucci era l'unica di speranza di mantenere in vita la libertà del popolo fiorentino.

Frattanto a Firenze le cose non si mettevano bene. Dal gennaio del 1530 l'esercito imperiale, grazie all'apporto di forze fresche, era riuscito a chiudere l'accerchiamento della città, ormai circondata da tutti i lati. A causa del blocco delle principali arterie di rifornimento, il prezzo delle derrate era salito alle stelle e il governo aveva dovuto stabilire il razionamento del cibo. Alla fame si era aggiunta anche una maggiore pressione fiscale, imposta dalle autorità per far fronte alle spese militari. E tuttavia, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, i Fiorentini, pervicaci come non mai, non persero neanche allora la loro compattezza; anzi dichiaravano con fierezza di essere “poveri, e liberi”. Testimonianza preziosa della profonda convinzione del popolo fiorentino è senza dubbio l'orazione alla milizia pronunciata il 3 febbraio 1530 da Bartolomeo Cavalcanti, nobile fiorentino sostenitore della Repubblica. Questi parlò ai concittadini utilizzando ogni espediente retorico per rafforzarne lo zelo, perfino quello dell'indipendenza della penisola italiana: “Difendesi la gloria del nome italiano da barbare e di quello inimicissime nazioni”.

“VILE, TU UCCIDI UN UOMO MORTO!”: DISFATTA A GAVINANA

Il governo fiorentino, consapevole della sempre maggiore scarsità di uomini da arruolare nonché dell'esiguità delle scorte, ordinò al Ferrucci di far convergere le sue forze (3000 fanti e 300 cavalleggeri) verso Firenze per spezzare l'assedio dall'esterno. Ma accadde qualcosa di inatteso: il principe d'Orange lasciò improvvisamente Firenze con un robusto distaccamento di 3000 uomini e di 1000 cavalieri e marciò a nord in cerca del Ferrucci, affidando il comando dell'assedio a Ferrante Gonzaga. Come poteva il comandante in capo delle truppe imperiali essere sicuro che, portando con sé tanta parte del suo esercito, il Baglioni non ne avrebbe approfittato per tentare una sortita con buone probabilità di vittoria? Stando alla tradizione storiografica, Benedetto Varchi (1503-1565) in testa, la spiegazione va ricercata nel tradimento: il comandante delle truppe fiorentine, certo dell'inevitabilità della disfatta e desideroso di mantenere le concessioni papali su Perugia e altre località, avrebbe promesso al principe d'Orange di non attaccare il campo degli assedianti durante l'assenza di quest'ultimo.

Tralasciando il dibattito sul ruolo e sulle reali intenzioni del Baglioni, da questa complessa fase di manovre e, forse, di sotterfugi emerse con chiarezza che sarebbe stata una battaglia a decidere le sorti dell'assedio. E fu il 3 agosto 1530 che lo scontro tanto atteso ebbe luogo nelle vicinanze di Pistoia, presso l'oscuro borgo fortificato di Gavinana.

La giornata, occorre dirlo, fu decisa già dalle manovre preliminari delle truppe imperiali. Il Ferrucci infatti, indugiando eccessivamente nel saccheggio del borgo di San Marcello, situato poco a ovest di Gavinana, aveva perso di vista i movimenti delle forze imperiali, al punto da lasciarsi circondare: alle spalle aveva la fanteria italiana e spagnola guidata da Alessando Vitelli e le bande panciatiche di Niccolò Bracciolini, a nord gli uomini di Fabrizio Maramaldo e di fronte le truppe imperiali del principe d'Orange provenienti da Firenze. Ben poco era lo spazio riservato alla strategia: l'obiettivo era aprirsi un varco in quel cerchio mortale.

I primi combattimenti videro prevalere la cavalleria fiorentina su quella del principe d'Orange. Gli uomini del Ferrucci, a suon di cariche furibonde, si guadagnarono l'ingresso nel borgo di Gavinana, proprio mentre Maramaldo vi entrava indisturbato con i suoi dall'altro lato del paese. Il principe d'Orange nel frattempo, ricompattate le sue forze, si lanciò in una carica vigorosa, spingendosi più in là di quanto sia concesso a un generale in battaglia. Quasi come punizione per aver svolto “offizio più di uomo d'armi che non di capitano” (Francesco Guicciardini), l'Orange fu colpito in pieno da due palle di archibugio sul petto e sul collo. La morte del loro comandante rese per un momento titubanti le truppe imperiali e diede un barlume di speranza al Ferrucci di poter spezzare la morsa dell'avversario. Ma la pressione di Maramaldo all'interno del borgo unita a quella dei nemici che aveva di fronte non permettevano di illudersi troppo.

La situazione si aggravò quando le truppe imperiali, sbaragliati i nemici che erano rimasti fuori da Gavinana, ebbero mani libere per condurre l'offensiva finale. Iniziò così l'estrema difesa del Ferrucci e dei suoi uomini contro forze schiaccianti che attaccavano da ogni lato e senza sosta. La battaglia raggiunse il suo momento più epico, ma il destino di quel che rimaneva dell'esercito fiorentino era segnato. Dopo una disperata resistenza, il Ferrucci e le sue truppe furono presi prigionieri. Il capitano fiorentino, che a detta di tutte le fonti coeve si era battuto come un leone, era gravemente ferito. Nonostante questo, Maramaldo, suo nemico di sempre, lo volle finire con le sue mani. La leggenda racconta che il Ferrucci prima di essere ucciso avrebbe detto: “Vile, tu uccidi un uomo morto!”.

UN DUCA PER FIRENZE

La disfatta di Gavinana segnò la fine delle speranze della Repubblica. Il 12 agosto 1530, presso la chiesa di Santa Margherita a Montici, fu siglata la resa. Per volere di Carlo V Alessandro dei Medici fu posto a capo della Repubblica fiorentina, per poi divenirne duca dal 1532. Il suo governo non sarebbe tuttavia durato a lungo: già nel 1537 fu brutalmente assassinato, lasciando il posto ad un membro dei Medici del ramo "popolare", Cosimo (1519-1574), figlio del celebre Giovanni dalle Bande Nere. Il suo governo, fortemente accentrato, inaugurò la lunga esperienza del Granducato di Toscana, passata attraverso l'estinzione della dinastia medicea con la morte di Gian Gastone (1737), la dominazione lorenese e, dopo la parentesi napoleonica, le travagliate vicende risorgimentali.

Di questa vicenda plurisecolare l'assedio di Firenze fu il preludio. Il fallimento della Repubblica mostrò infatti l'impossibilità per uno Stato italiano di sfidare apertamente i giganti d'Europa e mise a nudo il drastico ridimensionamento dell'Italia e delle sue realtà politiche nel panorama internazionale. L'unica via per sopravvivere era dotarsi di una costituzione monarchica, allineandosi alle tendenze politiche dell'epoca, e magari trovare la protezione di una potenza straniera. Soltanto la Repubblica di Venezia, in ambito italiano, mantenne saldamente la sua indipendenza e il suo assetto istituzionale.

Nonostante questa fine apparentemente irreversibile di tutto ciò che la resistenza della Repubblica fiorentina aveva rappresentato, la cultura del Risorgimento studiò con sommo interesse l'assedio di Firenze del 1529, elevato a simbolo dell'opposizione "italiana" allo straniero. Basti pensare a Francesco Domenico Guerrazzi, il quale pubblicò sulla vicenda un fortunato romanzo storico nel 1836, e ai molti che lo imitarono. Perfino Giuseppe Verdi pensò di realizzare un'opera in musica sul Ferrucci e si potrebbe andare avanti a lungo con le citazioni. In fondo è soprattutto questo che stupisce della Storia: i suoi fili non smettono mai di intrecciarsi.

Articolo di Giulio Talini, tutti i diritti riservati.

BIBLIOGRAFIA

- John M. Najemy, "Storia di Firenze. 1200-1575", Einaudi, Torino, 2014
- Furio Diaz, "Il Granducato di Toscana - I Medici", UTET, Torino, 1987
- Piero Bargellini, "La splendida storia di Firenze", Vallecchi, 1980
- Alessandro Monti, "L'assedio di Firenze (1529-1530). Politica, diplomazia e conflitto durante le guerre d'Italia", Pisa University Press, Pisa, 2015
- G. F. Young, "I Medici", Salani, Firenze, 1941
- Francesco Guicciardini, "Ricordi", Garzanti, Milano, 2012
- Francesco Guicciardini, "Storia d'Italia", a cura di S. Seidel Menchi, Einaudi, Torino, 1971
- Benedetto Varchi, "Storia fiorentina", Salani, Firenze, 1963
- Giuseppe Lisio (a cura di), "Orazioni scelte del secolo XVI", Sansoni, Firenze, 1957
- Geoffrey Parker, "La rivoluzione militare", Il Mulino, Bologna, 2007
- Salvador De Madariaga, "L'impero di Carlo V", Res Gestae, Milano 2015




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